Il paradossale mondo del whisky è andato di nuovo in scena al Milano Whisky Festival

Il paradossale mondo del whisky è andato di nuovo in scena al Milano Whisky Festival

di Thomas Pennazzi

Il Milano Whisky Festival è tornato ai fasti del passato: smaltito l’incubo pandemico, con l’edizione 2020 saltata, e con la 2021 tenutasi sottotono in Fiera, la manifestazione alcolica più attesa dell’anno ha dimostrato ancora una volta la sua forza attrattiva sugli appassionati e sui professionisti di tutta Italia.

La nuova sede: un indirizzo prestigioso nel cuore di Milano, lo splendido Palazzo delle Stelline, sito giusto di fronte al Cenacolo Vinciano; già monastero e poi orfanotrofio femminile, ora recuperato a centro congressi della città, ha fatto da adeguata cornice al vivacissimo evento per ben tre giorni (3-5 dicembre). L’ampio chiostro vetrato si è prestato ad accogliere confortevolmente la folla dei partecipanti in uno scenario di raffinata architettura.

Tutto esaurito il sabato e la domenica, un poco più di agio tra i banchi il lunedì, ma come sempre grande interesse, e numeri da capogiro. A cominciare dalle possibilità di assaggio, più di 4.000 bottiglie in mescita, in massima parte di whisky, ma con tollerate presenze di altri distillati. Tutti i principali importatori italiani facevano mostra dei loro poliedrici cataloghi, con l’aggiunta delle numerose masterclass tenute dai brand ambassadors delle distillerie. Per i nerd più scatenati, era possibile ottenere dei flaconi, in modo da portarsi a casa le campionature delle bottiglie da acquistare in futuro o da assaggiare con la dovuta calma.

Il pubblico: è stato come sempre nutrito e variopinto, al 99% maschile – ma si sa, il mondo dei distillati non è lady-friendly – e visibilmente giovane. La platea degli appassionati è in continuo rinnovamento, e sempre più curiosa ed informata: cosa assai apprezzabile, e che rende conto della salute del mondo che ruota attorno al whisky.
Del resto, tra i siti dei degustatori professionisti, blog di ottimo livello, recensori parkerizzanti, whisky club, corsi online, e chi più ne ha ne metta, la scena culturale del whisky in Italia ed all’estero è di una vivacità irripetibile a confronto di ogni altro distillato, permettendo a tutti i novizi un ingresso facile ed un rapido apprendimento tecnico e sensoriale.

Le bottiglie: alla folla dei partecipanti corrisponde una folla di imbottigliamenti. Oltre alla gamma ufficiale presentata dagli importatori delle numerose distillerie planetarie – perché si fa whisky praticamente dovunque, dall’Alaska al Giappone, con in mezzo il resto del mondo – si deve sommare la pletora degli imbottigliatori indipendenti, chi celebre azienda professionale e chi piccolo selezionatore, senza contare gli operatori del mercato vintage o antiquario: le possibili varianti di un dato invecchiamento di una certa distilleria sono svariate, per annata di produzione, per grado alcolico, o per tipologia di barile, o di finishing, o botte singola, o altro ancora. Impossibile orientarsi senza studiare, a meno di lasciarsi trascinare nell’onda degli assaggi casuali, e finire poveri e alcolizzati.

Insomma, se siete anche solo curiosi del biondo distillato scozzese e non solo, il MWF è un appuntamento immancabile. Ma…

Le ombre di questo mondo rutilante si vanno sempre più avvicinando, benché all’apparenza il whisky sembri proiettato verso un futuro di crescita inarrestabile, come è desiderio dei manager delle multinazionali che possiedono i marchi più celebri del circo.

Dai tanti pareri ascoltati al festival per tastare il polso al mercato e comprendere dove stia andando il whisky, traspare la sensazione che il distillato abbia preso la forma di una meteora in accelerazione folle. Lo schianto sul pianeta Realtà se non sarà cosa di domani, è comunque certo.

Questo mondo sognante per ora sembra cullarsi in un’irreale felicità: le distillerie aumentano ogni anno di numero, i loro visitatori anche, i volumi di vendita pure, per tacere dei prezzi dell’acquavite, altrettanto irreali. La qualità del distillato invece è sensibilmente peggiorata rispetto a soltanto un decennio fa, per non parlare del passato, glorificato con assai buone ragioni.

La causa è banale: nella distillazione del whisky l’importanza della materia prima, l’orzo, è pressoché irrilevante; la sua qualità deriva dalla forma e dal volume degli alambicchi, e soprattutto dalle botti, che per parsimoniosa tradizione scozzese sono già state usate altrove. L’incremento della produzione, unito allo scadimento generale della qualità dei legni (per lo stesso motivo) ed al loro riutilizzo ripetuto, fanno sì che il whisky abbia bisogno di invecchiamenti sempre più lunghi per ottenere una parte di quel carattere che in tempi migliori era acquisito facilmente e in pochi anni di riposo. Per giunta il mondo anglosassone non beve più sherry, e quindi il whisky, in particolare quello di malto scozzese, il più celebre, sta perdendo una delle armi più potenti per creare le sue qualità. I numerosi tentativi di finishing nelle svariate botti ex-qualunque cosa, per sopperire alla mancanza di personalità acquisita durante l’invecchiamento, testimoniano bene il dramma che l’acquavite di malto sta attraversando.

A far da contraltare a questo stato di cose preoccupante, le infinite varianti del whisk(e)y prodotte in giro per il mondo offrono al consumatore un ventaglio di possibilità aromatiche ignoto a qualunque altro distillato, ma nessuna di queste è in grado di eguagliare la fama dello scotch whisky, con forse l’unica eccezione di quello giapponese.

Il livello dei prezzi inoltre è esploso, tale che le bottiglie di invecchiamenti considerati correnti non costino meno di 80 euro, e quelli superiori veleggino tranquillamente nella fascia 180/250, rendendo oggi difficile l’approccio ai distillati di buona qualità e struttura perfino agli appassionati incalliti. Che, previdenti, hanno fatto scorte nel passato.

Anche qui c’è una causa: si tratta della bordeaux-izzazione degli scambi, ovvero dell’ingresso dei capitali d’investimento, che se prima contavano per quote modeste, ora sono preponderanti nel cosiddetto mercato da collezione. Avviene quindi che una quota non indifferente di botti e bottiglie di pregio per marchio o per lungo invecchiamento o ancora perché in edizione “limitata” viene quindi tesaurizzata da privati o fondi di investimento alla ricerca di un profitto futuro, facendo così schizzare in alto i prezzi dell’intero comparto anno dopo anno.

Intanto si fanno soldi a spese dei nuovi arrivati, ma per quanto ancora? Prima o poi qualcuno si brucerà le penne.

[Credits foto: Milano Whisky Festival]

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto fatica a ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito (il cognac), e per qualche anno ne ha scritto in rete sotto pseudonimo.

8 Commenti

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marcow

circa 1 anno fa - Link

Notevole è la parte finale dell'articolo, quella che tratta dell'evoluzione della produzione e del mercato del whisky. Le considerazioni tecniche che accompagnano l'argomentazione sono chiare e aiutano a capire. Le considerazioni sul prezzo sono illuminanti. Complimenti

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AG

circa 1 anno fa - Link

Forse i fondi sono entrati nel mondo dei distillati e dei vini perché il buyback è pratica assolutamente illegale...

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Omikelet

circa 1 anno fa - Link

Bellissimo articolo di cui condivido moltissimi spunti. Deliranti le proposte di alcune distilleria in cui il buon vecchio core range è sommerso da finishing esotici, varianti, edizioni speciali ed amenità varie. Unica cosa che non condivido è il pessimismo circa il futuro della “bolla whisky”. Trattandosi di prodotti consumabili di lusso ci sarà sempre un mercato di appassionati ( o pseudo tali) disposti a pagare cifre folli per i prodotti top tier. Semmai mi aspetto di più una polarizzazione con i prodotti top di gamma destinati verso cifre olimpiche tipo Borgogna/Bordeaux. C’è anche da dire che tuttora ci sono prodotti notevoli (penso a Uigeadail o A’Bunadh) che sono rimasti relativamente alla portata di tutti con un minimo di impegno.

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BT

circa 1 anno fa - Link

verissimo. perfetta descrizione dello stato della situazione. regalo whisky a mio papà da oltre un quindicennio e i prezzi non hanno senso. parlo sia dei torbati di Islay sia degli altri (Highland park and co.). Negli ultimi anni ho cercato spesso distillerie indipendenti scoprendo che in realtà sono pochissime. l’80% di quello che si vede sugli scaffali - i noti grandi marchi scozzesi - appartiene in realtà a Diageo, poi Pernod Ricard, Endrigton, Inver House, Beam Suntory, Williams Grant. Nel mercato del whisky é molto più difficile capire cosa viene da cosa e da dove.

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Omikelet

circa 1 anno fa - Link

A mio parere Highland Park ha preso una deriva davvero demenziale. Mi dispiace anche perché pochi anni fa ero stato da loro e avevo trovato una distilleria davvero bella con personale molto gentile, molto “artigianale” e vecchia maniera, nettamente meno turistica di altre. Non so se nel frattempo c’è stato un cambio di gestione a giustificare l’esplosione delle nuove linee di whisky e il cambio di bottiglia (a mio parere pessimo).

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Andrea

circa 1 anno fa - Link

Condivido tutto. Ci sono ancora bottiglie sotto i 50 in grado di emozionare. E molte sopra che neanche morto. Lagavulin 16 e Talisker 10 ed Ardbeg 10. Anche se qli imbottigliamenti di una decina di anni fa sono migliori, non ci piove. Per il resto effettivamente sotto i 50 è tristezza.

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Tommaso Ciuffoletti

circa 1 anno fa - Link

Superbo!

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Emanuele

circa 1 anno fa - Link

Bravo, zio Thomas. Complimenti e auguri dalle due Bionde e dal sottoscritto grigio.

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