Tre bottiglie di Tokaji mentre fai le pulizie in garage

Tre bottiglie di Tokaji mentre fai le pulizie in garage

di Redazione

Alessandro Marini, sommelier di Pesaro, ci ha mandato un pezzo dedicato ad alcune bottiglie di Tokaji stappate nel tempo e più in generale a tutto quello che è possibile trovare in una bottiglia di vino. Grazie, e buon agosto! (jacopo)

Non capita spesso di ritrovare tre bottiglie di Tokaji mentre fai le pulizie in garage. All’epoca sapevo poco e niente di vino. L’idea di intraprendere il percorso Ais era ancora lontana dal manifestarsi. La stessa etichetta presente in tutte e tre le bottiglie esibiva parole che sembravano uscite da un libro fantasy. “Aszù”. “5 Puttonyos”, Château Pajzos. L’unica cosa a me chiara era l’annata: 1993. Quel vino doveva essere buono, pensai.

Correva l’anno 2016 e le bottiglie erano un regalo di mio padre. Un souvenir dall’Ungheria, dove lui si era recato 15 anni prima per ritrovare un caro amico d’infanzia che si era trasferito a Budapest. Come quelle bottiglie fossero finite in garage è ancora un mistero. Forse durante l’ultimo trasloco. Le liberai dagli oggetti inutili e dalle scartoffie che avevano intorno. Nugoli di polvere mi vennero incontro quasi come a volermi abbracciare. Spolverai le bottiglie e le riposi in uno scaffale in taverna. Orizzontali, al buio e al fresco. Da qualche parte avevo letto che il vino andava conservato così.

Trascorsero altri due anni. L’incontro con Ais, le lezioni, le nuove amicizie. Conoscenze si accumulavano e aprivano la strada alla consapevolezza dell’ignoranza incolmabile. Una sera mi ricordai dei 3 Tokaji. “Chissà se sono ancora buoni, se il tempo trascorso in garage è stato clemente”, mi dissi. Decisi di condividere la prima bottiglia con i miei compagni di corso. Se il vino si fosse deteriorato, quella sarebbe stata un’ottima occasione didattica per approfondire i sentori di un vino da buttare nel lavandino. Fu un trionfo. Giubili e apprezzamenti. Il vino era intatto, perfetto. Suadente, gentile, elegante. E forte dei suoi venticinque anni suonati.

La seconda occasione fu altrettanto gioiosa. Il Tokaji chiuse egregiamente una cena estiva fra amici, che aveva visto sfilare un Trento Doc, un Rosso Conero e un Amarone della Valpolicella. Ma la terza bottiglia si rese protagonista di un’esperienza indelebile. Era dicembre. La giornata uggiosa e il freddo erano ottimi incentivi a godere del tepore domestico in romantica compagnia. Cenai con lei. Anche lei aspirante sommelier. Giocai la carta del Tokaji per rendere l’invito a cena ancora più allettante. “Aszù”. “5 Puttonyos”. 1993. Lei accettò entusiasta. Il Tokaji accompagnò dei formaggi erborinati.

Offrì sensazioni molto più forti e coinvolgenti rispetto alle due volte precedenti, dalle quali erano trascorsi soltanto mesi. C’erano le stesse albicocche sciroppate, la stessa frutta candita, la stessa uvetta. E ancora: i datteri, la persistenza. Tutto, sulla carta, rendeva quella bottiglia identica alle altre 2. Tuttavia, era diversa. I doni della muffa nobile apparivano amplificati, toccavano l’emotività. La terza bottiglia suscitò emozioni.

Dal punto di vista sensoriale e – diciamo – narrativo, quella bottiglia proponeva il medesimo racconto delle altre 2. L’equilibrio, la persistenza, l’eleganza asburgica, l’esperienza eccezionale di un “Aszù” targato Château Pajzos. Ma il vino è soltanto questo? È sensorialità, storia del territorio e del produttore o parla anche di altro? Nel celebre romanzo di Bram Stoker, il Conte Dracula offre al suo ospite malcapitato, il giovane e promettente avvocato inglese Jonathan Harker, un calice di Tokaji. L’abbinamento è discutibile, pollo arrosto. L’aspetto interessante sta nell’uso che Stoker fa del vino. L’autore ricorre al Tokaji come espediente narrativo per presentare il vampiro al lettore. La degustazione del vino introduce Harker – e con lui il lettore – nel buio, in una dimensione dell’animo umano insondabile per la ragione.

Il viso grifagno del conte è soltanto abbozzato nell’ombra. Il vino sollecita sensazioni che pongono Harker a contatto con la dimensione oscura della natura umana, rappresentata dal vampiro. Amplifica gli stati emotivi del giovane, lo colloca pienamente nella situazione in cui si trova lasciando sfumare i ricordi della Londra vittoriana. Arrivano odori, suoni e nel buio emerge la mostruosità di Dracula. Bram Stoker attribuisce al vino la capacità di svelare nel buio, di compiere un’operazione di verità che si discosta dalla tradizione, dove la verità è invece legata alla luce, alla chiarezza. Il Tokaji parla a Harker di Harker stesso. Espone il suo stato emotivo, il suo lato oscuro e lo mette nelle condizioni di scoprire il vampiro.

La terza bottiglia di Tokaji che stappai non si limitava a sollecitare sensazioni e a raccontare il terroir. Mi poneva all’ascolto delle emozioni che la situazione stava suscitando. Raccontava i boccoli corvini di lei, quello che io e lei eravamo e stavamo diventando. Ecco, allora, il punto: il vino parla a noi di noi, di quello che siamo in quel determinato momento.

Quid non ebrietas designat? Operta recludit”, Che cosa non rivela l’ebbrezza? Essa mostra le cose nascoste, Orazio,  Epistolae, I, 5, 16.

In vino veritas. Nel vino è la verità. E non basta dire che nell’ebrezza parliamo più di quanto non faremmo nella sobrietà. Non è soltanto una questione di freni inibitori. Il vino ci svela a noi stessi. E in fondo, a pensarci bene, il vino nasce nella verità. Uve prive di profumi – escluse quelle aromatiche, ovviamente – riescono a dare vita a un nettare ricchissimo di odori. Durante la fermentazione alcolica, quando lo zucchero diventa alcol, i glicosilati che erano legati allo zucchero si liberano. Il vino svela i profumi che l’uva tiene nascosti. Un nettare, quindi, che nasce nella verità e resta ancorato a essa. Svela sensazioni, storie, terroir. Ma anche emozioni, bisbiglia cose di noi, ci svela.

In vino veritas e auguri di vita mortale al vampiro. Perché vivere in eterno, tutto sommato, non deve essere così entusiasmante.

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