Il vino nei miei occhi di bambino tra la madeleine di Proust e Ratatouille

di Pietro Stara

Antefatto: Ciò che mi ha fatto avvicinare al vino, e non al gioco del frisbee, al curling o a qualsiasi altra arte corporea, e credo che valga per ognuno di voi, attiene a diverse ragioni tutte egualmente plausibili, diversamente razionali ed evidentemente spiegabili secondo il senso proprio della logica euclidea. Ci sono profumi della nostra memoria che rimbalzano agli occhi e che ci obbligano a tornare su momenti da tempo obnubilati: questi giochi della reminiscenza hanno avuto un ruolo determinante nell’accostarci alla bevanda odorosa. Che lo ammettiamo, oppure no.

Primo atto: la madeleine di Proust
« […] E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di “maddalena” inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto più tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo era bello. E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d’acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.» (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. La strada di Swann, trad. it. di N. Ginzburg, Einaudi, Torino 1973, pp. 48-52)

Secondo atto: Ratatouille (film d’animazione – 2007 diretto da Brad Bird)
Il giorno dell’arrivo del terrificante critico gastronomico Anton Ego, Linguini e Remy preparano una rielaborazione della ratatouille.
Ego, seduto al tavolo del ristorante con una bottiglia di Cheval Blanc del ’47, aspetta che il nuovo cuoco di cui tutta Parigi parla riesca a stupirlo. Remy gli porta la ratatouille sapientemente elaborata, ma portatrice di quel sapore antico, raro e struggente del tempo ormai perduto. Così, dopo aver assaporato il primo boccone, nella memoria del cinico Ego si apre uno squarcio attraverso cui riemergono il se stesso bambino, i colori della piccola casa di campagna, la pentola sul fuoco e il calore dello sguardo di sua madre, che gli serve quello splendido piatto dopo una caduta dalla bicicletta.

Terzo atto: la memoria nel dibattito filosofico (in estrema sintesi)
Il lascito della filosofia greca sul tema della memoria è stato sicuramente imponente: ne portiamo le ammaccature ancora oggi. I greci avevano due modi per parlare di memoria. La mneme, il ricordo come ciò che appare passivamente e l’anamnesi, ovvero la ricerca attiva del ricordo, denominata anche richiamo o reminiscenza. Questa seconda modalità del ricordare pone in essere una questione di fondo che riguarda non più, o non più soltanto, l’oggetto del ricordo, ma il come si ricorda. Sul questo “come” si affrontarono due topoi opposti che si riferirono alle visioni antitetiche di Platone e di Aristotele. Per il primo la memoria conduce immediatamente alla rappresentazione presente, attraverso le  immagini, di una cosa assente (eikon – immagine). Il secondo, invece, parla di una rappresentazione di una cosa precedentemente percepita, acquisita o appresa, per cui l’immagine si pone come referente problematica, ma vissuta, all’interno del ricordo. Inutile dire che parteggio per quest’ultima[1].

Rammemorare (richiamare alla memoria), quindi, più che ricordare.

Quarto atto: gli odori della memoria
La memoria degli odori richiama un principio olistico: si ricorda o tutto o niente. «Questa particolare procedura di ‘stoccaggio’ degli odori se, da una parte, garantendo ai ricordi olfattivi una loro individualità e una loro reciproca (ancorché relativa) indipendenza, riesce senz’altro vantaggiosa nel recupero a lungo termine, dall’altra parte, si rivela poco funzionale nel recupero a breve termine: l’insufficienza degli indizi utili a facilitare la ricostruzione dell’intero ricordo riduce infatti le prestazioni dei soggetti[2].»  E’ una memoria totalizzante che, ributtandoci involontariamente nel passato,  obbliga a confrontarci con un presente che da quel passato né è diretta emanazione: i ricordi degli odori, e le idiosincrasie di cui siamo stati coscienza, una volta consolidati sono difficilmente modificabili. I profumi sono parte di una nostra memoria incorporata che, a lungo termine, si rivela come ricordo, immagine, vissuto, cura.

Ultimo atto: il vino della mia memoria
Corso Vittorio 161, Torino. 1975- 1978. Sono piccolo, non piccolissimo. Cucina/tinello. Autunno? Mio padre che imbottiglia. Damigiane da una parte e bottiglie dall’altra. Tengo ferme le bottiglie, o faccio finta. Oppure lo faccio sul serio, ma ora mi sembra che me lo facciano fare perché ai bambini gli devi far fare qualcosa. Il profumo è quello vinoso del travaso: intenso, carico, penetrante del dolcetto di Dogliani. Delle mie parti. Telefono e chiedo a mio padre di chi fosse quel vino. “Non ricordo”, mi dice lui. “Chiedo a tua madre”. Lei: “Era quello di Giacolino (Gillardi). Poi non lo dava più sfuso, lo imbottigliava tutto”. –  “Ma una volta l’avevamo preso anche da D’Auria”.

La memoria di un vino.

Ora tocca a voi raccontare.



[1]   Cfr. Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003

[2]   Rosalia Cavalieri, Il naso intelligente. Che cosa ci dicono gli odori, Laterza, Roma-Bari 2009.

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

2 Commenti

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Paolo Rossi

circa 10 anni fa - Link

La casa dei nonni. In campagna. Alle volte, quando ero bambino e non andavo ancora a scuola, mia madre mi portava da loro, c'era un sacco di spazio per giocare, le lucertole da inseguire, i fiori di maggio. C'erano i campi di fragole. Arrivavo verso le dieci del mattino, e i nonni a quell'ora facevano "la merenda". Mi sedevo nel fresco della cucina con loro, buono buono, con il mio pandorino in mano, e assistevo ogni volta stupito alla loro merenda. La nonna tirava fuori dal frigo il cartoccio del prosciutto, e un pezzo di pecorino. A volte le cipolle da intingere nell'olio e sale, a volte le fave fresche. Il nonno invece cavava dalla madia il pane, e lo affettava di persona, con un gesto forte, sicuro, un movimento coltello-pollice che sembrava di prestigio. Faceva un suono croccante quel taglio a girare, craack, ed ecco una bella fetta pronta. Poi dallo sportello di sotto tirava su il fiasco. Quello impagliato, con dentro il suo vino rosso trasparente. E sul vino, il nonno e la nonna non lesinavano, beati loro. Li ricordo così, visti dal basso dei miei occhi, in controluce, loro due col pane in mano e il fiasco in mezzo.

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