Velier Live 2018: il paradiso del rum e un whisky da urlo

Velier Live 2018: il paradiso del rum e un whisky da urlo

di Thomas Pennazzi

Il Velier Live, dopo il giro di boa del 70° aziendale l’anno scorso, cambia modulo e si rinnova. Nata come riunione aziendale, e diventata nel tempo un momento di festa per i propri clienti ed amici, la manifestazione quest’anno si è moltiplicata in otto sedi locali in giro per l’Italia: terminata quella di aprile a Napoli, a maggio si è trasferita a Crema; le prossime due si terranno in autunno a Treviso e Bologna.

Una rassegna di tale vastità non si esaurisce in un giorno, ed è bene parteciparvi avendo in mente di esplorare una sola area tematica o due: consci che ben presto i vostri propositi andranno in vacca, come diciamo noi lombardi. È successo anche a me: dopo un breve giro di orientamento e un paio di piattini per fare fondo prima di aggredire l’alcool – a proposito, un plauso al catering locale, che proponeva belle cose del territorio, come gli ostici ma golosi tortelli cremaschi e la lodigiana raspadüra – sono stato catturato dal padron di casa Stefano Cremaschi (che è una delle voci autorevoli del rum italiano, oltre che un noto imbottigliatore indipendente dello stesso e di whisky, ed enotecaro), il quale mi ha trascinato nel privé, ben difeso da occhiuti buttafuori: è qui la festa, mi diceva!

In effetti mi son trovato circondato dal gotha dell’alcool milanese e non solo, mentre al tavolo c’era Luca Gargano che, manco a dirlo, parlava di rum con qualcuno. E su quel tavolo c’era roba da far felice ogni ronero che si rispetti: Hampden, Caroni, Long Pond, Neisson, Foursquare, e chi più ne ha più ne metta; potevate soddisfare ogni più pazzo capriccio. Non ci ho messo troppo ad ambientarmi, è bastato qualche assaggio.

Uno tra i tanti, offertomi da Pietro Caputo, un altro dei grandi conoscitori italiani dell’alcool caraibico, è stato un Long Pond, un rum Giamaica 2007 di undici anni a 60°: un po’ scioccante l’impatto con la caotica potenza di questo distillato, che in pochi attimi si trasforma in un fuoco d’artificio di frutta tropicale, quanto di più lontano dal classico giamaicano tutto pepe e note di solvente da colla. Spalle larghe per il Black Tot 1975, un pazzo Demerara di oltre 40 anni, che sconta un legno fattosi massiccio. Nessuna sorpresa dai Neisson, che anche in cask strength restano piacevolissimi; delizia nella semplicità per l’ultimo dei clairin, che fa un po’ di affinamento in botte: quanti me ne hanno parlato male, di questi figli di Haiti, e meriterebbero invece di capirne di più; poi la follia di un paio di Caroni, scuri, oleosi e concentrati, che ti folgorano con un naso ammaliante, e in bocca li ritrovi scomposti e squinternati, ma nemmeno ritrovi i 70° del loro alcool, e passi un’ora a chiederti come faranno mai a non ustionarti l’esofago; infine amore a primo naso per un single cask di Antigua Distillery, bello tosto pure lui, a quasi 69°, e un po’ più funky di un bas-armagnac coi fiocchi (e se non sapesse di rum potrebbe ricordarlo, e mica poco) che mi sono poi portato in giro per la rassegna, per vedere cosa era capace di fare nel tempo. Gli altri, mi perdonerete, ma non li ricordo più: sarà stato solo l’alcool?

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Avrete capito che Velier è prima di tutto rum, e rum di razza: chi li seleziona è un personaggio eccentrico, controverso, con le sue idee che potranno magari non convincervi appieno, ma con un palato indiscutibile, e con una conoscenza della materia come pochi al mondo. Mi ripeterò, ma chez Gargano è assai difficile bere male, fatta la tara alla variabilità dei gusti individuali.

Ma al Velier Live può capitare anche che l’appassionato di spirito di vino prenda una colossale sbandata per… un whisky: lo confesso! E se quello è whisky, tutta la vita. Intendetemi, siamo davanti a bottiglie monumentali, frutto di botti eccezionali, più inconsuete di un’eclisse di sole su Dufftown. Per cui, scampato pericolo. Ma mai mi era capitato un malto così meravigliosamente equilibrato, delicato ed insieme profondo, di grande armonia, una danza sulle punte dentro il calice. Che bellezza! Alcune di queste bottiglie verranno battute all’asta da Bolaffi giovedì 17 maggio a Torino. Si tratta di un Glenfiddich 1973 Single Cask #7584, imbottigliato in 149 esemplari nel 2017 per il 70° anniversario di Velier. Dopo averne saputo il folle prezzo, oltre che la folle bontà, nessuno più mi distoglierà dal cognac.

Uscito dal parco giochi in cui ogni appassionato di rum vorrebbe essere, sono andato a tormentare Marco Callegari, il Japan Specialist dell’azienda, in compagnia di Giuseppe Bertoni (Mulligan’s Pub, tempio storico del whisky milanese), Alessandro Coggi (massimo esperto di whisky jap italiano) e Riccardo Lagonigro (degustatore, collezionista e cultore di malti), freschi reduci dal Whisky Festival di Limburg con Giorgio d’Ambrosio: abbastanza per intimidire qualunque appassionato o mestierante. Non siamo riusciti a fargli aprire un’allettante bottiglia che era in bella mostra, per paura del licenziamento in tronco, ma ci ha offerto qualche altro significativo assaggio. Dai quali è emerso ancora una volta che il whisky giapponese tende alla perfezione, similmente alla cortesia dei suoi abitanti, formale seppure calda in apparenza. Il whisky giapponese offre quindi bevute assai dignitose, alle quali non si può imputare nulla, se non l’assenza di emozioni impreviste.

Un salto al box di Capovilla, per salutare il maestro: qui mi casca l’occhio su una bottiglia di brandy 10 anni, e l’assaggio al volo. Ripensandoci, mi era piaciuto di più un altro dei suoi brandy, che abbiamo pescato direttamente dalla botte in distilleria pochi giorni prima, vai a ricordare cosa fosse. Ma siccome non ha ancora visto la bottiglia, ha poca importanza. Il “Capo” riesce sempre a stupire i suoi ospiti ogni volta che si passa da Bassano: come ogni buon prestigiatore, infinite sono le sorprese nascoste sotto il suo mantello, tante quanti i frutti che ha distillato.

Ancora, ancora, ancora, ancora: vino? Massì, che ci stanno a fare i Triple A sennò? Con un boccone di pane ed il salva cremasco, formaggio di casa, un calice di rustica barbera ci va a nozze. Borgogna? Stattene pure dove sei.

Rispettiamo la regola: dulcis in fundo. Al termine di questa lunga giornata alcolica mi ritrovo a curiosare nel padiglione della liquoreria, vivace quanto non mai. Rosoli, amari, assenzio, anice, curaçao, soprattutto italiani, ma non solo, stanno avendo una nuova vita grazie alla mixology. E lo sapete già, Italians do it bitter, oltre che better. C’è veramente da divertirsi anche qui.

Non so come, vengo coinvolto in un paio di assaggi di vini liquorosi: i quali sono sempre qualcosa di negletto dalla massa e dagli enofighetti, completamente a torto, affari loro. Il primo non mi lascerà ricordi particolari, ma il secondo! Alla cieca avreste detto: mirto! E che mirto. Grasso, opulento, denso e aromatico come solo un mirto sardo verace e casalingo sa fare, appena meno alcolico: era invece un porto vintage Fonseca Quinta do Panascal 1999. Brivido.

Ultimo assaggio della festa, un idromele. Cosa dite? Mai sentiti? Ecco, però sarebbero i fermentati più antichi dell’umanità, giusto per darvene una vaga idea. Miele + lieviti + acqua = paleo-alcolico. Diffusi ancora oggi in giro per l’Europa settentrionale che, poveretta, non può crescere vino, resistono in Bretagna, Gran Bretagna, Lituania, Polonia, e forse anche altrove. Da tredici fino a sedici gradi, una vivace acidità circondata da dolcezza per l’appunto mielosa, e una bevibilità che mette a rischio il fegato: ne tracannereste un’anfora in men che non si dica, tanto sono profumati e piacevoli, figuriamoci quando sono serviti freschi. Il Dwójniak Koronny, della Pasieka (apiario) Jaros è un idromele 1:1 di colore rossastro a 15°, preparato con miele scuro autunnale ed un infuso d’erbe polacche, pieno e gustoso. Se cercate la boccia perfetta per far capitolare un’astemia impenitente, questo idromele piegherà ogni sua resistenza all’alcool senza che se ne accorga punto.

 

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto fatica a ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito (il cognac), e per qualche anno ne ha scritto in rete sotto pseudonimo.

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