Fontesecca e Meson Nardì, in Umbria ma forse anche altrove

Fontesecca e Meson Nardì, in Umbria ma forse anche altrove

di Jacopo Cossater

A distanza di molti anni e nonostante le dimensioni l’Umbria riesce ancora a lasciarmi a bocca aperta. Tutto merito della vista di cui è possibile godere dalla cima del Monte Arale. Un panorama pazzesco che da circa 850 mt. permette di toccare il Lago Trasimeno quasi nella sua interezza, il Lago di Chiusi, il Monte Amiata e tutti i rilievi che a sud portano poi a Orvieto. Una zona che potrebbe essere divertente definire tra l’incontaminato e il dimenticato e che proprio per questo riesce a trasmettere il sapore un po’ agrodolce dell’Umbria più autentica, quella in cui non di rado è possibile imbattersi provando a uscire dalle strade turisticamente più battute. In breve: percorrendo l’A1 in direzione nord l’ampia area collinare all’altezza dell’uscita di Fabro, sulla destra.

Paolo Bolla non è però di queste parti. Come il cognome può forse fare intuire viene da Verona e da quella famiglia già famosa per la produzione su larga scala di vini in Valpolicella e non solo. Nel 2001 la decisione di trasferirsi in Umbria nel paese di origine della moglie, a San Lorenzo, poco lontano da Monteleone d’Orvieto, e nel 2004 l’avvio della produzione. La cantina, Fontesecca, si trova però pochi chilometri più a nord, appena sotto il centro abitato di Città della Pieve, alle pendici della vallata che guarda verso Cetona e Chianciano Terme, nel senese.

Una zona che insiste nella DOC Colli del Trasimeno ma che con il Lago non ha niente a che vedere, né a livello climatico né come tipologia di terreni. Una sorta di limbo stretto tra la vicinissima Toscana, in linea d’aria lontana forse meno di 2 chilometri, e il grande territorio dell’Orvieto, più a sud. Tra le provincie di Perugia e di Terni, città entrambe tutt’altro che comode da raggiungere. Soprattutto non un’area particolarmente nota per la sua produzione vitivinicola nonostante i molti vigneti che è possibile intravedere lungo la SS71, la strada che la attraversa seguendo quasi parallelamente la vicina autostrada.

Qualche dato a proposito di Fontesecca. Circa 6 ettari vitati dove trovano dimora ciliegiolo, sangiovese, canaiolo, trebbiano toscano, grechetto e malvasia. I terreni sono sabbiosi e argillosi e ricchissimi di fossili marini, conchiglie che raccontano il grande mare che occupava tutta questa zona dell’Italia Centrale qualche milione di anni fa. Viticoltura biologica certificata e un approccio alla vinificazione che guarda al mondo dei vini naturali grazie alle fermentazioni spontanee, l’uso piuttosto limitato di solforosa, l’assenza di filtrazioni.

Fontesecca

Ho assaggiato alcuni campioni di botte dell’annata 2017 e ho trovato vini certamente espressivi, non così affaticati da quella vendemmia tutt’altro che semplice ma anzi schietti, di particolare vivacità e bevibilità. È questo il caso di uno dei bianchi più interessanti assaggiati di recente: l’Elso 2017 (trebbiano, grechetto e malvasia, taglio classico dell’Orvieto e di un po’ tutta la regione) ha una bellissima tessitura tutta giocata tra maturità del frutto e freschezza, tra profumi di salvia e di cedro. Grande equilibrio e un interessante respiro alcolico che non ne frena la golosità. Il Ciliegiolo 2017 è ovviamente fruttatissimo, maturo ma non cotto, e stupisce per la sua struttura: “è la sua cifra stilistica – mi dice Paolo – rispetto ad altri Ciliegiolo, penso alla zona di Narni, qui si producono vini dall’impianto anche tannico più significativo”. Il Canaiolo 2016 è una piccola meraviglia, rosso fresco e gioioso. Le note sono quelle del pepe e delle acciughe sotto sale, dei lamponi e dei mirtilli con un intrigante richiamo farmaceutico. Un vino croccante dal piacevolissimo allungo speziato a testimoniare un sapiente utilizzo del legno. Infine il Sangiovese “Pino” 2015, da poco in bottiglia. Un rosso dal frutto netto e dal richiamo mentolato, misurato nel calore, succoso e raffinato nella trama tannica, di particolare completezza. Una gamma di vini solida e soprattutto piacevolissima, capace di raccontare un’idea molto chiara, portata avanti con coerenza in una zona tutt’altro che semplice da raccontare. Complimenti.

Meson Nardì

E poi una storia che ha dell’incredibile almeno per periodo storico e per modalità. Quella di una coppia di austriaci che alla fine degli anni 70 si rifugia in mezzo al bosco, pochi chilometri fuori dal centro abitato di Monteleone d’Orvieto. Un luogo lontano da tutto e da tutti dove decide di costruire la propria casa ristrutturando un vecchio e bellissimo rudere e di iniziare la coltivazione di olivi e di uva. Appena un ettaro piantato a sangiovese, cabernet franc, trebbiano toscano, malvasia, grechetto e moscato rosa. Una produzione che per decenni ha preso la via del nord grazie al passaparola e l’aiuto di vari amici. Poi nel 2014 la decisione, dettata dall’età, di dare in gestione il vigneto e la piccolissima cantina a una coppia che già da qualche anno dava loro una mano. È così che Paola Chiappini e suo marito Fabrizio Fimiani, lei agronoma e lui enologo, si sono ritrovati tra le mani questa piccolissima realtà che portano avanti nel tempo libero o quasi e a cui hanno dato il nome di Meson Nardì. Il posto è incredibile e la cantina una piccola perla per spazio e per funzionalità. Soprattutto i vini lasciano intuire le potenzialità di un territorio probabilmente ancora tutto da esplorare.

Il Meson Nardì Bianco 2017 (da vasca) sconta una certa confezione enologica e paga qualcosa in termini di quel calore dato dall’annata ma è agile grazie a una bella componente officinale e soprattutto grazie a un tratto salino per certi versi spiazzante. La stessa traccia di iodio che caratterizza il Meson Nardì Rosso 2016 (assaggio da barrique): sangiovese e cabernet franc per un vino di grande finezza, aereo, violetta e una punta di agrumi, la cui componente fruttata è ben delineata e mai stanca. E poi un vino che mi ha fatto sobbalzare: il Cru de la Meson 2016 (solo sangiovese, da una bellissima botte di Garbellotto da 550 lt) brunelleggia grazie a rimandi appena mentolati, di viola e di lampone, di ciliegia e di melograno. Un rosso vibrante, dalla trama tannica di impressionante rifinitura, impreziosito da un accenno vegetale e dalla stessa traccia di sapidità che caratterizza tutti questi vini che nascono in mezzo al bosco da terreni ricchissimi di pietre. Un piccolo gioiello.

Vini questi di Meson Nardì per certi versi “di garage” che è stato sorprendente scoprire e bello assaggiare. Vini che ancora una volta mi ricordano quanto l’Umbria riesca a stupirmi, specie quando meno me lo aspetto.

Jacopo Cossater

Docente di marketing del vino e di giornalismo enogastronomico, è specializzato nel racconto del vino e appassionato delle sue ripercussioni sociali. Tra gli altri, ha realizzato i podcast Vino sul Divano e La Retroetichetta, collabora con l'inserto Cibo del quotidiano Domani e ha cofondato il magazine cartaceo Verticale. Qui su Intravino dal 2009.

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