Il San Sisto 1999 (e il verdicchio) è un vino pazzesco

Il San Sisto 1999 (e il verdicchio) è un vino pazzesco

di Massimo Andreucci

L’altra sera ho stappato ‘ste quattro che vedete in foto. A parte il fatto che m’ha detto un gran culo ché erano tutte in splendida forma, tanto da maturarci sopra la convinzione che per evitarmi brutte sorprese dovrei aprire le bottiglie vecchie sempre a primavera e mai a natale, ma questo sicuramente dipende dalla mia cantina, insomma, a parte il culo, sento il bisogno di soffermarmi un attimo sul Fazi Battaglia.

Eh sì, avrei potuto dire quanto era buono il Musco 2013 (un’esagerazione, veramente), o che figata sia il Vigna Vecchia 2018 che sembra un succo alla pera frizzante, o il Terre Vineate 2013, così generoso, integerrimo e minerale, e invece no, il San Sisto.
Detto tra noi è un‘etichetta che non è esattamente il mio feticcio, e direi nemmeno il vostro, fatto sta che, otto anni fa, in piena botta da Verdicchio, ne ho comprate ben otto in stock, a otto euro l’una, da un’enoteca che chiudeva i battenti (otto, otto, otto).

C’era che, ai tempi, mi intrigavano a dismisura le bottiglie invecchiate e non perdevo occasione per testare la longevità del mio bianco di bandiera preferito (ovviamente intendo il Verdicchio, non quello in particolare). Poi male che andasse si trattava di buttar via sessant’euro e sticazzi.

Ne ho aperte un paio subito stupendomi di come avessero retto il tempo. Di contro c’era quello speziato amaro un po’ slegato e fastidioso ed una sensazione di scarsa vitalità al palato, ma direi che data l’età, e le premesse di cui ero ben consapevole, quei piccoli difetti ci stavano tutti. Più avanti avevo provato a stappare la bottiglia il giorno prima, o a farlo avanzare, e devo dire che lo speziato si attenuasse molto a vantaggio di alcuni sentori terziari che definirei piuttosto generici.

Poi c’era stata anche la classica bottiglia fallata, ma pure questo era ampiamente prevedibile. In definitiva tutto bene, esperimento finito, esito sicuramente didattico esperienza positiva e tanti saluti. Roba da scriverci sopra un post? Forse, o forse no. E tra una cosa e l’altra ha vinto il no.

Ebbene, l’anno scorso, a distanza di quattro anni da quella che credevo l’ultima, è saltata fuori questa bottiglia superstite che mi sono deciso ad aprire solamente l’altra sera, nei paraggi del lavandino e con la mente protesa alle altre bevute che avevo in fresco. Da subito ho notato un colore ben più acceso di quanto ricordassi e, a ruota, un naso non solo integro ma assai meno stucchevole.

“Stai a vedere che”, mi sono detto, e ho lasciato buono il bicchiere per qualche minuto in cui mi sono dedicato a quel Terre Vineate pieno ed inossidabile, a quel golosissimo Vigna Vecchia e al Musco addirittura sorprendente, tanto per dire che, quando ho ripreso il discorso, le mie pretese non fossero proprio quelle di uno che si accontenta.

E nel bicchiere ci stava appunto una cornucopia traboccante: pietra focaia, carne alla brace, miele, fieno, frutta gialla, erbe balsamiche, e, a fare capolino dapprima timidamente e poi in maniera sempre più netta, quell’inconfondibile sentore tra la mandorla, l’anice e il mandarino che rimanda vagamente all’Amaretto di Saronno ed è un po’ il distintivo di tutti i verdicchi dei castelli di Jesi.

Agile e potente in bocca, tanto da oscurare la scia dei precedenti assaggi, questo vino del millenovecentonovantanove mi ha fatto compagnia per tre giorni sostenendo con disinvoltura il discorso con ogni portata gli si parasse davanti – ed anche questo è un segno distintivo della tipologia – tra cui spiccano un piatto di pasta al tartufo, un Cashel Blue bello maturo, e, forse il non plus ultra tra gli abbinamenti, la pizza tipica di pasqua col salame.

A questo punto metto qualche riferimento numerico, così, giusto per orientarsi. Se il Terre Vineate 2013 è un novanta tondo, e lo è indiscutibilmente, se il Vigna Vecchia 2018, oltre ad essere oggettivamente buono, abbinato ad un piatto di totani ripieni tira fuori una sapidità che ti fa saltare dalla sedia ed ha quel tocco in più, tra il rustico ed il petillant, che non piace necessariamente a tutti ma a me sì, e mi fa dire novantuno, se il Musco 2013 ha praticamente tutto ció che di buono hanno i primi due ed è un profluvio di polpa matura, sensazioni tattili e vita, tanto da essere un novantaquattro buono, questo San Sisto 1999, bottiglia fortunata, aperto a ventidue anni dalla vendemmia, assaggiato subito e riassaggiato a distanza di uno e due giorni, è ancora di più, è un Verdicchio di quelli che si ricordano molto a lungo tipo il Cuprese 1991 degustato a fine 2013, o il Gioacchino Garofoli riserva 2006 aperto nel 2016, o qualche edizione del Campo delle Oche (che, sì, è il mio feticcio) bevuta e ribevuta tra i quattro e gli otto anni dalla vendemmia, ma giusto perché di più non so aspettare, o altrettante uscite del Villa Bucci Riserva aperte alla rinfusa ma preferibilmente dopo ere dall’imbottigliamento.

Il tutto con buona pace delle mie (e delle vostre) preferenze e convinzioni pregresse che, a ben vedere, lungi dal vacillare per via di una singola bevuta, tanto felice quanto inaspettata, forse traggono ulteriore spunto dall’ennesima riprova che il Verdicchio riesca ad essere un vino pazzesco in tutte le sue declinazioni.

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Massimo Andreucci

Bianchista. Compulsivo. Uno che per indole starebbe sempre a mangiare e bere ma non potendolo fare ci scrive sopra qualche riga nel vano tentativo di prolungare una gioia sempre troppo breve.

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