I pretesti. Due canzoni con annessi ricordi

I pretesti. Due canzoni con annessi ricordi

di Pietro Stara

Al Vinitaly di alcune lune passate.
È un Vinitaly di non molti anni fa. Percorro all’ingiù quel grande vialone disadorno che costeggia, alla sua destra e senza soluzione di continuità, regioni nordiche (Alto Adige e Friuli), centrali (Marche) e insulari (Sardegna), accompagnate da frattali del nord-est (una piccola parte del Veneto), viscere del sud (Molise, Basilicata e Calabria) e il ventre del centro Italia (Umbria). Mentre, alla sinistra, lo sguardo è ostruito da un’enorme doppia Toscana e, a seguire, da un Piemonte che si slunga dall’altra parte sino ad appoggiarsi alla Liguria, sormontata a nord dalla Valle d’Aosta. Di lato l’Abruzzo che guarda nuovamente alla Toscana, ma dall’altra parte rispetto al mio cammino. Mai nazione fu così unita e contenuta nello spazio – tempo di un brindisi etno regionalistico.

A buon passo vedo avanzare, fianco a fianco, due persone di stazza e d’altura di cui ne riconosco una: saluto con cenno che viene prontamente ricambiato. Faccio una sintesi d’inquadramento di pochi vocaboli all’indirizzo di mio padre; ci avviciniamo e dopo due battute di pronta beva quello che ho riconosciuto, che chiameremo Giò Batta Parodi, quando le sue gambe già percorrono la strada che lo condurrà da quel o quel tal altro produttore, volta la faccia e così si congeda: “per te scrivere di vino è un pretesto!”

So per certo che Giò Batta è una persona dabbene e che una certa sussiegosa distanza genovese unita ad un rispetto reciproco dimostrato in più occasioni gli impedirebbero di proferire qualsiasi forma di insulto alla mia persona. Non si tratta certo di quel “pretesto” intonato dalla meravigliosa Francoise Hardy nel 1968, che apre la strada a delle “scuse che del resto non van mai / Oltre ad un modesto rendez-vous /A cui non vieni più.”

E neppure quel “pretesto”, sovrapponibile al concetto di “causa”, contro cui tal Benedetto Croce deve combattere a più riprese al fine di negarne la validità in campo storico, o meglio, nella filosofia della storia, proprio perché essa, la storia appunto, si fermerebbe tutta d’un colpo. Come metafora va più che bene, continua il filosofo, ma non la si usi per dimostrare alcunché. (Postille, in La Critica n. 24 del 1926). Quella frase la prendo bene, come un’occasione che ogni tanto si riaffaccia alla memoria. E il senno del poi mi offre le sue ragioni.

L’altro giorno valicando dalla Francia.
Nei rari momenti in cui i figli non impongono la loro discografia automobilistica, possiamo concederci di svagare su autori di non loro gradimento. Dopo un De Andrè georeferenziato, infilo un Paolo Conte d’annata che attacca, guarda caso, con “Genova per noi”. Noi che veniamo da un altro luogo, in fondo alla campagna e che, un po’ randagi, “ogni volta l’annusiamo/circospetti ci muoviamo…”
“Genova, dicevo, è un’idea come un’altra/ Ah la la la la la la”. Genova è “macaia, scimmia di luce e di follia/foschia, pesci, Africa/sonno, nausea, fantasia.”

Genova è una metafora, un’idea come un’altra, un pretesto. Come il vino. Un gran bel pretesto e ognuno di noi sa per cosa.

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

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