Il báijiǔ, il distillato cinese alla conquista del mondo

Il báijiǔ, il distillato cinese alla conquista del mondo

di Thomas Pennazzi

Intravino vi ha appena trasportato in Cina con un report di Salvatore Agusta sui vini della provincia del Ningxia. Cambiamo bicchiere e bevanda, ma restiamo all’interno della Repubblica Popolare, perché questo immenso Paese ha molto da offrire, anche in fatto di alcolici.

Come anteprima del Milano White Spirit Festival lunedì 26 marzo si è tenuto un seminario sul più celebre e desiderato dei báijiǔ cinesi, il Kweichow Moutai: il vostro blog preferito non si ferma mai, e siamo ovviamente andati a curiosare per poi raccontarvi di che si tratta.

Sconosciuto al pubblico italiano, questo tipo di distillato che è chiamato talvolta shaojiu (烧酒) è tuttavia assai più bevuto dell’universalmente nota vodka, rappresentando – da solo – un buon terzo di tutti gli alcolici consumati ogni anno nel mondo. La sua diffusione oltre la Grande Muraglia finora è stata limitata alla comunità sinofona sparsa per il globo: molto di rado il báijiǔ fa capolino tra i bevitori privi di occhi a mandorla.

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Ma di cosa si tratta? Il báijiǔ (白酒, pron. Bài-djò), la cui traduzione letterale sarebbe alcool bianco, è un nome generico per indicare il distillato di cereali, che ha un’antica tradizione nel Regno di Mezzo: lo si presume nato durante la dinastia Song (960-1279 d.C.), o poco dopo; la datazione resta tuttavia incerta. La sua produzione differisce dall’affine vodka per numerosi dettagli, pur trattandosi di due membri della stessa famiglia alcolica.

La caratteristica saliente di questo distillato è, in maniera simile ad altri alcolici estremo – orientali, l’utilizzo di uno starter fungino, in Cina chiamato , per ottenere la massa zuccherina fermentescibile, e la successiva, anzi contemporanea fermentazione alcolica. La materia prima dalla quale più comunemente si ottiene l’acquavite cinese è il sorgo rosso (=fragranza), e nel sud il riso glutinoso (=delicatezza), ma anche il frumento, il miglio, il mais (=dolcezza), l’orzo (=pungenza), ed altri cereali minori.

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I tipi di starter si classificano in grandi colture chiamate Dàqū, che contengono muffe Aspergillus, tradizionalmente usate nel nord e nel sudovest del Paese: sono mattonelle di frumento (a volte anche miscelato a piselli secchi) impastate con acqua, pressate in blocchi di 3,5 kg e lasciate stufare al caldo per un paio di mesi; e in piccole colture chiamate Xiăoqū, impregnate di Rhizopus e Mucor, utilizzate nella Cina del sudest: queste sono palline di riso cotto impastate con varie erbe, che lasciate essiccare si ricoprono di fermenti. Le prime sono le più usate, e producono i báijiǔ più diffusi, le seconde si usano solo per fermentare il distillato di riso.

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Il processo è estremamente variabile nei metodi secondo i produttori, ma si compone di tre fasi fondamentali, la saccarificazione, la fermentazione, e la distillazione.

La prima fase prepara il cereale macinandolo, bagnandolo con acqua calda per un giorno, e poi cuocendolo a vapore per un’ora circa in una caldaia in cui questo è sospeso in un cesto di vimini sopra l’acqua bollente. Una volta cotta, la massa si spande sul pavimento e si lascia raffreddare parzialmente. L’inoculo del avviene in questa fase: secondo la sua qualità e la temperatura dell’aria, ci vogliono da 300 ad 800 grammi di fermento per quintale di granaglie.

Passata qualche ora od un giorno, la saccarificazione termina grazie alle amilasi fungine, e comincia la seconda fase: la massa viene raggruppata in fosse di argilla, mattoni, o cemento e coperta con stuoie e/o fango, e lasciata fermentare anaerobicamente da una a due settimane o anche molto più a lungo. Durante questo periodo avviene la fermentazione alcolica, avviata dall’inoculo del , e dalla flora che impregna da anni o perfino da secoli le fosse. Noterete che si tratta di una fermentazione a secco, che determinerà delle rese in alcool bassissime, in genere non oltre il 2/3%. Una volta aperto il cumulo del fermentato, questo verrà distillato un po’ alla volta, strato per strato.

La distillazione si fa nella stessa caldaia in cui è stato bollito il cereale, facendo bollire l’acqua nel fondo, e ponendovi sopra il cesto col cereale fermentato; si chiude il tutto con un coperchio convesso da cui un tubo ad angolo retto porta al condensatore; si tratta di una distillazione a vapore, simile alle caldaiette della nostrana grappa. I vapori vengono raffreddati nella serpentina, al cui termine si raccoglie il distillato condensato. Non è chiaro se avvenga il taglio delle teste e delle code, ma è improbabile, data la ricchezza di aldeidi ed alcoli superiori (füselöl) nelle acquaviti.

Di regola la massa residua dalla distillazione viene rimpastata con lo stesso distillato e/o nuovo cereale e nuovo , e fermentata e ridistillata una seconda volta, o più volte ancora per esaurirne gli zuccheri.

Una volta raccolto, il distillato matura in recipienti di terracotta vetrificata per almeno un anno o molto oltre, prima di essere diluito alla gradazione di consumo.

Esistono ovviamente metodi meno raffinati di quello descritto, poiché la fabbricazione dell’acquavite è patrimonio dell’intera Cina rurale, e la sua qualità dipende molto dalla qualità dell’inoculo, dalla tecnica di fermentazione e da quella di distillazione, oltre che dall’uso di materie prime differenti o in miscela tra loro.

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Il báijiǔ tipicamente ha un contenuto alcolico di 50°/55°, raramente meno, e talvolta vicino ai 60°/65°. La sua degustazione quindi non è facile, né facile è il suo sapore aggressivo, decisamente lontano dallo standard occidentale. Questo non ne permette la popolarità come bevanda pura al di fuori della Cina: ecco perché oggi il suo consumo si orienta alla mixology, in cui le note forti del distillato si stemperano nel cocktail e lo rendono accettabile al palato occidentale.

Le tipologie dell’acquavite cinese si classificano in cinque profili, secondo l’aroma (non il gusto) della bevanda:

Aroma di riso o mi xiang: tipico del sud della Cina, perché l’acquavite viene distillata da questo cereale. Questo è l’unico tipo di báijiǔ che viene fermentato in soluzione acquosa, ed è distillato tre volte scartando teste e code, di solito in un moderno alambicco a colonna. È il báijiǔ diverso, facile e dolce, dal sapore floreale, mielato, burroso per la presenza di lattato di etile, e che ricorda il soju coreano ed il sochu giapponese, pur se più alcolico; per gli amanti del brivido, ne esiste una versione in cui la bottiglia contiene un serpente.
Aroma leggero o qing xiang: tipico del nord (Pechino), è un’acquavite di sorgo in purezza. Il sapore è più delicato ed equilibrato di quello intenso, però secco e non così piacevole per la scarsità di congeneri, con gradazione intorno a 55°; è molto popolare per il suo basso prezzo, perché si produce più facilmente delle altre tipologie;
Aroma intenso o nong xiang: è lo stile più amato in tutta la Cina, e tipico del Sichuan, dove si concentrano le fabbriche; il báijiǔ viene ricavato da sorgo puro o in miscela con altri cereali, e fermentato in fossa anche molto a lungo. L’aroma è complesso, ricco di aldeidi ed esteri, fra tutti l’acetato ed il caproato di etile, con toni di frutta surmatura, perfino guasta, oleoso al gusto, e del retrogusto si dice che si riproponga per ore se non per giorni nel vostro stomaco;
Aroma di salsa di soia o jiang xiang: altrettanto persistente del precedente stile, è caratteristico dei distillati più famosi, tra cui il Maotai della degustazione di oggi; il sapore è meno aggressivo benché potente, e tende all’acetoso più che al salsato dell’aroma, se il distillato è fatto bene: altrimenti si dice sia una pozione temibile.
Aroma misto o jian xiang: è frequentemente dovuto all’aromatizzazione del distillato con l’infusione di vegetali, oppure da due o più báijiǔ di differenti caratteristiche: noi lo si direbbe un blended báijiǔ.

Il Moutai o Maotai, dal nome della cittadina dove questo distillato si produce, appartiene alla categoria jiang xiang: la sua elaborazione è lunga e faticosa, per l’impiego di un metodo di fermentazione molto usato negli Stati Uniti per il Bourbon Whiskey, il sour mash. Per questo celebre báijiǔ si pratica una prima distillazione dopo un mese col fermentato nuovo; il residuo viene rifermentato versandovi sopra il poco alcool ottenuto (che sembra una contraddizione). Si produce così un sour mash, a cui viene incorporato in pari quantità del sorgo nuovo, e di nuovo si fermenta la massa un mese, la si distilla, e si ripete il ciclo per altre sei volte: il processo dura quindi otto mesi. Alla fine il distillato matura in anfora almeno tre anni o molto più a lungo. Questo metodo ad alta intensità di lavoro in parte giustifica il suo costo elevato, ben più della media della categoria, spesso distillata in soli quindici giorni.

Già, il prezzo: in Cina il báijiǔ si può trovare a prezzi popolarissimi come a cifre stellari. L’unità di misura è l’anforetta di ceramica da mezzo litro, che può costare dai 5 ai 10 renminbi per i prodotti scadenti (il prezzo di una birra locale, € 0,65 – € 1,30), dai 10 ai 150 per quelli accettabili, fino alle vette del Kweichow Moutai che non è alla portata del cinese medio, costando anche 2500 renminbi alla bottiglia, quasi uno stipendio mensile da operaio: dovete pensare che per loro questo distillato rappresenta quello che per noi potrebbero essere i vini di Gaja o Biondi-Santi. Va da sé che se ne trova assai di contraffatto, e che è stato, ed è ancora, nonostante la stretta anticorruzione imposta dall’attuale leader, il dono preferito per “ungere le ruote” della burocrazia statale, accanto (ma più raramente) ad una pregiata bottiglia di cognac, emblema di lusso occidentale più dello champagne.

La distilleria di stato dà lavoro a circa 30.000 dipendenti, e vista dall’alto, la sua distesa di capannoni potrebbe essere scambiata per uno stabilimento industriale di tutt’altro genere, pur se posta in un luogo idilliaco incassato nella valle del fiume Chishui. La produzione si stima pari a 84 milioni di bottiglie, più o meno come quella del cognac Hennessy : il fatturato più recente parla di 9 miliardi di dollari, con un generosissimo utile netto.

Che uso se ne fa nella madrepatria? Ogni Paese ha usanze leggermente diverse sul modo di bere gli alcolici, e quello cinese è peculiare: il bere non solo è socialmente accettabile, ma è praticamente un obbligo in qualunque riunione, sia essa familiare o di lavoro, per tacere dei pranzi ufficiali della Repubblica Popolare (il governo cinese è il primo acquirente di Moutai nonché il proprietario della rinomata distilleria). Il báijiǔ si beve in bicchierini da meno di un centilitro per accompagnare il pasto, tuttavia mai come digestivo. Se ne beve tanto, per lo più come brindisi comunitario, e più si è in alto nella scala sociale, più il sopportare l’alcool (jiuliang) diventa un’esigenza. Non si può rifiutare un brindisi: ad ogni giro (se ne fanno numerosissimi) cala giù un bicchierino di alcool a circa 50° al grido di ganbei, e tutti devono vuotarlo, pena la feroce riprovazione del gruppo. Di solito la bottiglia aperta va finita, anche perché l’acquavite aperta si ossida in tempi rapidi prendendo un gusto orribile. L’ubriachezza generale è accettata e permette di abbattere le barriere sociali, e ha pure creato nuove professioni: in ogni ristorante trovate l’ometto sobrio che, arrivato in bicicletta dalla periferia, per 10 renminbi la ripiega nel baule della vostra auto e vi riporta a casa, per ritornare pedalando a prendere nuovi clienti, che non mancano mai.

La degustazione ha messo in luce le qualità del báijiǔ considerato il più nobile e tra i più ricchi di tradizione cinese, il Kweichow Moutai, che è patrimonio (e profittevolissima industria) di stato.

Kweichow Moutai – 53°Moutai
Servito secondo tradizione in minuscoli bicchierini che ricordano i nostri da rosolio, il suo caratteristico aroma si spande subito nella stanza. I cinesi non indugiano però sull’aspetto olfattivo. Il naso è bizzarro, intensamente aromatico: note di spezie, di solvente, e odori che ricordano davvero la salsa di soia senza essere sgradevoli. Al palato le cose cambiano parecchio, salvo il forte aroma. Sorprende la robusta acidità, unita a dell’amarezza (sono i tannini del sorgo) e ad un ricordo di cereali. L’alcool non si avverte granché, segno di una distillazione ben condotta. Il retrogusto è astringente, e moderatamente persistente.

Questo Moutai fa pensare a certa grappa di una volta con parecchio spunto acetico, ma il profilo aromatico è differente, più ricco: nella sua originalità orientale è ovviamente un prodotto difficile da capire per noi, però il sopracciglio alzato che tenevo all’ingresso si è appianato presto. Mi aspettavo di peggio, dopo i racconti raccapriccianti di amici che ne avevano bevuti parecchi in Cina. Se lo immaginiamo contestualizzato in un pasto cinese, probabilmente questo liquore si esalterà piacevolmente rispetto alla bevuta in purezza.

Moutai PrinceMoutai Prince – 53°
La qualità superiore invecchia cinque anni. Si tratta sempre di un blend di vari distillati. L’acquavite invecchiata si dimostra evoluta, dagli spigoli limati, pur ricordando parecchio la precedente. Al naso offre una ricchezza più mite, ma pur sempre intensamente aromatica. Assaggiata, è ancora evidente il gusto acido, ma più rotondo. La nota di solvente è forte, ed il tannino morde ancora di più del fratello minore: seppur strana, si lascia bere gradevolmente. Deglutita, lascia un retrogusto lievemente aromatico, con cenni floreali, ed una discreta astringenza.

Foto: Davide Terziotti

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto non può ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito, e da qualche anno ne scrive in rete sotto pseudonimo.

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