Vinitaly Preview, il racconto di una fiera incompiuta

Vinitaly Preview, il racconto di una fiera incompiuta

di Massimiliano Ferrari

In una fiera del vino il banchetto si trasforma in una sottile ma tenace linea Maginot dove da un lato c’è colui che dispensa informazioni e gocci di vino e dall’altra gli assaltatori con calici invece che carabine e domande su domande come munizioni.

È la fiera, bellezza.

La mia prima volta trincerato dietro un candido parallelepipedo a versare mescere e ripetere presentazioni dei vini e sciorinare prezzi va in scena nella capitale fieristica italiana, quel capoluogo scaligero che tutti conosciamo.

È la prima volta per me, e come tutte le prime volte la mente è invasa da pensieri contrastanti, aspettative spietate e speranze malcelate: rovescerò vino addosso a qualche distinto signore, il mio inglese sarà fatto a pezzi, mi ricorderò giaciture, altitudini, cloni e permanenze sui lieviti? Gli interrogativi sono tanti, troppi, diventano una matassa che più si cerca di sbrogliare e più imbriglia mani e i pensieri.

Quindi Adelante Pedro, con juicio come recita il sempre attuale adagio manzoniano, vediamo come è stata questa prima volta.

Se fossimo sul set di Quattro ristoranti la location si meriterebbe subito voti alti. Le Gallerie Mercatali, dove va in scena questa preview di un Vinitaly ancora di là da venire, è uno spettacolo architettonico. Sede anni Cinquanta del mercato ortofrutticolo di Verona, punto vaccinale nei mesi scorsi, viene oggi usata per questa piccola manifestazione che apre le gran danze del ritorno a rotear bicchieri fra stand, hostess e produttori.

Gli scorci sono oggettivamente da lasciar senza fiato. Un enorme spazio lasciato al grezzo diviso in tre navate, una centrale e due laterali dove prendono posto piccoli cubi bianchi dietro ai quali spaesati vignaioli e virgulti in abito si contendono le occhiate di sparuti buyer scandinavi e qualche local in libera uscita dalla domenica lavorativa. Le Gallerie Mercatali valgono da sole il prezzo del biglietto. Si è accolti all’interno di questa volta parabolica con finestroni che innondano di luce lo spazio, con una serie retro di bilance a bilico che fanno tanto dopoguerra.

Il menù della fiera quasi-post-covid rimane però quello consueto con tutto il corollario che ci si aspetta. Neri bodyguard con colli taurini e dita tatuate che spuntano da abiti striminziti e teste rasate neanche fossimo ad un raduno neonazista. Hanno sguardi torvi, si aggirano silenziosi, bisbigliano qualcosa in sottili microfoni che spuntano dalle camicie. Sottili hostess-lolite si annoiano dietro a scrivanie troppo grandi vestite con mise monacali total black. Magari sorridono anche ogni tanto ma dietro a mascherine celesti tutto è immaginazione.

Prima dell’inizio faccio un giro fra banchi e banchetti. Qualche chiacchiera per rompere il ghiaccio, un toscanaccio mi tira da parte e mi dice ancor prima di iniziare che è stanco, possiede quarantadue ettari ma vendere vino è una faticaccia. “Quando vendevo capi (abiti) era tutto più facile. Ho iniziato a sedici anni, ho messo su una aziendina e poi sono arrivati i cinesi ed è stato un casino”. Scuoto la testa assecondando la sua tirata. Poi insiste a farmi assaggiare il suo merlot, mi serve una bicchierata scura come la pece, a temperatura quasi tropicale, fatico già al primo sorso legnoso, poi mi dileguo con eleganza e sverso tutto in una sputacchiera di cartone.

Il clima dovrebbe essere quello di un giorno di festa ma registro afflizione e poco ottimismo. Tanti produttori sembrano essere lì perché costretti quasi da mamma Fiera, poco inclini a presenziare, c’è una produttrice della Valpolicella che mi dice che è stata quasi pregata di presentarsi. Ad essere sinceri i visitatori sono pochini, la paura del virus maledetto serpeggia ancora, le mascherine sono tirate a mezza bocca, gli stranieri manco la mettono ma le precauzioni non mancano.

Gli scandinavi sembrano in gita premio. Grandi sorrisi, facce rubizze già alle undici del mattino, abbronzati eleganti con donne bellissime al fianco. Assaggiano, si scambiano opinioni in lingue gutturali sconosciute, si danno di gomito come scolaretti.

Qualche timido ristoratore italico fa capolino, enotecari con velleità di scoprire qualche gemma nascosta sotto le volte severe delle Gallerie. L’orecchio mi segnala la presenza di tartari piombati dalle pianure russe, vero incubo delle fiere. Bevono, sghignazzano, urlano come matti. Mi faccio piccolo quando vedo un gruppetto incedere fieramente.

La giornata prosegue fra sputacchiate, grandi promesse, scambi di business card, email memorizzate, foto ricordo, galoppini velocissimi che assicurano ghiaccio e viveri agli astanti. Non mancano sproloqui, domande allucinate, occhi languidi e porcini.

Si avvicina l’ora del pranzo e le velleità di tanti di inchiodare qualche buyer nordico si spengono di fronte al food truck che serve poke e pizza gourmet. Divanetti e poltroncine rigorosamente in bianco accolgono visitatori ed espositori in un clima fresco nonostante fuori l’afa preme per entrare.

Dopo pranzo si ritorna stancamente alla postazione, assonnati e appesantiti dai carboidrati del fast lunch. Un caffè amaro accende i motori per ripartire.

Nelle nebbie della sonnolenza postprandiale si riprende la giostra e lungo il corridoio si materializza un Lele Mora vestito come un rapper di Atlanta che si aggira come un spettro sul pavimento scuro. Il giro vip non sortisce l’effetto voluto, manco un autografo.

I danesi continuano il loro grand tour alcolico. Un’ometto che sembra uscito da una saga vichinga mi chiede il bis e il tris del rosato. Poi torna con un amico e si fa un altro bicchiere. Magari ne prenderà un bancale.

Una fiera del vino diventa un impareggiabile punto di osservazione dell’umanità. Pose e tic, maschere e recite, emozioni e stati di animo, dallo sgabello su cui mi trovo si vede di tutto. Export manager russe dal profilo marziale che eseguono assaggi come fossero tra le fila del KGB, giovani coppie spensierate che si tengono la mano e bevono dallo stesso calice, donnone mitteleuropee con borse a tracolla che tracimano di biglietti da visita e brochure aziendali, intrallazzatori e vecchie volpi che fiutano prede indifese.

Il pomeriggio volge verso il termine, fra i corridoi inizia a serpeggiare frustrazione, qua e là si trascinano stanchi i pochi visitatori rimasti, pure i danesi sembrano volatilizzati. C’è chi comincia a pestare i piedi, chi inizia a impacchettare bottiglie e flyer promozionali, inizia a girare la voce che si possa uscire prima come se all’ultima ora ci fosse l’interrogazione di latino. Alle 17.00 la conferma, può iniziare la mobilitazione. Alle 17.40 è tutto un affrettarsi con carrelli colmi di scatole lasciandosi alle spalle banchi deserti dove campeggiano in tristi glacette bottiglie mezze piene. Via libera, tutti a fiondarsi nel parcheggio. Stasera gioca l’Italia.

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Massimiliano Ferrari

Diviso fra pianura padana e alpi trentine, il vino per troppo tempo è quello che macchia le tovaglie alla domenica. Studi in editoria e comunicazione a Parma e poi Urbino. Bevo per anni senza arte né parte, poi la bottiglia giusta e la folgorazione. Da lì corsi AIS, ALMA e ora WSET. Imbrattacarte per quotidiani di provincia e piccoli editori prima, poi rappresentante e libero professionista. Domani chissà. Ah, ho fatto anche il sommelier in un ristorante stellato giusto il tempo per capire che preferivo berli i vini piuttosto che servirli.

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