Chateau Palmer 1974 | Tu chiamala, se vuoi, piccola annata

Chateau Palmer 1974 | Tu chiamala, se vuoi, piccola annata

di Simone Di Vito

Stappare un grande rosso invecchiato è sempre un’esperienza, un piccolo viaggio nel passato in cui speri sempre che tutti i pianeti siano ben allineati, in modo tale che le aspettative che ti eri creato non siano disilluse.

Qualche mese fa ho messo le mani su una bottiglia di Chateau Palmer, vino iconico e tra le più lucenti stelle del firmamento bordolese (per i curiosi, qui una verticale di Chateau Palmer a cura del nostro Daniel Barbagallo, ndr). Per storia nonché importanza, nella sua AOC, è secondo solo a Chateau Margaux e infatti siede, con pieno diritto, al tavolo dei grandissimi Bordeaux per cui qualità e costi sono quasi sempre inarrivabili.

Nasce da un assemblaggio solitamente diviso tra cabernet sauvignon e merlot, ai quali, talvolta e in base all’annata, viene accostata una piccola quota di petit verdot, mentre fino all’annata 1996 veniva utilizzata anche una percentuale di cabernet franc. Vinificato interamente in tini d’acciaio di forma conica, sosta tra i 20/22 mesi in barrique nuove al 60-70%.
(In seguito a una mia richiesta all’azienda, le percentuali di assemblaggio per la 1974 sono: 47% merlot, 34% cabernet sauvignon, 10% petit verdot e 9% cabernet franc).

La 1974 a Bordeaux è considerata un’annata piccola, bollata da rating e critica come la peggiore di quel decennio, al punto che la stessa azienda non l’ha nemmeno inserita nella raccolta dei millesimi sul proprio sito ufficiale. Annata dove una primavera mite e un inizio estate piuttosto caldo e secco lasciavano ben sperare, ma le piogge nonché il freddo dei mesi di agosto e settembre compromisero gran parte del raccolto, producendo vini magri, grezzi e sbilanciati sull’acidità, caratteristiche lontane da quella ricchezza che si è sempre cercata nei grandi vini di questi territori. Insomma, non le migliori premesse.

Un pranzo tra amici appassionati mi è sembrato il giorno giusto per l’apertura, anche se poi, vista la giovane batteria che avevamo in tavola, c’era il rischio che un Palmer del ’74 passasse come l’anziano invitato a giocare a pallone dagli adolescenti: non chiedetegli troppo e attenti a non fargli male.

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Stappo e il lungo sughero si spezza in tre parti ma per fortuna niente TCA. Tolgo un quarto di calice per facilitare il contatto vino/ossigeno e ritappo la bottiglia, lasciandola a fare stretching in una zona fresca della casa, mentre quel po’ di vino che ho nel calice odora di creme de cassis.

Incuriosito dall’evoluzione ogni tanto do una sbirciatina sia nel collo che nel calice che avevo tolto, dove il vino inizia una lenta danza caleidoscopica tra profumi acri e delicati, chiari e scuri, aerei e terragni. Più di tre ore di attesa tra scorza d’arancia e stecche di cannella, ruggine e sanguinaccio, incenso e macchia mediterranea, peperone, melograno e infine oliva nera. Finalmente è arrivato il momento di assaggiare.

Le mie prime sorsate sono lente e timorose, quasi come se avessi paura di sciuparlo, ma anche se un po’ velato, il suo granato sfumato sul mattone e un sorso a metà tra il liquido e il sabbioso spazzano via ogni incertezza, stupendo un po’ tutti i commensali non solo per la fluidità di beva ma per la vitalità che ancora ostenta con un corpo neanche così magro, freschezza, tannino in punta di piedi e quell’eleganza nel pennellare curve su lingua e palato che solo i grandissimi possono permettersi, chiudendo col botto su confettura di fragole e naftalina.

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Lo metto da parte e passiamo agli altri vini, ma quando è il momento di riprenderlo il granato sembra più sbiadito, mentre le carezze al calice sfornano ancor più sfumature, come cenere da sigaro, mercurio cromo, lucido per legno e ancora naftalina, che col caldo evolvono in foglie secche, inchiostro di china e fumé di carne alla brace. In bocca il vino si è accorciato un po’ ma la piacevolezza con cui si beve rimane intatta. Purtroppo le lentiggini dei depositi iniziano a girarci nel calice, la bottiglia è praticamente finita.

Pur mostrando qualche segno del tempo, complessità e scorrevolezza lo rendono, dopo quasi mezzo secolo, un vino non solo integro ma con una beva incredibilmente moderna. Uno stato di grazia che giustifica – se ce ne fosse bisogno – la fama di longevità che i grandi Bordeaux si portano appresso.

Ho preso una DeLorean per un viaggio nel passato, accorgendomi invece, sorso dopo sorso, di ritrovarmi nel presente. Tu chiamala, se vuoi, annata piccola.

[Foto di Walter Bonifazi]

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Simone Di Vito

Cresciuto a pane e corse automobilistiche (per via del papà pilota), sceglie la sostenibilità di bacchette, tamburi e corde grosse, tra batteria e basso elettrico. Si approccia al vino grazie a una breve carriera da scaffalista al supermercato, decidendo dopo anni di iscriversi ad un corso AIS. Enostrippato a tempo pieno, operaio a tempo perso. Entra in Intravino dalla porta di servizio ma si ritrova quasi per sbaglio nella stanza dei bottoni. Coltiva il sogno di parcellizzare tutto quel che lo circonda, quartieri di Roma compresi.

3 Commenti

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Vinogodi

circa 7 mesi fa - Link

...Purtroppo ci sarebbe da riscrivere il rating ufficiale degli ultimi 120 anni a Bordeaux, perche' le grandi annate erano considerate quelle calde ( rare) che davano vini corposi e ricchi, fruibili dal bevitore senza nessuna lungimiranza prospettica , a volte, oggi , stanche e sedute. Quelle dure e scontrose, di annate difficili, relegate a comprimarie per poi venire rivalutate prepotentemente dopo parecchi decenni. La 1974 una di quelle, ma potrei citarne un centinaio , anche mooooolto piu' datate e aperte in epoca recente...

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Roberto

circa 7 mesi fa - Link

Da qualche parte sepolta in cantina ho una 1990 comprata nel Medoc nel 1995. Aspetto? La vendo?

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Alessandro Morichetti

circa 7 mesi fa - Link

Manca l'unica risposta esatta, quella per cui potremmo aiutarti noi :-)

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