Il tradimento della tradizione (e un succo d’uva)

Il tradimento della tradizione (e un succo d’uva)

di Tommaso Ciuffoletti

PREMESSA

Il dibattito innescatosi a seguito della pubblicazione del pezzo di Jacopo Cossater intitolato “Ha senso valutare un vino senz’alcol?” e successivamente di quello Clizia Zuin, “I vini alcol free visti da un ristorante stellato”, ha coinvolto tante voci e si è prolungato in quello che ormai è diventato un vero e proprio filone con tanto di dibattiti social ed immancabili meme di Italian Wine Drunkposting. Tralasciando gli interventi più scomposti, il fuoco dell’attenzione – come giusto – si è puntato sulle ragioni del marketing e del cambiamento nelle abitudini di consumo.

Tuttavia, in questa discussione, può forse trovare spazio anche un altro punto di vista, che nasce da un’esperienza piccola, piccola, piccola, ma che può offrire spunti oltre gli aspetti degustativi o commerciali. Un’esperienza di produzione di succo d’uva per cercare di rispondere alla domanda: cos’è la tradizione?
Lasceremo da parte il marketing per trattare invece di natura, Giuda e DNA, Buddha, sfratti e ghetti, succo d’uva e Islam. Di tradizione per il futuro, partendo dall’etimologia della parola italiana “tradizione”… che viene dallo stesso verbo latino che ha generato la parola “tradire”.

TRADIMENTO E TRADIZIONE

Nuovo progetto (16)

Il verbo tradire e la parola tradizione vengono entrambe dal latino tradĕre (composto di tra- “oltre” e dăre “dare”), che voleva dire propriamente “consegnare, affidare”. In questo senso è piuttosto semplice cogliere il legame con la parola “tradizione”, nel senso di qualcosa che ci viene consegnato dal passato e che noi consegniamo al futuro. Ma com’è che un verbo che significava “consegnare” si è legato al tradimento?

È nel latino cristiano che si sviluppa questa accezione particolare, che si lega al concetto di consegnare qualcosa (o qualcuno) al nemico. Pensate al tradimento di Giuda, che consegna Gesù ai suoi persecutori. Per dirla con le parole di Cristiana De Santis, illustre docente di Linguistica all’Alma Mater di Bologna:

Questa accezione si è sviluppata nel latino cristiano, a partire dall’interpretazione dell’atto di Giuda (la consegna di Gesù alle guardie) come tradimento verso una figura che simboleggia amore, e quindi come “tradimento d’amore”. Interpretazione che si è conservata fino a noi, che identifichiamo il tradimento con l’adulterio (o, più in generale, con l’infedeltà amorosa), sebbene il gesto di Giuda possa essere, e sia stato interpretato, anche in modo opposto, quale gesto d’amore che permette il compiersi del destino del figlio di Dio; rovesciando la prospettiva, del resto, si potrebbe riconoscere in Giuda non il traditore, ma il tradito (da un Cristo incapace di adempiere a quel ruolo politico che molti si aspettavano da lui).

LA TRADIZIONE HA A CHE FARE COL FUTURO (e le parole sono importanti)

Nuovo progetto (17)

Torneremo in chiusura sul tradimento, nel frattempo chiariamo che la tradizione è ciò che ci è stato consegnato da chi era prima di noi, sì, ma è anche – se non soprattutto – ciò che noi consegneremo a chi sarà dopo di noi. Non è conservazione dell’esistente, ma un lavoro di recupero e trasmissione. Impone – a chi se ne voglia far carico – un pensiero e un sentire proiettati al futuro. Non è un lavoro da gendarmi di purezze passate che, oltretutto, non esistono e se esistono son per la gran parte invenzioni farlocche (e se qualcuno ha colto il riferimento dell’immagine di copertina può ben sorridere). [1]

Eppure viviamo i tempi in cui – ad uso politico si tornano a sventolare stupide bandiere di purezze inventate e sorvolerò per carità di patria (come usa dire) su quel militare che parla di “razza italica” e viene eletto vate della destra identitaria.

Purezze imposte al dibattito attraverso  l’abuso delle parole. Una di queste è l’aggettivo naturale per ragioni che con la natura non hanno nulla a che fare, ma ne hanno con l’impacchettare un’idea per renderla pregiudizialmente positiva agli occhi di un pubblico che – da qualche decennio a questa parte, in questa parte di mondo – tende spontaneamente a vedere nella natura qualcosa di buono a prescindere (e anche qui, è divertente notare il paradosso di quanto sia artificiale vestire panni morali la natura… un regno che alla morale, naturalmente, sfugge).
Un inganno a cui pure tanti hanno avuto ed hanno agio di prestarsi.

Vale – ad esempio – per la famosa “famiglia naturale”. Quella schematica vicenda di uomo+donna+prole che vivono e crescono insieme senza alcuna variazione su tema è un’istituzione sociale che si è andata affermando ed è andata ottenendo riconoscimento in un parte limitata di mondo, in un arco di tempo ancor più limitato rispetto all’esperienza umana che invece ha contemplato e ancora serenamente contempla infinite variazioni su tema e anche la presenza di modelli completamente alternativi. [2] Eppure a tanti conservatori, tipicamente quelli meno onesti intellettualmente, rimane comodo usare questa formula “famiglia naturale” da opporre a tutti coloro che, non rispettando quello schema (del tutto artificiale), divengono inevitabilmente dei contro natura. Una mistificazione scorretta e oppressiva. Da respingere.

Ma se si è rigorosi intellettualmente, si accetterà di sentirsi dire che anche “vino naturale” è una formula artificiosa, per inquadrare sotto quella luce pregiudizialmente buona un prodotto che è figlio dell’uomo dal momento stesso in cui viene addomesticata la vite e impiantata una vigna. Prima ancora di ogni fermentazione spontanea o meno, di ogni solfito, di ogni albumina, bentonite o altro.
Certo, stiamo parlando di vino, un ambito più circoscritto e meno rilevante per le vite delle persone rispetto alla battaglia politica sulla famiglia. Certo, sappiamo che quell’aggettivo è usato per definire genericamente un vino prodotto con limitato intervento manipolativo. Certo, ma l’uso non corretto delle parole è il medesimo e il risultato, ad essere onesti, è che alla fine “vino naturale” è diventato più una categoria merceologica che altro. E forse non poteva che finire così se si accetta che res sunt consequentia nominum.

È NATURALE NON ESSERE PURI

Credit: David George Haskell

Credit: David George Haskell

Per quel che vale, si può provare a riscattare la natura dal sequestro della politica e del marketing per riportarla ad essere oggetto di osservazioni interessate a conoscere, più che ad accattivare simpatie. Questo passaggio di un libro, brillante e utile, di George Haskell – docente di biologia alla University of the South (Tennessee) – ci rasserena su un punto la cui evidenza è a portata di chiunque: la natura non è fatta di purezze, ma di un’infinita storia di commistioni, talmente profonde che ce le portiamo dentro anche in quel codice della vita che è il nostro Dna di esseri umani.

È la spirale chimica della vita, il Dna porta i segni di unioni antiche. I nostri antenati batterici scompigliavano e si scambiavano i geni fra le specie, mescolando istruzioni genetiche così come i cuochi si copiano le ricette. Di tanto in tanto due chef potevano decidere di mettersi in società e due specie si fondevano in una. Il Dna degli organismi moderni, incluso il nostro, rivela ancora le tracce di queste fusioni. Pur funzionando come unità singola, i nostri geni sono caratterizzati da due o più stili di scrittura ingegnosamente diversi, vestigia delle varie specie che si sono unite miliardi di anni fa: “albero della vita” è una metafora insufficiente a rendere l’idea. Le parti più profonde della nostra genealogia assomigliano a reti o delta fluviali, ricchi di intrecci e flussi che si incrociano. Siamo come matrioske: se esistiamo è grazie alla vita di chi vive dentro di noi. [3]

Il libro di Haskell ci viene doppiamente utile, perché si tratta della cronaca di un anno di osservazioni dedicate ad un pezzo di terra piccolissimo: un cerchio di 1 metro di diametro. Meno di un metro quadrato di foresta del Tennessee a cui Haskell dedica un’attenzione quotidiana e lo fa per prendere spunti utili a raccontare tanto di più di quel che un occhio distratto potrebbe non vedere mai.

Quel piccolo pezzo di terra è un piccolo, infinito mandala. I mandala appaiono – ad occhi distratti, appunto – come dei disegni arzigogolati, di forma tipicamente tondeggiante, realizzati attorno ad un punto centrale, perché da lì si sviluppano. A volte, sono disegni molto semplici o al contrario molto complessi, ma sono sempre organizzati attorno ad un centro che si apre sull’infinito. Nel buddhismo tibetano in particolare, i mandala sono realizzati con la sabbia e normalmente spazzati via poco dopo la loro completa realizzazione.

Il mandala racchiude in sé molteplici significati: la concentrazione richiesta per la sua creazione, l’equilibrio fra complessità e coesione, i simboli rappresentati nel disegno e la sua transitorietà. Nessuna di queste caratteristiche definisce tuttavia lo scopo ultimo della sua costruzione. Il mandala è una ri-creazione del percorso della vita, del processo di formazione del cosmo e dell’illuminazione del Buddha. Da questo piccolo cerchio di sabbia, passa la visione dell’intero universo. […] Sono convinto che le storie ecologiche della foresta siano tutte rappresentate in un’area grande quanto un mandala e addirittura che la verità della foresta possa essere rivelata in modo più intenso e chiaro, dalla contemplazione di una piccola superficie, che non indossando gli stivali delle sette leghe per coprire lunghe distanze in un intero continente, senza però scoprire quasi nulla. [4]

È TRADIZIONE NON ESSERE PURI
E SAN GIOVANNI DELLE CONTEE È IL MIO PICCOLO INFINITO MANDALA

Il mio piccolo mandala è un paese di 130 abitanti alla periferia della periferia del niente [5], tra Toscana e Lazio. Si chiama San Giovanni delle Contee e se leggete Intravino lo avrete già incontrato su queste pagine. Il piccolo cerchio di terra del mio mandala sangiovannese ha una storia che, più che nei libri, è scritta nella terra e nei paesi, è scritta nelle case, nei boschi, nei campi, nelle persone, nel vino, nei quaderni di ricette delle nonne. Ed è scritta anche nei dolci, come in uno così squisitamente tipico, tradizionale, purissimamente identitario, direbbe qualcuno, eppure nato da un incontro che vi racconto in questo vecchio video, per chiarire che – così come la natura – anche la tradizione, essendo qualcosa di vivo – tutto è, tranne che affare di purezze.

Quello che mostro nel video è uno “sfratto”, un dolce tipico delle mie zone e per “mie zone” intendo Sorano, Pitigliano… e lo si fa anche a San Giovanni delle Contee. Questo in particolare l’ha fatto la mia zia Orlanda sulla base della ricetta di mia nonna Caterina. È quindi un dolce estremamente tradizionale. Dentro questa pasta c’è un ripieno di frutta secca, miele e spezie tra cui in particolare la cannella (chiodi di garofano anche). È proprio un dolce tipico di questa piccola terra, isolata e nascosta, quindi si potrebbe quasi dire che è un dolce “sovranista”.

Questo dolce racconta una storia che è quella di tante tradizioni che sembrano pure, nella loro nella loro perfetta linearità identitaria. Ma che non lo sono! Perché in realtà questo dolce racconta esattamente la storia di un incrocio: tra la vicenda di questa terra e quella della comunità ebraica che qui si installò, in particolare a Sorano e poi a Pitigliano, intorno al XVI secolo. Questo per ragioni dovute principalmente al fatto che qui siamo in una zona che, all’epoca, era immediatamente oltre confini dello Stato Pontificio ed essendo gli ebrei periodicamente cacciati dal Santo Stato della Chiesa trovavano qui un rifugio, il più prossimo e il più vicino possibile, al confine che dovevano attraversare per abbandonare il luogo da cui venivano cacciati.

Così si installarono qua, ma poi pure qua dovevano sottostare a condizioni di vita particolari… Insomma erano anche qua oggetto di discriminazioni e questo dolce, che è proprio un dolce che racconta di tradizioni alimentari tipicamente ebraiche – l’uso del miele, l’uso della frutta secca, delle spezie – ha questa forma allungata e si chiama “sfratto” perché ricorda il bastone con cui battevano alle loro case per intimargli di lasciarle e trasferirsi nel ghetto. Ghetto che – così come la sinagoga – ancora si può visitare a Pitigliano e dove venivano appunto “reclusi” i cittadini ebrei di di Pitigliano.

Quindi questo dolce racconta sia della tradizione alimentare ma anche della profonda ironia, tratto tipico della cultura ebraica, nel prendere in giro i piccoli aguzzini, come erano quelli che costringevano gli abitanti di fede ebraica nel ghetto di Pitigliano. Quindi questo dolce così apparentemente… anzi così tradizionale, assolutamente tradizionale, racconta proprio che le tradizioni non sono mai figlie di chissà quale purezza identitaria, ma anzi, spesso e volentieri nascono quando si incontrano esperienze e culture diverse.

Così, quando vi parlano di “identità” questo concetto così abusato e di “purezza”… magari di “razze”, di culture, di tradizioni… ecco ricordatevi la storia dello sfratto, che è una piccola storia ma racconta molto

IL SUCCO D’UVA E QUEL CHE SIAMO

Nuovo progetto (15)

Di quel piccolo mandala che è San Giovanni delle Contee confido di conoscere la storia ma di osservare con la stessa attenzione il presente, perché se voglio tradire la storia e consegnarla a chi verrà dopo, devo provare a immaginare il volto di chi verrà poi.
Guardare il presente, immaginare il futuro. Ed il presente di San Giovanni delle Contee è simile a tanti di quei piccoli borghi lontano da tutto, che si stanno lentamente spopolando. Spopolando è una parola elegante per non dover dire più onestamente che, in questi paesi, gli abitanti stanno invecchiando e morendo senza nessuno che prenda il loro posto, perché non ci sono nuovi nati e quelli più cresciuti se ne sono andati.

In realtà a San Giovanni qualche nuovo nato c’è e c’è anche qualcuno che prima non c’era, ma che da un po’ ci è venuto a vivere. Si tratta di alcune famiglie marocchine. E i nuovi nati sono, per discreta parte, i loro figli e le loro figlie. Sono, di fatto, dei nuovi paesani. Gli uomini lavorano per la gran parte nel commercio, fanno i mercati, le donne badano alla casa. Convivere si convive meglio che in città, ma certo a volte l’impressione è che si sia due comunità distinte. Sarebbe poco sensato dire il contrario, così come lo sarebbe il negare che ci sono abitudini diverse a regolare la vita di queste due comunità.

Fra le varie differenze, ve n’é una che potrà sembrare superficiale ma che forse non lo é così tanto: il divieto di bere pubblicamente alcolici, osservato dai mussulmani. Il vino non fa eccezione al divieto e non è tanto il problema del liquido alcolico in quanto tale, ma del portato culturale e sociale di tale bevanda. È da qui che è nata la voglia di provare a fare il succo d’uva. Sì, perché dall’uva che useremo per fare il vino (che continueremo a produrre con l’idea di dare un futuro a una tradizione e ad una comunità) selezioneremo una parte e la adopereremo per produrre succo d’uva, una bevanda dolce, saporita e non alcolica.

È un modo per andare oltre la semplice presa d’atto che la nostra comunità conta nuovi membri e considerare invece che sarebbe necessario che li sentissimo e che si sentissero tali. Ed è anche un modo per porsi il nodo della tradizione e dell’identità di un comunità che cambia e che se vuole guardare al futuro deve sapersi immaginare cambiata.

TRADIRE LA TRADIZIONE

Non mi interessano eventuali polemiche, in passato c’è stato qualche mugugno “identitario” rispetto a questa testimonianza, ma ho solidi argomenti, radicali convinzioni e la serenità di conoscere il mio mandala per studio e per amore. E penso che quel piccolo mandala, oggi più che mai, sia quel cerchio di sabbia attraverso cui passa, se non la visione dell’intero universo, almeno uno sguardo sull’Italia, sul Mediterraneo e forse anche oltre. C’è un filo che parte da lontano, lega storie diverse, le racconta oggi e guarda al domani. Tradire la tradizione. Ci sono commistioni, diversità che convivono. C’è la piccola biografia di una comunità che cambia.

E ci pensavo nei giorni scorsi. A quanto poco ci siamo interessati a quel terremoto che l’8 settembre ha colpito il Marocco devastando la regione di Marrakech-Safi, dove vivono… e purtroppo vivevano, tante famiglie, spesso famiglie di persone, amici, lavoratori e lavoratrici, padri e madri di figli italiani. E non so ancora, ma mi piacerebbe fare qualcosa … forse alla prossima Disfida delle Contee

È politica? Forse. A me pare sia umanità. Una delle tradizioni più difficili da tener viva.


[1] La Donazione di Costantino
[2] cfr Jared Diamond, “Il mondo fino a ieri”, Einaudi, 2014, Torino
[3] David George Haskell, “La foresta nascosta”, Einaudi, 2023, Torino
[4] Ibidem
[5] Don de Lillo, “End Zone”, Einaudi, 2014, Torino – Eravamo nella periferia della periferia del nulla, circondati da un terreno roccioso così piatto e brullo che evocava immagini da fine della storia e una meravigliosa sensazione di distanza che mi incendiava l’anima. Era facile pensare che, in quel posto sperduto dove gli uomini pronunciavano la parola civiltà con voce malinconica, io fossi necessario al compimento di un crimine terribile.

avatar

Tommaso Ciuffoletti

Ha fatto la sua prima vendemmia a 8 anni nella vigna di famiglia, ha scritto di mercato agricolo per un quotidiano economico nazionale, fatto l'editorialista per la spalla toscana del Corriere della Sera, curato per anni la comunicazione di un importante gruppo vinicolo, superato il terzo livello del Wset e scritto qualcos'altro qua e là. Oggi è content manager di una società che pianta alberi in giro per il mondo, scrive per alcune riviste, insegna alla Syracuse University e produce vino in una zona bellissima e sperduta della Toscana.

9 Commenti

avatar

Nelle Nuvole

circa 6 mesi fa - Link

Quanto sono importanti le parole e il loro giusto uso, qui come al solito Tommaso Ciuffoletti non la "mandala" a dire... Bella lettura, per chi sa leggere.

Rispondi
avatar

Jacopo Manni

circa 6 mesi fa - Link

Ottima la copertina con la madre di tutte le invenzioni della tradizione come direbbe un grandi - ssimo divulgatore. Lo Chabod dopo aver demolito una volta per tutte ogni dubbio ci racconta: «Senonché, se nessuno potrebbe più oggi sognarsi di attribuire veramente a Costantino la Donatio, il Costituto conserva ugualmente una importanza di primissimo ordine per la storia dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa nell'alto Medioevo, in questo senso: che il documento, fabbricato in epoca posteriore all'epoca di papa Silvestro e di Costantino, probabilmente nella seconda metà del secolo VIII, è preziosa rivelazione delle aspirazioni e degli intendimenti politici della Chiesa stessa in una certa fase del suo sviluppo, è sicura testimonianza della cresciuta potenza e autorità del papato, che può quindi, ad un certo punto, esigere per sé la piena parità col potere politico. Non serve a nulla per la storia del secolo IV, ma serve moltissimo per quella del secolo VIII.» (F. Chabod, Lezioni di metodo storico, 1978, p. 77) Le invenzioni delle tradizioni alcune volte sono disruptive quindi e germinano potenti e dirompenti. Auguro alla tua tradita tradizione/invenzione di essere altrettanto utile a raccontarci la storia della seconda metà del secolo XXI, magari meno sovranista.

Rispondi
avatar

Tommaso

circa 6 mesi fa - Link

Bellissimo commento! grazie Jacopo!

Rispondi
avatar

Paolo

circa 6 mesi fa - Link

Bello l'aforisma che inverte i termini " res sunt consequentia nominum", ma bisogna correggere: o si declina il verbo essere al singolare (res e nominum), o si declinano soggetto e complemento al plurale (rerum, nomina). vado a memoria, eh, il liceo lo finii taaanto tempo fa :)

Rispondi
avatar

Tommaso

circa 6 mesi fa - Link

Ciao Paolo! Il nominativo plurale di res-rei (quinta declinazione) è esattamente res [come nota tieni presente che rerum è il plurale del genitivo]. Allo stesso modo il genitivo plurale di nomen (terza declinazione irregolare) è esattamente nominum. La frase è quindi corretta! ;)

Rispondi
avatar

Giuseppe

circa 6 mesi fa - Link

Bellissimo articolo, che mi trova completamente allineato trovo particolarmente felice la "definizione" di tradizione che dice piu` o meno cosi`: "Tutto quanto oggi chiamiamo tradizione un tempo fu innovazione". Tienici aggiornati sul "progetto succo d'uva". Buona giornata a tutti

Rispondi
avatar

Tommaso

circa 6 mesi fa - Link

Grazie Giuseppe! Con piacere!

Rispondi
avatar

Vignadelmar

circa 6 mesi fa - Link

"Tralasciano gli interventi più scomposti......", perdirindindina, non mi ero accorto di stare leggendo ed intervenendo nel sacratissimo blog delle Immacolate Suore Orsoline!!!! La prossima volta che avrò voglia di intervenire, prima andrò a confessarmi e ad autoflagellarmi col cilicio!!!! .

Rispondi
avatar

Tommaso

circa 6 mesi fa - Link

Beh ... un po' di penitentia va sempre bene, per cui se si sente in animo di imporsela - spero ed auguro, con giusta misura - credo che avrà a trarne l'opportuno beneficio. Tuttavia non era mia intenzione invitare lei o altri a questa pratica. Se tuttavia avrà a praticarla, le suggerisco, per mantenere una correttezza filologica con alcuni passi dell'articolo, di ripetere la frase (Matteo 3,2 e 4,17) «Poenitentiam agite, appropinquavit enim regnum caelorum», che sarà poi ripresa da quei dolciniani di cui tratta proprio "Il nome della rosa". Amen.

Rispondi

Commenta

Sii gentile, che ci piaci così. La tua mail non verrà pubblicata, fidati. Nei campi segnati con l'asterisco, però, qualcosa ce la devi scrivere. Grazie.