De Beaumont e la vite di 150 anni che non fa vino

De Beaumont e la vite di 150 anni che non fa vino

di Davide Bassani

Il mondo è bello perché è vario. Potrei anche dirvi che non ci sono più le mezze stagioni e con il repertorio di retorica per oggi abbiamo datoe potremmo chiudere qua ed Invece no! Dovete andare avanti a leggere per sapere che in ogni piccolo mondo c’è sempre una testa (no, era il contrario, oggi son confuso) ed in ogni piccolo mondo ci sono dei personaggi. Tuttavia ne esistono alcuni che pur avendo mani e radici (e che radici – anche di 150 anni) ben piantate in territori (e che territorio, l’Irpinia) archetipici della viticoltura italiana hanno scelto un’altra strada, non necessariamente ostinata e contraria, ma solo parallela.

Hanno imboccato una sliding door senza incrociare Gwineth Paltrow alla fermata di Fulham Broadway. Hanno solo ascoltato la storia di famiglia raccontata dalla nonna; Fabio de Beaumont l’ha ascoltata e ci ha costruito sopra un vino…

Perdonami la domanda strettamente personale: ma sei di origine nobile?
Beh, si, sulla carta si! Abbiamo questo titolo di Baroni ed il cognome (de Beaumont ndr) è originario della Francia. La mia famiglia si insediò a Napoli nel 1200 per poi acquistare il feudo di Castelvetere nel 1675 dove ho ora l’azienda. Ancora conserviamo l’atto di proprietà e le mappe catastali dell’800. Sembrano i disegni di un bambino con la casetta, le finestrelle, l’alberello; una cosa bellissima oltre che di un valore inestimabile.

La famiglia ha sempre avuto rapporti sia con la Chiesa che con lo stato tant’è che alcuni avi furono generali di Carlo d’Angiò nella battaglia di Benevento (1266 ndr). A parte il feudo possedevano altre proprietà, non solo nel contado ma anche in città come Napoli appunto. Come ogni famiglia che si rispetti c’è stato chi si è giocato tutto a carte e quindi eccomi qua: la mia è la terza generazione che lavora, o almeno ci prova! L’idea è rimettere assieme i pezzi. Un giorno ho chiesto a nonna (la Baronessa, il pet-nat a base Fiano è dedicato a lei ndr): “ma come mai non ci si è mai dati da fare per creare qualcosa viste le grandi possibilità di un tempo?” Risposta: “Fabio, all’epoca, per un Barone, era disdicevole lavorare!”. Conservo ancora la carta di identità del mio bis-nonno. Professione: Barone.

La domanda di rito: cosa è mancato dalle istituzioni in questo anno di pandemia?
Vogliamo partire dai contributi che abbiamo sempre versato? L’INPS ci ha riconosciuto 1200 euro più altri 1000 nel 2021. Ora, dimmi che cosa se ne fa un’azienda pur piccola di soli 2000 euro; certo non li trovi per terra o sugli alberi però… le bottiglie le devo acquistare, la produzione deve andare avanti, il costo dell’operaio c’è e le utenze si pagano.

La regione Campania ha promesso (nel 2020 ndr) 6500 euro per gli agriturismi, ma il problema sono i tempi. Il lato positivo della medaglia, almeno, è che chi non ha mai battuto scontrini ora non può lamentarsi delle perdite e non può pretendere assolutamente nulla. Siamo al vento, “si sta come d’autunno, sugli alberi le foglie”. I ristoranti acquistano meno o non acquistano proprio. Fortunatamente da gennaio ho cominciato a collaborare con Proposta Vini – con i miei soli canali avrei venduto praticamente zero. Ogni centesimo guadagnato finisce in azienda, non avendo ricevuto alcun genere di finanziamento; romantico ecco.

Di palo in frasca: come si convive con un impianto di oltre 100 anni? Come si lavora con una vigna così delicata? Non temi che la Fillossera arrivi e rovini tutto?
Dall’alto della mia ignoranza ti rispondo così: la Fillossera non ha l’ha uccisa prima e non la ucciderà più. Mettici anche le caratteristiche del territorio, le ampie escursioni termiche, la piovosità. Anche all’interno dello stesso appezzamento di 7/8000 mq ci sono terreni diversi tant’è che circa 6000 sono in produzione – dove troviamo un terreno più sciolto – mentre nel restante, dove sono seccate le viti, stiamo re-impiantando innestando il nostro ceppo di Barbera (piemontese, non sannita ndr) che fu portato in Irpinia da un nostro antenato da quella che all’epoca era la bassa Francia (l’attuale Piemonte ndr).

Una vigna così anziana – stiamo parlando di piante di almeno 150 anni (!) – la si deve trattare necessariamente con i guanti di velluto. Storicamente questo appezzamento è sempre stato coltivato in modo tradizionale, puntando sulla quantità e non sulla qualità; un po’ come se fosse un guyot su uno sperone e quindi allungando di molto il capo a frutto. Trovai il vigneto disastrato e dovetti abbassare gli speroni su tralci con un diametro di 20cm! La nostra pergola avellinese sviluppa la pianta in altezza, non come il classico impianto a filare che dista da terra al massimo un metro.

Certo, questo metodo (la pergola) è molto meno soggetto a malattie, anche grazie all’esposizione a sud-est ed alla ventilazione; in antichità serviva per permettere ai contadini di sfruttare al massimo la terra a disposizione, facendo economia sugli spazi; pensa che, ancora oggi, nascono spontaneamente sotto la vite aglio, sedano, menta, finocchietto, tutte cose che, gira e rigira, ti trovi nel bicchiere.

L’obbiettivo è comunque ricavare il meglio dalla produzione: pensa che da 6000 mq di vigneto arriviamo al massimo a 30 q.li di uva (25 q.li di vino). Affinando ulteriormente i conti fanno 3000 bottiglie. Originariamente la Barbera era utilizzata come saldo dell’aglianico per il Don Fa (vedi sotto ndr) mentre ora, complice anche l’unicità del vigneto, la sto portando avanti come progetto a se stante (un vino fermo affinato in solo acciaio, il Macchiusanelle ndr).

Il Don Fa (vino a base aglianico fortificato ed aromatizzato con foglie di amarena selvatica), il pezzo grosso della tua produzione: come ti è venuta questa idea nell’areale del Taurasi?
Siamo nella parte ovest dell’areale del Taurasi nella zona più “rude”, alta e fredda con escursioni termiche incredibili, ricordo un’estate: di giorno 32 gradi e la sera a 9! Venendo al Don Fa, l’idea è stata più che altro famigliare, a quell’epoca – parliamo del 2014 – io ero a Roma a concludere i miei studi di giurisprudenza (avrebbe detto cazzeggiare ma è un ragazzo serio e non ci credo ndr).

Stiamo parlando di un liquore che da sempre si è fatto in casa, da consuetudine famigliare, tant’è che sull’etichetta si intravede il manoscritto della ricetta. L’azienda fu trasferita da mia nonna a me ed il prodotto, pian piano, riuscì a farsi apprezzare e riuscii a trasformare questo gioco nel mio lavoro. Negli anni, grazie a Marco Moccia, l’enotecnico che mi segue, abbiamo riformato i vigneti coltivando in biologico fin dall’inizio e riuscendo a diminuire la quantità di rame utilizzata rimanendo ben al di sotto dei 3 kg/ha imposti dal biologico.

Il processo prevede, dopo la spremitura e la vinificazione in acciaio (non utilizziamo mai legni per i nostri liquori), l’infusione delle foglie di amarena a freddo per 60 giorni per poi procedere all’affinamento ancora in acciaio ed alla fortificazione. La ricetta è stata modificata aggiungendo il periodo migliore per la raccolta delle foglie (da farsi tra le 6 e le 9.30 del mattino evitando che si riscaldino troppo alla luce del Sole), la giusta quantità di zucchero e la quantità di alcool (puro di cereali) da parametrarsi sul titolo alcolometrico del vino ottenuto.

Dopo la raccolta le foglie vengono sparse in cantina per essere arieggiate e per evitare qualsiasi tipo di appassimento indesiderato ed il risultato è fantastico: la cantina inebriata dal bouquet del Don Fa! Cannella, cipria, china. Il Don Fa non è un prodotto stucchevole, non andiamo ad aromatizzare, ad esempio, con un frutto ma usiamo una parte vegetale che dona aromi e non zuccheri; aggiungici l’azione dell’Aglianico e dei suoi tannini ed il risultato è una bocca pulita e asciutta. Riesci tranquillamente a berlo su un dolce a base cioccolato o come fine pasto.

Ti stai cimentando nei bianchi?
Si, bianchi ma sopratutto spumanti! Abbiamo questo piccolo appezzamento di Fiano e Coda di Volpe a fianco della Barbera, impiantato circa 30 anni fa da mia nonna: il progetto è un macerato da Fiano (prima annata 2019). Marco, l’enotecnico, che viene da un mondo molto tradizionale, collaborando con alcuni grandi – ed importanti – produttori, dice sempre che io gli ho cambiato i connotati! Non avendo protocolli, facciamo partire la fermentazione in maniera spontanea e poi il vino si fa col naso.

Ti piazzi sopra al serbatoio, annusi, e decidi come e se farti il tuo rimontaggio quotidiano, se ha bisogno di aria, se ha bisogno di qualcosa di diverso come una “calafiata” (follatura ndr). Il macerato, dicevo, fa poca macerazione rispetto ai grandi delle macerazioni (Fabio nomina Terpin, ndr), circa 20 giorni. Troppa macerazione andrebbe ad “incicciottire” il vino che beneficerà, infine, di un passaggio in rovere e castagno di circa un anno. Poi, con i nuovi impianti, ho cominciato a produrre un pet-nat a base Fiano che conclude la sua fermentazione in bottiglia. Non come il metodo classico, una cosa a piacere ecco! Ad ogni modo mi sto lanciando anche nella spumantizzazione di un rosato a base aglianico partendo da uva non diraspata con una resa al 50%. La presa di spuma la facciamo partire con il mosto che abbiamo congelato la vendemmia precedente, uno zucchero naturale che ha gli aromi del mosto. L’idea è di capire come arriva un prodotto del genere con un affinamento di 36 mesi anche se credo che già con 24 possiamo ottenere qualcosa di centrato e corretto.

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