Che figata la Piquette | Breve storia del <i>vinello</i> francese e intervista a Todd Cavallo di Wild Arc Farm

Che figata la Piquette | Breve storia del vinello francese e intervista a Todd Cavallo di Wild Arc Farm

di Jacopo Manni

Gennaio ormai da anni si va affermando come il mese di pausa detox dopo i bagordi delle feste natalizie, tanto che ormai si parla di Dry January in tutto il mondo occidentale e secondo i dati più recenti questa pausa detox sta conquistando e orientando la X Generation verso un consumo sempre più consapevole, e non solo nel primo mese dell’anno. [1]

Quali potrebbero quindi essere le nuove tipologie e i trend di consumo del vino nei prossimi anni, proprio in virtù dei tanti temi di attualità messi sul tavolo? Mi è venuta voglia di approfondire uno dei topic più caldi e cioè i vini a basso o nullo contenuto alcolico.

In Italia, vini a basso contenuto alcolico, o meglio bevande – perché legalmente molte di queste non possiamo chiamarle vino – sono sempre esistite. Quali sono quindi le varie tipologie e quali le tecniche di produzione di queste bevande? Come sono state presenti nell’immaginario e nella cultura rurale, contadina e agronomica nei secoli?

Per rispondere a queste domande ho iniziato una ricerca che mi ha spinto oltre e altrove, con ampi margini di aggiornamento. Ma partiamo dalla storia.


I Romani chiamavano Lora un vinello ricavato dai raspi già pigiati sui quali era fatta passare abbondante acqua. Un secondo vino in pratica. I procedimenti per la fabbricazione di tale vinello potevano essere vari e sono descritti esaustivamente da Plinio (Nat. Hist., XIV, 86) e da Columella (XII, 40). [2]

Spostandoci nel tempo in maniera repentina, arriviamo nel mondo contadino medievale francese nato in seguito alla rivoluzione feudale, dove si afferma, per questa stessa tipologia di bevanda, un nome ben diverso, che ne afferma e sancisce la definitiva cattiva fama (almeno finora): la Piquette.  Oggi in Francia Piquette è praticamente sinonimo di cattivo vino, di vinello detto in senso assolutamente spregiativo.

Piquette deriva il suo nome da piquer che significa pungere, pizzicare, proprio per le sue caratteristiche di bevanda rifermentata e quindi frizzantina. Ne conosciamo perfettamente la ricetta perché ce la tramanda in un testo di straordinario interesse scientifico e culturale, datato 1786, il botanico e agronomo francese Jean-Baptiste François Rozier.

Rozier è stato un pioniere delle scienze botaniche in Francia e ha redatto un testo fondamentale per lo sviluppo delle scienze agrarie nel mondo, un testo monumentale che descrive minuziosamente tutto lo scibile umano catalogato fino a quel momento, in ambito agricolo e contadino: il Cours complet d’agriculture… ou Dictionnaire universel d’agriculture, par une société d’agriculteurs (dodici volumi di cui nove di sua mano, 1781-1800).

In questo straordinario libro, Rozier ci descrive in maniera chiara e definitiva cosa è la Piquette: “PIQUETTE o PETIT VIN, o REVIN, o BUVANDE. Espressioni usate nelle diverse Province per designare una sorta di bevanda, fatta con acqua gettata sulla vinaccia dell’uva, e che con essa fermenta per qualche tempo.”

E ci descrive minuziosamente la tecnica produttiva:

Dopo che la vendemmia fermentata ha consegnato, sul torchio, la quantità di vino che contiene, i servi prendono la vinaccia, la sbriciolano, la ributtano nel tino e aggiungono una quantità d’acqua proporzionata a quella della vinaccia. Vale a dire che se il vino di una cuvée ha riempito dai quindici ai venti barili, la vinaccia può fornire due o tre vini piccoli. Quando la vinaccia, presa ad esempio, viene posta nella vasca e ben sbriciolata, viene irrorata il primo giorno con circa cento litri d’acqua, si instaura una piccola fermentazione. Il giorno successivo, aggiungiamo la stessa quantità di acqua e così per diversi giorni di seguito, finalmente, fino ad avere approssimativamente la quantità di vino piccolo che desideriamo. Se dal primo giorno si mettesse tutta la quantità d’acqua, non ci sarebbe fermentazione vinosa, (consultare questa parola) passerebbe subito a putrida, poiché il resto del principio spiritoso e mucillaginoso verrebbe annegato in una massa troppo grande di veicolo acquoso. È quindi necessario che l’acqua si impregni gradualmente dei principi capaci di fermentazione vinosa.

Alla fine, Rozier fa una meravigliosa esortazione che ci fa comprendere in pieno tutto il valore popolare di questa antica bevanda: “Proprietari, ricordatevi che i vostri lavoratori sono uomini, che portano per voi il peso della giornata; sono già abbastanza infelici, da essere costretti a lavorare per vivere con uno stipendio mai proporzionato alle loro fatiche; ricordatevi che la piquette sarà la loro unica bevanda durante tutto l’anno, e che l’uomo che non si nutre lavora male; non pressare così rigorosamente il tuo raccolto, dagli almeno il prodotto dell’ultima potatura, oppure ricorri al metodo che ti ho indicato; la spesa è così modesta che non bisogna avere anima per rifiutarla.”[3]

La Piquette ovviamente ha vissuto più bassi che alti nella sua storia ma in questo momento storico di particolare attenzione alla salute, al riciclo e alla sostenibilità, la Piquette potrebbe compiere la sua vendetta sul mondo enologico e affermarsi come una tipologia straordinariamente attuale.

Oltre alla sua bassa alcolicità, alla piacevole e succosa freschezza, la sua bella acidità e la piacevole piccantezza bollicinica, che si porta dietro già nel nome, ne fanno una bevanda super versatile e molto appagante. Un drink di facilissima beva adatta per molti e variegati momenti della giornata e della gastronomia, ma soprattutto uno straordinario racconto di sostenibilità nel suo essere bevanda nata dal riutilizzo di vinacce. Tutti questi fattori ne fanno un prodotto assolutamente vincente. Esiste un solo problema: in Europa non si può produrre.

Per le rigide leggi anti-sofisticazione o adulterazione del vino, questo prodotto rientra nel novero delle frodi alimentari ed è quindi proibito, o quantomeno non si può chiamare vino. Fuori dall’Unione Europea però cambia tutto, e la Piquette sembra essere diventata negli ultimi anni la next big thing del mondo vino.

Ci si perde facilmente nelle ricerche in lingua inglese sulla Piquette, le referenze e le notizie in merito non mancano. Navigando sempre più a fondo però mi accorgevo che un nome spuntava fuori quasi sempre da queste mie surfate online, quello di un certo Todd Cavallo di Wild Arc Farm nella Hudson Valley, New York.

In quasi ogni pagina, articolo o post consultato in lingua inglese alla fine mi imbattevo, troppo spesso per ignorarlo, nel suo nome, che sempre veniva indicato come quello di un pioniere degli unconventional drink for wine lovers. In particolare ne parlavano sempre come del winemaker che ha reso super popolare questa particolare tipologia di bevanda a base d’uva che sta letteralmente spopolando negli ultimi tempi in tutto il mondo anglosassone: la Piquette, appunto.

Sinceramente avevo letto qualcosa in merito ma troppo poco per farmi una idea precisa di lui e dei suoi esperimenti, e così mosso da sete di curiosità ho scritto via Instagram direttamente a Todd per capire direttamente da lui come il mercato Usa stia reagendo a questa novità. In pochi minuti, tramite scambi rapidissimi è nata qualcosa di più di un semplice scambio di informazioni online. Talmente bello che abbiamo deciso insieme di farne una breve intervista.

Todd Cavallo

Ciao Todd, ci spieghi esattamente che cos’è la Piquette?
Piquette è un “secondo” vino ottenuto reidratando e rifermentando con semplice acqua il mosto pigiato, per estrarre tutto il possibile dall’uva stessa.

Da dove nasce l’idea di riprodurre questa tipologia? Cosa significa fare questo vino oggi per la tua idea aziendale e filosofica di vino?
Un amico ha condiviso con noi un libro sulla storia del vino in Europa, “The Red & the White: A History of Wine in France and Italy in the Nineteenth Century”, scritto da Leo Loubere [4],  e abbiamo deciso di provare a imbottigliare la piquette piuttosto che distillarla in grappa come avevamo fatto nella nostra prima annata. Ricavarlo da tutti i nostri vini ci permette di ottenere di più da ogni ettaro che coltiviamo o da ogni tonnellata di uva che acquistiamo, mantenendo bassi i prezzi di tutti i nostri prodotti senza ulteriori input agricoli.

Parlaci del metodo di produzione.
Pressiamo delicatamente per rendere migliori i nostri vini base e per lasciare più zucchero nel mosto per la seconda estrazione. Quindi aggiungiamo lentamente acqua per alcuni giorni e mettiamo la massa a bagno una settimana circa prima di pressare di nuovo. Alla piquette riaggiungiamo poi il vino pressato vero e proprio per fortificarlo, e lo lasciamo invecchiare 4-6 mesi prima di imbottigliarlo con il tirage (usiamo miele millefiori locale) per farlo rifermentare in bottiglia. Non facciamo degorgement, quindi vendiamo tutte le picchette “col fondo”.

Molti affermano che si tratta di un tipo di bevanda proibita e non a norma di legge. La Piquette si può produrre oggi in Europa o no?
Da quello che sappiamo, non è ancora legale produrre Piquette per la vendita nell’UE, anche se molti la producono solo per il consumo personale o per l’esportazione.

Qual è ad oggi la risposta del mercato e dei consumatori?
La risposta del mercato è stata enorme e non riusciamo a produrne abbastanza per tenere il passo con la domanda. Il trend si sta espandendo in maniera esplosiva, visto che ora ci sono oltre 100 produttori di piquette in tutto il mondo, dopo che noi siamo stati i primi a venderlo commercialmente negli Stati Uniti solamente nel 2017.

Quali sono i produttori di Piquette da seguire e assaggiare?
Produttori che noi amiamo e supportiamo sono Kalche Wine Cooperative, Revel Cider e Ibi Wines (che fanno parte della stessa azienda), Mersel Wine e American Wine Project.

Avete altri progetti in cantiere di vini a basso grado alcolico per i prossimi anni?
Ogni anno produciamo sempre più piquette ormai, ma sta diventando un po’ noioso per noi, quindi stiamo iniziando a fare spritz botanici usando la piquette come base. L’anno scorso ne abbiamo prodotto uno chiamato “The Lemon of Pink” che conteneva basilico limone e sommacco, e quest’anno ne stiamo realizzando uno da uve concord e camomilla. Per noi sta diventando un modo divertente ed eccitante per sfruttare l’acidità e i sapori della piquette e potenziarli con altre cose che coltiviamo qui in azienda.

A me sta interessando da morire il mondo della Piquette. La prossima volta magari scriviamo di qualche assaggio ma intanto se qualcuno di voi ne ha provata qualcuna degna di nota i commenti qua sotto sono sempre in modalità ON ovviamente!

_______________
[1] https://winenews.it/it/il-dry-january-e-un-fenomeno-considerato-sempre-piu-cool-ma-solo-dalla-generazione-z_488027/
[2] https://www.treccani.it/enciclopedia/lora_%28Enciclopedia-Italiana%29/
[3] https://fr.wikisource.org/wiki/Cours_d’agriculture_(Rozier)/PIQUETTE_ou_PETIT_VIN,_ou_REVIN,_ou_BUVANDE
[4] Leo A. Loubère è professore di storia europea moderna alla State University di New York a Buffalo. È autore di “Louis Blanc” (1961), “Socialismo utopistico: la sua storia dal 1800” (1974) e “Radicalismo nella Francia mediterranea” (1974). Ha viaggiato molto e condotto ricerche nelle regioni vinicole ed è lui stesso un enologo dilettante.

[La bellissima foto di Todd Cavallo è di Ashton Worthington pubblicata su Wine Enthusiast. Troppo bella per non essere ripresa!]

avatar

Jacopo Manni

Nasce a Roma ma si incastella a Frascati dove cresce a porchetta e vino sfuso. L’educazione adolescenziale scorre via in malo modo, unica nota di merito è aver visto dal vivo gli ultimi concerti romani dei Ramones e dei Nirvana. Viaggiatore seriale e campeggiatore folle, scrive un libro di ricette da campeggio e altri libri di cucina che lo portano all’apice della carriera da Licia Colo’. Laureato in storia medievale nel portafoglio ha il santino di Alessandro Barbero. Diploma Ais e Master Alma-Ais, millantando di conoscere il vino riesce ad entrare ad Intravino dalla porta sul retro.

22 Commenti

avatar

Tommaso

circa 1 anno fa - Link

In Toscana si faceva l'acquerello. A San Giovanni delle Contee ancora si fa. Professionalmente c'era un'aziendina di Gaiole che se non fossi così vecchio ti saprei dire il nome al volo .... ok, grazie Google! Chioccioli! Catalogo Triple A

Rispondi
avatar

Jacopo Manni

circa 1 anno fa - Link

La prossima puntata della saga "Vinelli" sarà proprio sull'Acquerello infatti!!

Rispondi
avatar

Lanegano

circa 1 anno fa - Link

Non mi precipiterò a cercare affannosamente Piquette da mettere in cantina ma la storia è bellissima. Grazie.

Rispondi
avatar

Nic Marsél

circa 1 anno fa - Link

Qual è la gradazione alcolica? Ricordo un esperimento simile (ma senza rifermentazione) diversi anni fa assaggiato a live wine dal produttore spagnolo Fabio Bartolomei di Vinos Ambiz. Faceva due o tre gradi e mi era parso terribile:-) Lui lo chiamava "il vino degli schiavi romani"

Rispondi
avatar

Jacopo Manni

circa 1 anno fa - Link

quelle di wild arc farm sono sui 7 gradi

Rispondi
avatar

Luis

circa 1 anno fa - Link

Mah... Che dire?!? Post curioso che ci riporta indietro nei tempi. Qui in Piemonte con Picheta, termine mutuato appunto dal francese Piquette, si intende proprio quello che viene descritto: un vinello leggero da 7-8-9° alcolici ottenuto rifermentando le vinacce con dell'acqua. In campagna lo si produceva per autoconsumo avendo così una bevanda con cui dissetarsi e alleggerire la fatica durante i lavori agricoli. Oggi non la produce più nessuno, anche perché la sua vendita sarebbe illegale (o comunque non si potrebbe chiamare vino), ed io stesso non ho mai avuto occasione di berla. Resta il termine, con cui - proprio come in Francia - si indica in maniera scherzosamente spregiativa un vino scadente, che non ci è piaciuto, indegno di essere portato a tavola. Che questo sciacquo di piedi e di botte se lo bevano pure gli Americani, che qui in Europa abbiamo già da penare con tanti rifermentati in bottiglia che a qualche anziano potrebbero far rimpiangere la vera Picheta.

Rispondi
avatar

Terenzio

circa 1 anno fa - Link

In Basilicata, produciamo un vinello che viene chiamato acquata...ho fatto delle ricerche sugli usi di questo vinello ed ho curato una breve monografia...

Rispondi
avatar

Mirco Mariotti

circa 1 anno fa - Link

Più che aggiungere acqua si può ragionare sulle modalità di pressatura cercando di “nobilitare” quelle che un tempo si chiamavano torchiature. Noi ci stiamo lavorando da un paio d’anni e ne siamo soddisfatti, molto dipende dalla varietà con la quale si intende lavorare.

Rispondi
avatar

Giacomo

circa 1 anno fa - Link

ra picheta... a cristu...

Rispondi
avatar

Vinogodi

circa 1 anno fa - Link

...boh...tutta "sta figata" non la vedo...

Rispondi
avatar

marcow

circa 1 anno fa - Link

La penso come Luis e Vinogodi. PS Nic Marsel: "Faceva due o tre gradi e mi era parso terribile:-) Lui lo chiamava “il vino degli schiavi romani” ___ Nuove forme di "schiavismo" persistono anche nell'epoca dell'Intelligenza Artificiale. E comunque, c'è il "ceto medio impoverito" dalle CRISI(2008, pandemia, guerra) che sembra avere poche scelte: 1- un Tavernello a 11,5 gradi 2- o un Vino come quello degli schiavi romani sotto i 7 gradi(e lo venderanno, forse, dicendo... che "fa bene alla salute" perché contiene meno etanolo)

Rispondi
avatar

Vinogodi

circa 1 anno fa - Link

...Marcow, concordando con lo scetticismo di fondo per questa tipologia di " bevanda", mi perplime la lotta incessante per la promozione del vino di qualita' per poi discettere di vino "annacquato" come alternativa o come surrogato " piacevole" ...che di bevande "piacevoli" mi sembra ne sfornino a iosa e discutibili ad ogni stagione, anal oppure alcooliche ( che nessuno pensi ad una nuova categoria su porn hub...)

Rispondi
avatar

Giuseppe

circa 1 anno fa - Link

Interessante. Comunque so che era pratica diffusa tra i contadini nel passato un po` dovunque. Confermato anche da un vecchio cantiniere in OltrePo` che mi disse anche come veniva chiamato questo "vinello"... purtroppo non me lo ricordo era un termine che ricordava la "sciaquetta" :-)

Rispondi
avatar

Vinogodi

circa 1 anno fa - Link

...Giuseppe, pensaci ... " sciacquetta" ..." nomen omen"...

Rispondi
avatar

Giuseppe

circa 1 anno fa - Link

Ha ha ha... certo non volevo stravolgere le classifiche, anche il titolo lo etichetta come vinello e tale rimane. Pero' sara' a causa della sovrabbondanza e dalla scelta infinita che abbiamo sara' che sono curioso di natura io lo asseggerei volentieri. Almeno per capire cosa bevevano i miei poveri avi cui toccava lasciare al "padrone" il meglio della spremitura. Poi con le estati infernali che ci tocca ultimamente non dev'essere male come bevanda dissetante non ti pare? Ah gia' dimenticavo che tu usi il Barbaresco di Gaja freddo di frigo per quello scopo :-) Buona giornata a tutti

Rispondi
avatar

vinogodi

circa 1 anno fa - Link

...solo Sorì San Lorenzo , che diamine...

Rispondi
avatar

Andrea

circa 1 anno fa - Link

Io bevo la Piquette di Rougeot e mi piace un sacco. 12,5 gradi, Vin De France ( nostro vino da tavola) 80% Pommard resto Meursault ed Aligote'. Colore scarichissimo, naso incredibile che riesce a fondere pinot nero e i due bianchi. Bocca fresca e fruttata, pure lunga. Sulla rete non ce n'è traccia, una paio di foto sulla pagina Facebook di Rougeot. Non credo sia in vendita in Italia. Ma non credo sia una piquette propriamente detta, semplicemente una strambata di vino molto ben riuscito e golosissimo. Sulla etichetta scarnissima scrive " distribue sous le manteau"...

Rispondi
avatar

M/M

circa 1 anno fa - Link

12.5 gradi, se la tecnica è quella descritta nell'articolo, mi sembrano tanti.

Rispondi
avatar

thomas pennazzi

circa 1 anno fa - Link

Dalle mie parti si chiama(va) pisarèlo. Era prodotto ad uso del sotto-proletariato, ovvero: in campagna non si butta via niente. Siete avvisati.

Rispondi
avatar

Vinogodi

circa 1 anno fa - Link

...come i ciccioli ( da ascrivere come abbinamento ideale per lo Champagne) la soppressa e il sanguinaccio nel maiale, non si butta nulla...ma ai parmensi e' l'ipotalamo che guida. Magari ai " forestieri" aggrada maggiormente culatello e prosciutto crudo...

Rispondi
avatar

marcow

circa 1 anno fa - Link

Vinogodi: "Il sanguinaccio di maiale" ____ Praticamente è impossibile assaggiarlo perché ne è vietata la vendita. Direi che del maiale, se non mi sbaglio, è l'unica parte che è stata esclusa dall'alimentazione umana. Vengono spacciate brutte imitazioni a base di cacao e cioccolato che non contengono il sapore inimitabile del vero sanguinaccio di maiale. ___ Un discorso particolare va fatto con lo STRUTTO, che non è vietato come il sanguinaccio, ma che è stato fortemente ridimensionato nelle preparazioni culinarie. Ora, per carnevale, bisognerebbe assaggiare le chiacchiere, le frappe, preparate con l'aggiunta di strutto nell'impasto e poi fritte nello strutto... per capire la differenza. Anche la mitica pasticceria Scaturchio di Napoli non usa più lo strutto per friggere le famose zeppole di San Giuseppe. Ma non dite che è la stessa cosa. Sui ciccioli: li sto sperimentando su un panettone salato al posto dell'uvetta

Rispondi
avatar

Luca Miraglia

circa 1 anno fa - Link

In Toscana, dove era molto diffusa la conduzione poderale in regime giuridico di “mezzadria” (di origine feudale ed abolito ex lege a far data dal 23/09/74), era assolutamente normale che, nei patti che regolavano la divisione tra padrone e mezzadro dei prodotti aziendali, si stabilisse che il vino da prima spremitura spettasse al primo, e che il secondo producesse, per stretto autoconsumo, un “vino” (chiamato, come già ricordato, “acquerello”), derivante dall’aggiunta di acqua e successiva spremitura della c.d. “strettura”, cioè della massa dei grappoli già sottoposti alla prima torchiatura. Questo perché i mezzadri, meno attenti alla qualità ma, allo stesso tempo, desiderosi di poter disporre in cospicua quantità di una bevanda che accompagnasse le lunghe giornate di lavoro in campagna, si accontentavano dell’”acquerello”, che forniva comunque una certa energia derivante dall’alcol e ben si accompagnava alle robuste “merende” con cui si tiravano su negli intervalli tra i pasti principali. Per molti di noi bambini di città quella bevanda è stato il primo incontro con il “vino”, spesso in concomitanza con l’evento clou della stagione estiva, la mietitura (o “trebbiatura”), che, un po’ prima di Ferragosto, rappresentava una vera festa rurale, un estasiante mix di fatica fisica e goduria dei sensi olfattivo e gustativo, fatto di pane appena sfornato, pasta fatta in casa con il sugo di rigaglie e pomodoro, arrosto misto (pollo, coniglio, anatra, oca (il pezzo più prelibato era il “collo dell’ocio”) e, per finire, cantucci col Vinsanto). Che ricordi!

Rispondi

Commenta

Rispondi a Mirco Mariotti or Cancella Risposta

Sii gentile, che ci piaci così. La tua mail non verrà pubblicata, fidati. Nei campi segnati con l'asterisco, però, qualcosa ce la devi scrivere. Grazie.