Epistenologia II di Nicola Perullo: per allargare lo sguardo occorre scostarlo

Epistenologia II di Nicola Perullo: per allargare lo sguardo occorre scostarlo

di Pietro Stara

Avevo terminato la recensione di Epistenologia I citando il Calvino delle “Lezioni Americane” alla voce “leggerezza”. Ora apro con Italo Calvino, comunque dalle sue magnifiche “Lezioni Americane”, però dalla voce “molteplicità”. Italo Calvino riporta l’attacco del romanzo “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda e, rivolgendosi ai conferenzieri, così dice: “Ho voluto cominciare con questa citazione perché mi pare che si presti molto bene a introdurre il tema della mia conferenza, che è il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo. Avrei potuto scegliere altri autori per esemplificare questa vocazione del romanzo del nostro secolo. Ho scelto Gadda non solo perché si tratta d’uno scrittore della mia lingua, relativamente poco conosciuto tra voi (anche per la sua particolare complessità stilistica, difficile anche in italiano), ma soprattutto perché la sua filosofia si presta molto bene al mio discorso, in quanto egli vede il mondo come un «sistema di sistemi», in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato”. Ma Calvino non si ferma qui, e soggiunge a proposito de “La cognizione del dolore”: In questo libro Gadda scoppia in un’invettiva furiosa contro il pronome io, anzi contro tutti i pronomi, parassiti del pensiero: «… l’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona».

Quando Nicola Perullo guarda il vino di traverso, un po’ di sbieco, rifiutando di incontrarlo in un duello epistemologico, in un vis-à-vis conoscitivo, non fa altro che sgonfiare l’ego, rimpicciolire il soggetto, ridurre la sostanza del più lurido dei pronomi e, allo stesso tempo, rinculare ed assottigliare l’oggetto. “L’incontro col vino è un annodarsi di linee” – afferma Perullo – “dove emerge la realtà polifonica del gustare senza tema”. Di là ribatte Calvino: “Carlo Emilio Gadda cercò per tutta la sua vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità”. Ecco allora che il vino ‘epistenologico’, nel suo secondo atto, diventa come le scale di Georges Perec che, a ogni piano, “erano un ricordo, un’emozione, e, qualcosa d’antico e impalpabile, qualcosa che palpitava chissà dove, alla fiamma vacillante della memoria: un gesto, un profumo, un rumore, un luccichio, una giovane donna che cantava arie d’opera accompagnandosi al piano, un ticchettio maldestro di macchine per scrivere, un odore tenace di cresile, un clamore, un grido, un frastuono, un fruscio di sete e pellicce, un miagolio lamentoso dietro una porta, dei colpi contro le pareti, dei tanghi suonati e risuonati su fonografi sibilanti…” (La vita, istruzioni per l’uso).

Si procede per preposizioni semplici e tra queste “con” svolge un ruolo privilegiato: ‘con il vino’ è compagnia e tuttavia unione; è un mezzo per, e non da meno, di modo e di maniera, non di metodo; è qualità, ma non di se stesso; è causalità, purché in scambievole reciprocità; è limitazione del soggetto, ma non contenimento, né confine né, tantomeno, impedimento.

Finis Terrae?
Con il vino, dunque, e come la mettiamo con Epistenologia? Il timore, che poi diventerebbe errore e che non si attarderebbe a trasformarsi in terrore sarebbe quello di pensare ad Epistenologia II come a un contro-trattato sul vino, oppure ad un anti-trattato sulla degustazione e ancora ad un trattato anti-metodologico sul primo e sulla seconda. Se così fosse, ma così non mi pare affatto, cadrebbero immancabilmente i suoi intenti, i suoi supposti e i suoi presunti: “Un’altra falsissima idea che pure ha corso attualmente è l’equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, esplorazione del subconscio e liberazione; tra caso, automatismo e libertà. Ora, questa ispirazione che consiste nell’obbedire ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora”. (Raymond Queneau, 1938).

Questo non significa, si badi bene, che non esistano fondamenti ispirati da diverse letterature con tratti d’unione comune: la bibliografia ci restituisce una tanto parziale quanto significativa sponda che permette di ricostruire lo scenario letterario da cui Nicola Perullo trae spunti e pungolature di ogni sorta. E non mancano certo critiche ad approcci metodologici consolidati o in via di consolidamento. Ma, come per Tim Ingold, non si tratta di stabilire nessi tra caso e necessità, bensì tra vincoli e possibilità. L’incertezza è una qualità intrinseca degli eventi indeterminati a priori e storicamente contingenti a posteriori. Il vino non è il risultato di coordinate prefissate di tratti genetici predeterminati, ma è un’entità in fieri la cui morfologia si determina nell’incontro con l’ambiente circostante (fisico e psichico). Appartenenze ed eredità ci raccontano solo una parte della storia. Questo è per me il vitale insegnamento di Epistenologia II: per allargare lo sguardo occorre scostarlo.

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

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