Il Vinitaly 2018 del mio telefono (© Antonio Boco)
di Alessandro MorichettiL’idea di Antonio Boco su Tipicamente (Il Vinitaly 2018 del mio telefono) mi è piaciuta così tanto che la copio: raccontare il Vinitaly usando alcune foto (pubblicabili) pescate dallo smartphone, di fatto l’unica memoria affidabile e funzionante che possiedo al momento. Quindi, step back, siamo a sabato 14 aprile, ho appena preso possesso del mio alloggio a circa un chilometro dal centro e mi avvicino a una delle piazze più belle d’Italia, perché Piazza Bra + Arena di Verona + Palazzo della Gran Guardia valgono il prezzo di qualsiasi sbatti.
Pronti, via. C’era una volta il tempo degli assaggi metodici con appunti annessi. Ad Opera Wine cazzeggio con Alberto Muscolino, bevo sputando giusto qualche ciofeca e ho subito un’illuminazione per la prossima campagna di marketing dell’azienda Planeta.
Nel marasma incontro anche l’enologo Umberto Trombelli, che non conosco ma che saluto cordialmente e poi inizio ad insultare. Diventiamo subito amici. E la Ribolla 2003 di Gravner non è il suo vino preferito della giornata.
Passaggio veloce tra i piemontesi, Giovanni e Gaia Gaja c’erano già il giorno prima da Fontanafredda a Serralunga per la conferenza di Angelo sulla storia di Barolo e Barbaresco (il video è qui ed è molto interessante) e li trovo anche qui. In Sorì Tildin 2013 trovo una quota di rovere ancora rilevante ma va bene così.
Lo so, ha dell’incredibile ma foto canta: Alfio Cavallotto sta lavorando.
Intanto una fan mi ferma ma non vuole l’autografo. Meglio per entrambi.
A cena siamo in una tavolata lunga con qualche produttore e capito accanto a Bernardo Conticelli che, a un certo punto, suggerisce un vino decisamente giusto. Questo genere di Valpolicella sui 12% e con quel tocco di melanzana al naso mi manda ai pazzi e ne berrei qualche ettolitro. Valpolicella Classico 2016, Le Ragose.
Meglio non esagerare però, perché poi si fa una passeggiata fino al Sottoriva per rinfrescare l’ugola e vivere un po’ di movida veronese.
C’è anche una gentil donzella a conversare con noi: è Eleonora Guerini – ex Gambero Rosso, ora in forza a Terra Moretti – e con quegli occhi potrebbe vendermi qualsiasi cosa.
Intanto arriva pure Tommaso Ciuffoletti ma si vede che perde i pezzi e non c’ha più il fisico di una volta.
Giorno dopo, domenica. Inizia il Vinitaly, alle 13 c’è il Meeting di Intravino in Abruzzo, gli standisti sono ancora freschi e pimpanti ma è destino che io mi distragga: c’è un limite a tutto tranne a cotanta perfezione. (I commenti sessisti, maschilisti, femministi, verranno tutti bannati).
Mi avvicino in Abruzzo e sento una voce nota nell’aria. È Vincenzo Donatiello – maitre di Piazza Duomo ad Alba – che tiene una degustazione nella Regione Calabria. Lo vedo solo in video e confermo: non è bello ma bravo e piace.
Il Meeting va sempre bene. C’è chi vuole esserci per un saluto e in fiera siamo sempre più o meno gli stessi. Ci si vede una volta l’anno per un bicchiere e due ciance, è sempre un piacere farsi ospitare (anzi, cominciate a farvi avanti per il prossimo anno).
Certo, sulla gnoccaggine c’è ancora molto da lavorare ma questo passa il convento: il tridente Stara-Cinelli Colombini-Fino sembra il manifesto di una campagna contro la fertilità.
A fine festa, giro l’angolo e mi siedo a una verticale mista di Montepulciano d’Abruzzo, sempre in occasione dei 50 anni della doc. I miei preferiti sono un Malandrino 2012 di Cataldi Madonna che si smarca per minore intensità cromatica, trasparenza e facilità di beva, Pepe 2007 che parte sempre coi maroni girati e poi diventa tutt’altro, godibilissimo, Valentini 2001 che è un bel mastino e sembra un montepulciano vinificato a Gevrey e Mazzamurello 2005 che tiene magnificamente il tempo.
Scopro che Alberto Muscolino è stato così diligente ed educato da aver prenotato per le 17 una sosta presso lo stand della Mauro Mascarello. Ci accoglie Elena, con cui passiamo un po’ di tempo come sempre a parlare di tutt’altro e intanto sbevazzo un po’ di Ca’ d’Morissio 2010. Del quale non saprei dirvi molto perché a un certo punto Alberto ed Elena disquisiscono fittamente di canto e teatro e io me lo sono bevuto senza fare la scheda Ais.
Lunedì, laboratorio Old but Gold tenuto da Ian D’Agata (Vinous) e Alberto Mazzoni dell’Istituto Marchigiano di Tutela. In teoria una verticale mista di alcuni Verdicchio che hanno fatto la storia, in pratica esco un po’ sconfortato. La retorica del vino più premiato e del vitigno più versatile inizia a suonare stanca. Il grande Verdicchio è bianco, secco, dagli odori intriganti e sussurrati, dalla struttura presente eppur agile nonché dalla longevità importante. Mi trovo di fronte ad una batteria in cui troppo pochi campioni disegnano una traiettoria di futuro auspicabile: tra qualche dolcezza di troppo e qualche morbidezza ammiccante trovo conforto in Villa Bucci 1997 e faccio mie alcune delle perplessità illustrate da Matteo Gallello su Porthos pochi giorni fa, nell’articolo “Il Grande Verdicchio, lo stato delle cose“.
Anzi, visto che siamo in tema colgo l’occasione per fare una marchetta al mio amico Riccardo Baldi (La Staffa) – azienda marchigana dell’anno, insignita proprio al Vinitaly del “Premio Angelo Betti per i Benemeriti della Viticoltura – Gran Medaglia Cangrande” – perché con Selva di Sotto 2015, in uscita ad ottobre, il giovane ex golden boy alza l’asticella della denominazione con un vino che è al contempo molto buono, molto ambizioso e molto costoso (sui 70 euro in enoteca). Nasce dalla vigna di Alvaro e da alcune coincidenze che mettono i brividi: proprio in quella vigna (denominata Selva di Sotto), Carlo Pigini pescò alcune delle migliori uve che diedero vita ai Cuprese storici, prodotti con il metodo dell’iper-ossidazione dei mosti. Questo vino è nato proprio sotto gli occhi di Pigini con quel metodo e – con buona pace dell’ormai amico Umberto Trombelli – se una stella polare si deve individuare, dal Cuprese 1991 possiamo partire.
Una mia tappa fissa al Vinitaly, ogni anno e non di certo per le 36 bottiglie in croce che vendo. Quando mi siedo tra Angelo Muto (Cantine Dell’Angelo) e Luigi Sarno (Cantina del Barone), rispettivamente coi loro Greco di Tufo e Fiano di Avellino, mi sento così felice e protetto che finisco a mangiare e bere come un disgraziato. Uomo di campagna il primo, enologo spericolato il secondo. Terroiristi entrambi, un’accoppiata che mi piace sempre, non solo ma anche per quei vini così caratteriali, cazzuti e nemmeno lontanamente accomodanti. Credo sia una di quelle soste in fiera che meritano un surplus di attenzione e riflessione oltre l’assaggio.
Ancora un passaggio in Abruzzo, l’ultimo, per una degustazione torrenziale di vecchi Montepulciano con interventi di ogni singolo produttore da cui desumo alcune piccole verità. Il Montepulciano d’Abruzzo può invecchiare magnificamente e sono davvero rari i casi in cui tutta una regione converge nell’individuare un riferimento assoluto per gli standard qualitativi storicamente intesi. Lo trovate in cima alla lista e con merito. Altresì possiamo osservare che il Montepulciano è una vera bestiaccia, forte e gentile come chi lo produce ma almeno nei primi anni meglio stare un po’ accorti.
2 Commenti
Tommaso Ciuffoletti
circa 6 anni fa - LinkEro sobrissimo!!!!
RispondiAlberto Muscolino
circa 6 anni fa - LinkDella serie "oltre alla filosofia studiate anche canto, recitazione, ballo, decoupage, ..." :D
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