Dai non così noti Monti Aurunci (Lazio): Aurete e i dinosauri in smoking

Dai non così noti Monti Aurunci (Lazio): Aurete e i dinosauri in smoking

di Antonello Buttara

Non molto tempo fa mi sono trovato nella classica situazione ricca di insidie per il bevitore appassionato, cioè la festa di compleanno di un caro amico, per giunta olandese, che ama alla follia i vini laziali e non vede l’ora di riempirti il bicchiere. Paura!

Arrivato privo di ogni entusiasmo, ho dovuto ricredermi non appena il padrone di casa mi ha passato con un sorriso gaudente il primo bicchiere di vino. Un calice di rosso proveniente dalla parte meridionale del Lazio, fatto da ragazzi giovani allo loro prima vendemmia: con un “Super fresh and tasty” mi intima di provarlo subito e a quel punto, incuriosito da un entusiasmo sospetto, mi lascio andare.

Rimango sorpreso, pur sapendo di trovarmi nel Lazio non avevo idea di cosa stessi sorseggiando, il vino in questione aveva una bevibilità eccezionale, la scarica di acidità di un terrano del Carso e la spensieratezza di un gamay del Beaujolais. Un vino da merenda, da bere fresco durante l’estate che stava per iniziare.

Raspato nero, questo è il nome del vitigno autoctono originario dei Monti Aurunci nell’area sud della provincia di Frosinone, coltivato nel comune di Esperia. Recupero la bottiglia contraddistinta da un’etichetta originale che strizza l’occhio al marketing raffigurante uno scheletro di dinosauro in smoking che fuma un sigaro seduto su una poltrona. Raptor 2020, azienda agricola Aurete. Memorizzo la bevuta appagante, segno questa piccola realtà meritevole di visita e in effetti, complice una breve vacanza, così è stato.

Prendo accordi telefonici con Giovanni Vittiglio, che si è dimostrato sin da subito disponibile a conoscermi e mi spiega che al momento Aurete non ha una cantina di proprietà dove vinificare le proprie uve ed è “ospite” da Mario Basco dell’azienda agricola i Cacciagalli, realtà vitivinicola biodinamica nella vicina valle di Teano, punto di riferimento per l’affinamento esclusivo dei vini in anfora di terracotta.

Appuntamento quindi al tramonto direttamente in vigna.

vigna

Esperia è un piccolo comune incastonato sul Monte Cecubo, le vigne si trovano nella frazione di Monticelli nel Parco Naturale dei Monti Aurunci, non lontano dal golfo di Gaeta, un’oasi naturalistica caratterizzata da suoli di colore rossastro ricchi di ossidi quali ferro e magnesio derivanti da fenomeni carsici (dissoluzione di rocce calcaree in superficie causate da acque piovane che erodono le pietre sciogliendo i minerali in esse presenti). Qui di recente sono state rinvenute delle orme di dinosauro tra le più antiche del Lazio, risalenti al periodo Cretaceo quando l’intero territorio era ricoperto d’acqua (ed ecco quindi svelato il motivo delle etichette così ammiccanti).

Incontro Giovanni Vittiglio, Eugenio Varone e Vincenzo Coppola – i tre fondatori di Aurete – appoggiati a un pozzo adiacente alla vigna, intenti a preparare un aperitivo improvvisato, e ho la piacevole sensazione di essere arrivato al momento giusto. L’azienda nasce nel 2016 dalla passione di tre amici per il buon bere e durante la nostra conversazione scopro che Giovanni ed Eugenio provengono dal mondo della birra artigianale mentre Vincenzo è agronomo di professione. Gli ettari vitati sono quattro divisi in tre differenti vigneti: Aurete, il più giovane, piantato nel 2018 a syrah, Via Romana e Cariano, mezzo ettaro di vigneto pluricentenario a piede franco sopravvissuto alla fillossera dal quale, attraverso una selezione massale, sono stati recuperati i due vitigni autoctoni – il raspato nero e la reale bianca – che sono stati inseriti dall’ARSIAL (Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio) nel registro nazionale e regionale.

Aurete

Attraverso la consulenza di Michele Lorenzetti dell’azienda Terre di Giotto, i preparati biodinamici di Carlo Noro e supportati dall’amicizia di Mario Basco dei Cacciagalli, che ha messo a disposizione la cantina e preziosi consigli, i ragazzi di Aurete hanno speso i primi anni ad arricchire i suoli e curare le piante confrontandosi con i contadini locali e arruolandone uno di fiducia che si muove con una familiarità tipica di chi ha passato giornate intere tra i filari.

Assaggiamo i vini sotto il caldo sole di giugno all’ombra di un albero, Giovanni ha portato i vini frutto della vendemmia 2021 imbottigliati da qualche settimana e quelli della 2020 che hanno beneficiato di un riposo di un anno in bottiglia. Thero 2020 è un bianco macerato ottenuto da l’uva reale bianca con un piccolo saldo di trebbiano. La macerazione avviene in anfore di terracotta prodotte da Artenova (Impruneta) e Giovanni mi spiega che la scelta del contenitore non è casuale in quanto l’anfora esalta la mineralità del vino e permette al liquido di respirare, ne regola l’umidità e soprattutto concentra, poiché l’argilla a differenza del legno permette una maggiore evaporazione di acqua. Bianco luminoso, naso pungente, note di pesca gialla nettarina, susina, salvia e roccia. Il sorso è vibrante, fresco e ampio, una nobile acidità tipica di altre latitudine non farebbe pensare a un vino del Lazio e invece la reale bianca sorprende e stupisce. Nel 2021 i ragazzi hanno scelto una macerazione più corta, il vino è più esile pur mantenendo il tratto stilistico dell’annata precedente, ci sarà bisogno di un po’ di tempo in bottiglia per esaltarne l’indubbia qualità.

Il Raptor 2021, raspato nero in purezza, esprime da subito un’energia dirompente nel bicchiere, liquido vinificato in sottrazione che non rinuncia al frutto, lampone in primo piano, una accenno di acidità volatile slancia il sorso e un vino che si farà, anche lui ha bisogno del suo tempo. La vendemmia 2020 che già in precedenza avevo incontrato regala un liquido sfaccettato e versatile. Il frutto vira su una mora selvatica, terroso e pepato. Sorso incisivo sulla lingua, dotato di una bella tensione, l’acidità è dinamica e supporta un tannino energico e sferzante. Come per Thero, la macerazione e la fermentazione avvengono in anfora.

Sauro 2020 è l’ultimo vino che assaggiamo, frutto del vigneto più giovane piantato a syrah. Il liquido sosta per circa cinque mesi sulle proprie fecce in clayver di gres – nient’altro che botti realizzate in ceramica, e come spiega Giovanni del tutto equiparabili al cemento per quanto riguarda impermeabilità e isolamento termico – mentre a dispetto dell’anfora di terracotta, dal punto di vista funzionale presentano una minore porosità. Sauro è una scommessa che ha del potenziale, e l’areale di Esperia potrebbe valorizzare un vitigno con il quale non sono mai riuscito a entrare in sintonia quando coltivato nei confini regionali (quelli laziali). Liquido morbido e carnoso contraddistinto da una marcata ciliegia matura. Al naso si avvertono delicati sentori di pepe bianco e una lieve nota ematica. È una syrah che si lascia bere con disinvoltura, aggraziata, supportata da un tannino fitto e deciso. Inizio a fantasticare e bevendo Sauro penso a un ballerino classico che seppur non dotato di un particolare talento attraverso sacrificio, sudore e una dedizione ferrea potrebbe arrivare a esibirsi su palcoscenici inaspettati.

etichette

Il sole lentamente scivola via tra le dolci curve dei Monti Aurunci, vado via con la consapevolezza di aver incontrato dei ragazzi con una voglia matta di mettersi in gioco e un amore incondizionato per il luogo a cui appartengono, ai più forse sconosciuto, dove la viticoltura vanta una tradizione millenaria ma tanto loro lo sapevano già.

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Antonello Buttara

Romano di prima generazione, una laurea in tasca in Scienze della Comunicazione e mi ritrovo al Ministero della Difesa. Quando troppo tardi sono andato a vivere da solo acquisto una cantina che con qualcosa dovevo pure riempire. Presenza fissa in qualsiasi fiera dove si beve, divento l'incubo di alcuni enotecari della capitale e controvoglia mi diplomo Sommelier AIS per poi abbracciare la filosofia Porthosiana.

1 Commento

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thomas pennazzi

circa 2 anni fa - Link

Che questi siano nipotini del mitico Cecubo, il sommo vino ai tempi dell'antica Roma? Ci vorrebbe una dotta dissertazione di Pietro Stara, ma un assaggio già ce lo dà qui sotto. I vini della Campania felix Nell’antica Roma quando si parla di vini di sicuro pregio si fa riferimento, pressoché esclusivo, alla Campania felix (“Hinc felix illa Campania est”, Plinio, Naturalis Historia – Liber III) e al territorio, posizionato a settentrione, tra il monte Massico e il Volturno in corrispondenza con l’odierna Piana di Carinola che va sotto il nome di ager Falernus4. Così Orazio: “Caro Mecenate, tu sarai solito bere Cecubo e Caleno5, ma6 nelle mie coppe non si mesce né il Formiano né il Falerno7”. Plinio assegna al Falerno il secondo posto (secunda nobilitas Falerno agro erat, Plin, 14, 62) nella scala dei vini del suo tempo, anche se afferma, subito dopo, che è però il più autorevole dalla scomparsa del Cecubo e ne definisce tre tipologie: austerum, dulce, tenue. Tibullo nomina quel territorio “Bacchi cura”, mentre Marziale si sofferma sul suo colore nero a cui oppone la mano candida del coppiere, la limpidezza cristallina del calice e la neve che viene utilizzata, talvolta, per rinfrescarlo: “Adstabat domini mensis pulcherrimus ille marmorea fundens nigra Falerna manu, et libata dabat roseis carchesia labris quae poterant ipsum sollicitare Iovem (VIII 55 [56])” (Stava il giovane bellissimo presso la mensa del padrone, versando il nero Falerno con la mano candida come il marmo, e offriva le coppe delibate dalle sue labbra rosee, che avrebbero potuto tentare lo stesso Giove)." [da "Il discorso del Vino - di Pietro STara]

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