Cherrug, il nero di Troia della terra di mezzo

Cherrug, il nero di Troia della terra di mezzo

di Antonio Tomacelli

Perché una persona sana di mente dovrebbe piantare un vigneto in una zona in cui non è stata mai coltivata la vite? Mi sono rifatto più volte questa domanda mentre, seduto ad un banchetto di Radici Wines, assaggiavo i vini della famiglia di Antonio Cataldo.

La sua cantina, Kandea, l’ha voluta per qualche strano motivo nel territorio di Candela, in provincia di Foggia, luogo noto ai più per il casello e gli immensi campi di grano che si attraversano con l’autostrada Bari-Napoli. Candela è uno di quei paesoni che colano giù dai mammelloni dell’Appennino dauno, lontano una cinquantina di chilometri dalle vigne famose del Vulture o di Troia e incuneata tra le terre vinicole di Irpinia e Sannio.

Insomma, “vini della terra di mezzo”, come recita lo slogan aziendale.

Qui si vive un po’ la stessa situazione del Gargano, il gigantesco massiccio pugliese che fa da sperone allo stivale italico e dove, a parte le pecore e qualche podolica, pare non si beva vino se non di nascosto.

Torniamo ad Antonio e alle sue vigne sul mammellone. Per una buona mezz’ora mi ha tenuto incollato alla sedia assaggiando due annate per ogni vino bianco prodotto: falanghina, fiano e greco. Bei vini, nulla da dire, beva compulsiva, punteggi che sfiorano agevolmente i 90 punti e voglia di svuotargli la cantina ma, dopo i bianchi, è stata la volta dell’epifania: un nero di Troia come non lo avevo mai assaggiato e che mi ha lasciato senza parole.

L’identikit del vitigno, lo sapete, è più simile ad un serial killer dissociato che ad un pensionato sulla panchina dei giardinetti. Il nero di Troia è scontroso, antipatico, ricco di tannini spesso respingenti, ha frutto ma poco colore e una beva complicata. I francesi, nell’800 in queste terre, lo addomesticavano con il Malbec che è ancora presente in qualche doc pugliese. Esiste qualche versione “umana” ma poggiata a Montepulciano o a pratiche di cantina invadenti che ne snaturano il carattere fino a farlo diventare marmellatoso.

Cherrug, dal nome del falco preferito di Federico II, invece no. Cherrug vola alto e scivola nell’aria con eleganza e piuma leggera da rapace esperto, rotea e corteggia il bicchiere con una manciata di lamponi e frutti neri piccoli. Sa di aria fredda e balsamica, di bosco e macchia. Humus, appena.

In bocca è lui, il nero di Troia. Lo riconosci nei suoi tratti somatici: il tannino c’è ma è finissimo, uno dei più belli mai sentiti, come un artiglio finalmente addomesticato. Il colore ricorda il sangue scuro della preda e in bocca è gustoso di ribes, lamponi e cioccolato, come certi dolci assai di moda che uniscono le sensazioni acide e quelle più calde del fondente. Ne voglio ancora nel bicchiere e lo chiedo, non mi capita spesso ma questa volta sono davvero di fronte ad un’epifania. Sto bevendo un nero di Troia dalla forte identità ma non per questo aggressivo.

Svuoto il secondo bicchiere, mentre Cherrug vola via: il falco predatore arcigno e potente, è finalmente domo e Antonio Cataldo ha vinto la sua scommessa.

Cherrug, Kandea – Nero Di Troia Daunia I.G.P. 2013. 94 

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(foto: Antonia M. Papagno)

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Antonio Tomacelli

Designer, gaudente, editore, ma solo una di queste attività gli riesce davvero bene. Fonda nel 2009 con Massimo Bernardi e Stefano Caffarri il blog Dissapore e, un anno dopo, Intravino e Spigoloso. Lascia il gruppo editoriale portandosi dietro Intravino e un manipolo di eroici bevitori. Classico esempio di migrante che, nato a Torino, va a cercar fortuna al sud, in Puglia. E il bello è che la trova.

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