Cronache Marziane  #7. And the Moon Be Still as Bright

Cronache Marziane #7. And the Moon Be Still as Bright

di Emanuele Giannone

Ah! Che belle le fiere! Oh! Che belle le fiere! Ti ricordi le fiere, Jeff? Le piccole e le grandi, quelle organizzatissime e quelle arrangiate, le grandi kermesse e le fiere più piccole con pretese culturali perché gli ospiti d’onore sono glottologi casciubi e buyers di Nauru; e poi quelle strapaesane con rubizzi volti e atmosfera di fontane che dànno vino, quant’abbondanza c’è, eh?

Ah, ricordi le frotte di beoni manifesti o sotto mentite spoglie, gli appassionati, esperti, scienziati, relatori, cultori, imbucati paciosi o minacciosi eccetera? Ricordi i barcollanti e le apriche distese di collassati sui prati, i dessoûler sur l’herbe, le latrine improvvisate, gli arditi vomitori en plein air? Ecco, Jeff. Io ho detto basta, long ago. So we’ll go no more a roving.

Io mi ricordo bene di te e del settimo capitolo delle Cronache Marziane, quello in cui Bradbury piazza l’astronauta Biggs che, drunk as a skunk, fionda allegramente bottiglie vuote a terra suscitando le tue ire, tu che sei stregato dalle vette di bellezza e saggezza marziane. Tu sei l’apocalittico, tant’è che la fascinazione della cultura superiore ti porta a far fuori cinque vandali avvinazzati del tuo equipaggio – probabilmente sei astemio – mentre Biggs è certamente l’integrato che si disfa ovunque vada, svuota calici e bottiglie in processo iterativo e lascia dietro di sé tristi code di cocci e vomizioni. Io mi colloco in posizione intermedia, un po’ come il comandante della tua quarta spedizione su Marte, il Capitano Wilder, al quale tocca da un lato farti fuori, perché, diciamocelo, hai sbroccato malamente, dall’altro ti compiange e detesta gli integrati che continuano a disfarsi (e a uno, tale Parkhill, regalerà molte sedute di odontoiatria ricostruttiva).

So, I’ll go no more a roving. Fanno eccezione Montalcino, Collio e Carso. Bevo esclusivamente in compagnia scelta, via dalla pazza folla, non inquino, non occupo prati, non lascio tristi code. Per la settima volta su Marte, ricordando le fiere, ho bevuto questi senza nostalgie.

Terrano 2018 Skerlj.
È quello con l’attacco in Pianissimo che serve a mettere in risalto il Crescendo seguente e poi avanti fino all’Allegro con Fuoco del finale. Eleganza sussunta nella chiarezza e bontà delle note di frutto rosso e scuro maturi, della liquirizia e del pepe, nella vena sapida-ferrosa e nella freschezza ben vestita. Progressione coinvolgente, continua, senza pretese di travolgere (bonus) e chiarissima coda fruttata e amaricante.

Terrano 2018 Zidarich.
Con questo fanno due che potrebbero regalare al Terrano quello che Dave Brubeck regalò alla discografia jazz, ovvero il primo esemplare da oltre un milione di copie vendute. Il Terrano ha tempi strani di suo, tocca a chi suona saperci fare e non steccare. Dopo Dave Skerljck, è qui Benjamin Brudarich che si cimenta nei suoi refoschi suonati come Blue Rondo à la Turk e Take Five, coi 5/4 e i 9/8 come fossero tempi ordinari. Per lui, oramai, è ordinaria amministrazione; per noi sempre una somministrazione straordinaria.

Terrano 2018 Škerk.
Lui è quello che durante l’ultima edizione di Mare e Vitovska ci accolse a Prepotto in frotta, costringendoci a riflettere sull’adeguatezza del titolo della manifestazione: meglio quello ufficiale, o piuttosto Vitovska e un Mare (d’altri vini)? Il tavolo, pur ampio, su cui Sandi andava approntando i bicchieri pareva dopo qualche minuto un set pronto per mega-esibizioni di cristallofonia. Che c’entra col vino? C’entra, perché il suo è il Terrano più caloroso, accogliente, pieno e robusto. Il nome del Terrano, in fin dei conti, in origine significava proprio di casa. Di casa e di festa, oltreché di amarena, ruta e terra. Piena e vivida, quasi grassa (umami) anche la vena sapida-amara.   

Terrano 2011 Renčel.
Ci sono i Brubeck e ci sono i Rollins. Tutti i jazzisti improvvisano, Renčel lo fa non per abbellimento per una melodia originale, bensì per “… variazione ricorsiva, quindi reinvenzione melodica”. Non ci sono ripetizioni, ogni brano fa storia a sé, che sia un suo originale o un medesimo standard. Mutatis mutandis, qui la melodia originale è il Terrano e il 2011 è tutto struttura e succo, il frutto è scuro come le spezie, Josko gioca con tutto il repertorio di possibili dissonanze ma non ne sbaglia una. Il risultato è una versione magistrale: lunga, cadenzata e densa come Oleo, ferrosa e vellutata. E, se vogliamo dire che è una questione di stile, allora vale quanto si è detto di Sonny: “Lo stile di Rollins non (è) un omaggio a sé stesso ma un tributo alla musica jazz.”

Postilla: So, we’ll go no more a roving è la poesia di George Byron, inclusa in una sua lettera del 1830 a Thomas Moore, dalla quale è tratto il verso che dà il titolo alla settima Cronaca. Jeff Spender la recita mentre contempla le vie di una città fantasma. Tutti gli abitanti sono caduti vittime di un morbo trasmesso loro dai membri della precedente spedizione:

So, we’ll go no more a roving

   So late into the night,

Though the heart be still as loving,

   And the moon be still as bright.

For the sword outwears its sheath,

   And the soul wears out the breast,

And the heart must pause to breathe,

   And love itself have rest.

Though the night was made for loving,

   And the day returns too soon,

Yet we’ll go no more a roving

   By the light of the moon.

Le note su Josko Rollins sono liberamente tratte dal profilo di Sonny sul portale di Piero Scaruffi.

Emanuele Giannone

(alias Eleutherius Grootjans). Romano con due quarti di marchigianità, uno siculo e uno toscano. Non laureato in Bacco, baccalaureato aziendalista. Bevo per dimenticare le matrici di portafoglio, i business plan, i cantieri navali, Susanna Tamaro, il gol di Turone, la ruota di Ann Noble e la legge morale dentro di me.

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