Storia delle bollicine dall’antichità ad oggi. Di Champagne e sorprese. (Post enorme)

Storia delle bollicine dall’antichità ad oggi. Di Champagne e sorprese. (Post enorme)

di Pietro Stara

Questo post è la rielaborazione di un altro post che ho scritto altrove, e serve a definire quel che dirò alla quarta serata del Corso sul vino di Intravino organizzato da me e Fiorenzo a Genova, dedicata appunto agli spumanti. Ci portiamo avanti col lavoro, come direbbe lui.

In un dibattito mai sopito, corposi apparati di comunicazione sostenuti da altrettanto poderosi studiosi hanno riportato alla ribalta una questione, che tale non sarebbe se non fosse entrata nella diatriba contemporanea, sulla primogenitura delle pratiche di spumantizzazione: sono arrivati prima gli italiani, i francesi o gli inglesi? Termine del confronto è il libro di Francesco Scacchi, medico fabrianese e monaco benedettino, il ‘De salubri potu dissertatio’, ovvero ‘Del bere sano’. È bene qui ricordare, anche se brevemente, che gran parte degli enologi che accompagnano la storia italiana dalla caduta dell’impero Romano in avanti sono per lo più medici e questo perché il vino, così come gli alimenti in genere, sono argomenti propri della ‘dietetica’, la più importante materia medica della tradizione ippocratico-galenica.

Francesco Scacchi ed alcuni dei i suoi predecessori
Come ho accennato, sembra che alcuni studiosi abbiano dovuto, oppure sarebbe meglio dire sono stati spinti a farlo, mettere un punto un termine di paragone per indicare la nascita della spumantizzazione in Italia: questa pietra di paragone, come vedremo successivamente, ha molto del commerciale e pressoché nulla di storico, se non il fatto di voler costruire un primato dell’origine finalizzato a supportare politicamente la spumantistica italiana. Ma proviamo a toccare il punto dell’equivoco: possiamo sostenere a ragion veduta che i vini frizzanti, ‘piccanti’ come li chiamarono un tempo, e ancor prima ‘impeciati’ siano in qualche modo paragonabili a quelli derivati da un metodo di spumantizzazione che va sotto il nome di méthode champenoise? Credo proprio di no. Altrimenti dovremmo asserire che Galeno (129 – 216 d. C.), medico di Pergamo, fosse già, nel suo ‘De simplicium medicamentorum facultatibus libri undecim’, pienamente a conoscenza che «tutti i succhi delle piante hanno una doppia escrezione, una più densa e per così dire più terrosa, l’altra più leggera e per così dire più acquosa, e di queste escrezioni, quando col passare del tempo giungono alla bollitura ed alla separazione, l’una resta giù, l’altra invece si consuma, quella infatti che è terrosa e densa (come nel vino la feccia) resta giù, quella invece che è leggera e acquosa si dissipa con l’ebollizione e si dissolve nell’aria [1]».

Ma se guardassimo indietro non faremmo fatica a scoprire che «una chiara documentazione sull’esistenza, nel I sec. a.C., dei vini spumeggianti ci è fornita dal grande Virgilio il quale, nella sua Eneide, ricorda una ‘spumantem pàter’ a cui bevve senza stancarsi Bezia, un condottiero del regno di Didone: ‘Ille impiger hausit spumantem pàtera…’ ‘Egli tracannò avidamente lo spumante dalla coppa…’. Gli antichi Romani conoscevano fra i vini spumanti l’aigleucos, una specie di mosto che, per conservarlo dolce, veniva mantenuto ad una bassa temperatura immergendo le anfore nell’acqua fredda dei pozzi più profondi. A Pompei, come ricorda Luigi Manzi, si rinvenne una cella vinaria con anfore circoscritte in un cunicolo di terra cotta nel quale si faceva circolare continuamente dell’acqua fredda. E’ questa, forse,una delle prime cantine attrezzate per la produzione dei vini frizzanti. Le anfore, per quanto riferisce lo stesso Manzi, chiuse ermeticamente con sughero, cenere e pece, venivano poi trasportate, prima della consumazione, in luoghi caldi ed esposte ai fumi delle cucine affinché il vino completasse la maturazione. L’aigleucos, secondo Plinio, era conosciuto anche nella provincia Narbonese i cui abitanti erano molto avanzati nella preparazione di questi vini speciali. Il vino frizzante o spumante Romano poteva anche derivare dal ‘protropum’ cioè dal mosto fiore che sgrondava spontaneamente dal palmento prima di operare la pigiatura. Columella ricordò la preparazione del ‘vino dolce’ ed annotò che il mosto ottenuto si racchiudeva poi in anfore nuove appena impeciate le quali si immergevano in una vasca di acqua fresca. Fra i vini spumanti o frizzanti dei Romani si può includere anche, in un certo qual modo, il celebre Falerno che era generalmente tranquillo il quale, però, nei tempi corrotti del primo secolo, poteva trovarsi spumeggiante e mescolato a ignobili unguenti. Giovenale, il grande poeta satirico di questo tempo, lo ricorda nella Satira sui costumi delle donne che ne abusavano ‘…Quum perfusa mero spumant unguenta Falerno’ (Satira VI v.303 [2])».

Il Conforto, Baldassarre Pisanelli e, finalmente, lo Scacchi
«Una delle prime pubblicazioni sulla tecnica di preparazione dei vini frizzanti e sulla loro azione sul corpo umano si può considerare quella data alle stampe nel 1570, dal medico Gerolamo Conforto, a Brescia, con il titolo di ‘Libellus de vini mordaci’. Questo medico che si interessò pure allo studio sulla peste, sul morbo gallico (la sifilide), sui ‘presentimenti’ e sulla ‘delimitazione delle stagioni’, mise in rilievo la notevole diffusione ed il largo consumo che i vini spumeggianti avevano i quell’epoca. L’autore li descrive dal ‘sapore piccante o mordace che non seccavano il palato, come i vini acerbi ed austeri, e che non rendevano la lingua molle come i vini dolci. Alcuni di loro provocavano il singhiozzo e facevano giungere la loro azione al cervello ed agli occhi i quali (a causa del frizzante) spesso lacrimavano…’. L’origine della spuma e del piccante venne giustamente individuata dal Conforto nell’ebollizione del mosto,cioè nella fermentazione. Infatti, secondo l’Autore, coloro che attendono alla preparazione di questi vini sono preoccupati di frenare la loro ebollizione affinché la ‘scoria gassosa, leggera e pungente’ (l’anidride carbonica), non si disperda. Quale chiaro esempio della sua asserzione il medico bresciano segnalò l’usanza dei francesi i quali producevano, anche a quel tempo ‘vini mordacissimi’, cioè dei veri e propri spumanti, ‘chiudendo i mosti nelle botti’. Secondo questo medico-enologo i vini diventavano più spumeggianti durante i mesi invernali, mentre nei mesi estivi si ‘smorzavano’ e deperivano perdendo tutto il loro sapore piccante. Purtuttavia aggiungendo degli acini d’uva ai vini che avevano perso il frizzante, questi potevano riacquistarlo perché in essi si scioglievano le ‘secrezioni gassose, piccanti, emesse dagli stessi acini…’. Tali secrezioni però, secondo il medico bresciano, non portavano alcun giovamento alla nutrizione del sangue e pertanto questi vini, anche se celebri e ricercati, bisognava bandirli dall’alimentazione. ‘La buona salute del genere umani- concludeva il Conforto – deve necessariamente anteporsi alla voluttà per questo vino che stuzzica l’organismo’.

Di parere del tutto contrario al Conforto è, in quest’epoca, un altro medico, il bolognese Baldassare Pisanelli il quale, in una sua curiosa opera – ‘Trattato de’ cibi e del bere’ (1589) – del consumo dei vini spumeggianti o raspati, così si esprime: ‘I vini raspati, quando sono di vin ottimo, sono molto buoni, perché quella mordicazione gagliarda congionta col sapore dolce, o altro sapore di vino buono, provoca l’urina, fa digerire il cibo, non lo lascia fumare al capo e risveglian l’appetito’. Il Pisanelli riporta, anche lui, in una annotazione, i vari modi per preparare il vino raspato e fra l’altro segnala che ‘…noi in Piemonte pigliamo l’uve ben mature e n’empimo una botte a quale aggiungemo tanto vin vecchio, e mosto, che sia piena la botte e quando ne caviamo una stagnata, gli ne mettiamo un’altra e così si fa un vino che ricrea il stomaco e togli la sete, spetialmente ai colerici, e a sanguigni… Oltre al detto vin raspante vi è il vin puro fatto da sé senz’altra misura qual chiamiamo piccante e credo che questo foss’anchora (noto) presso gli antichi…’. Andrea Bacci, il famoso medico Elpidiano di Papa Sisto V, nella sua grandiosa opera ‘De Naturali Vinorum Historia’ di fine cinquecento, ci offre una segnalazione senza dubbio interessante sui vini spumosi che definisce ‘dilettosamente mordenti, di soave odore e spumanti per auree bollicine qualore si mescano e versino nei bicchieri’. Il Bacci ricorda anche il così detto ‘vino ritornato’ cioè il vino che aveva subito alcuni rimontaggi sulle vinacce fresche e che poi diventava frizzante; tal vino, versato nel bicchiere, annota il Bacci ‘frizza, gorgoglia, com’è proprio del vino sincero’. Il dotto archiatra pontificio tra i vini piccanti del Napoletano cita, come già il Lancerio, il ‘Coda di Cavalo’ che incontrava particolari simpatie nelle mense principesche ‘per essere di una dolcezza mista ad una soavità mordente e suggente (da succhiare)…’[3]».

Lo Scacchi, da buon medico a corte papale, dopo aver brevemente descritto le modalità di realizzazione dei vini piccanti, in cui si rammentava che il raspato si otteneva facendo fermentare uva passita (bianca o nera indifferentemente) in vino vecchio con l’aggiunta di una piccola quantità d’acqua (per i ricchi), o in sola acqua nella versione più economica; dopo avere raccontato del grande successo che riscuoteva a Roma la cosiddetta ‘acquetta’, che per farla occorrevano due terzi di vino dolce (poteva essere il Lacrima, il Corsico o il Greco) e un terzo di acqua calda mescolati nel tino quando ancora il vino era nuovo; dopo aver sostenuto che gli Etruschi producevano una sorta di spumante con uve lambrusche, di un intenso color nero, frammiste ad altre gialle per renderlo rosso acceso; dopo aver detto che per aromatizzare i mosti e renderli così aspri e frizzanti, secondo un uso già testimoniato da Plinio, si utilizzava la resina o la pece (da cui il nome di ‘impeciato’ con il quale gli antichi denominavano questo genere di vino), e quando proprio non si poteva avere il succo d’uva si ricorreva ai fermentati di frutta, cereali ed erbe; ebbene dopo aver descritto tali tecniche di realizzazione del vino piccante, al contrario del Pisanelli, lo Scacchi afferma perentoriamente che tali vini, che ‘spirano’, possono arrecare danni alla salute [4].

Abate dom Perignon

Contemporaneamente in Francia [5] e un po’ più in là in Inghilterra
I vini provenienti dalla Champagne sono conosciuti ben prima del 1600: erano vini rossi, chiari e leggeri molto simili a quelli provenienti dalla Borgogna [6]. Assai rinomato è il vino di Ay (assieme a quelli di Argenteuil, di Meudon e di Sèvres), citato espressamente nel 1577 da Charles Estienne e da suo genero Jean Libéault, ne “L’Agriculture et maison rustique [7]”, opera stampata a Lione. Anche Julien de Paulmier, medico della Normandia ne parla, nel ‘Traité du vin e du cidre edito nel 1589 a Caen presso l’editore Le Challender, come di un vino molto chiaro, delizioso, subtil, piacevole al gusto e facilmente digeribile.

Quello che gli scrittori dell’epoca riportavano, ad esempio Charles Estienne e Jean Libéault, sul vino proveniente dalla Champagne è che poteva presentarsi di diversi colori, come l’oil de pedrix (occhio di pernice), il cersie (ciliegia), il colour de miel (biondo miele) o addirittura gris et blanc (grigio e bianco), oppure facevano risaltare nel colore un caratteristica di cura e di pulizia, di gran lunga superiori alle altre zone di Francia, come raccontava nel lontano 1718 l’abate Jean Godinot nel suo ‘Manière de cultiver la vigne et de faire le vin en Champagneet ce qu’on peut imiter dans les autres provinces, pour perfectionner les vins’ (stampato a Reims da Barthelemy Multeau).

E fu proprio l’abate Godinot a fissare per iscritto le regole imposte alcuni decenni prima da Dom Pérignon: “Primo, usare solo pinot noir. I vigneti della regione contenevano anche pinot meunier pinot gris (o frometeau), pinot blanc (o morillon), chasselas e forse chardonnay. Dom Pérignon era contrario all’uva bianca, in parte perché incoraggia una tendenza latente del vino a rifermentare. Secondo, potare a fondo le viti in modo che non superino mai il metro di altezza e producano poca uva. Terzo, vendemmiare con ogni precauzione in modo che gli acini restino intatti, attaccati ai raspi, e il più freddi possibile. Lavorare al mattino presto. Scegliere giorni di temporale, quando fa caldo. Scartare tutti gli acini rotti, o anche solo ammaccati. Gli acini piccoli sono migliori di quelli grossi. Stendere delle stuoie di vimini sull’aia e controllare il raccolto, eliminando gli acini marci, le foglie e tutto ciò che è indesiderabile. Perfino, stendere un telo bagnato sull’uva per proteggerla dal sole. L’uva deve rimanere fresca a tutti i costi. Se possibile lavorare vicino al torchio, in modo da potervi portare l’uva a mano, ma se non si può evitare di usare animali, scegliere i muli, perché sono meno eccitabili dei cavalli. In mancanza di muli usare gli asini. Torchio Quarto, non pigiare l’uva con i piedi per nessuna ragione e non permettere nessuna macerazione delle vinacce nel mosto. È indispensabile un torchio efficiente e veloce (perciò i contadini non avrebbero mai potuto fare questo tipo di vino). Usare il torchio ripetutamente e per tempi brevi, tenendo separati i mosti ricavati dalle diverse spremiture. Il primo, cioè il vin de goutte, viene spremuto dal solo peso della trave di legno. Il suo vino è troppo delicato per essere bevuto da solo: gli manca il corpo. La seconda e terza spremitura, chiamate primo e secondo taille (taglio) perché la massa di uva deve essere tagliata a pezzi e rimessa nel torchio, danno mosti di buona qualità. Il quarto, o vin de taille, è raramente accettabile, e tutti i ‘tagli’ successivi sono vins de pressoir, ma ormai sono decisamente colorati e quindi privi di interesse per il cantiniere perfezionista. I lavoratori del torchio erano sfiancati da questo ritmo di lavoro a mitraglia, giorno dopo giorno per tre settimane. Anche questo faceva parte del prezzo da pagare per avere un vino di straordinaria qualità”.

Quasi al dunque. Quasi
Siamo al dunque o quasi, ma siamo ancora molto lontani dalla nascita dello Champagne così come lo conosciamo oggi. Dom Pérignon da una parte e gli inglesi, più un italiano dall’altra. Al primo venne chiesta una riorganizzazione economico produttiva dell’abbazia di Hautvillers, di fare vini migliori in qualità e tenuta, ma – badate bene – non frizzanti: questo significa che a Dom Pérignon venne inizialmente chiesto di produrre vini fermi e poi, in un secondo tempo, per andare incontro ai gusti britannici, di rimetterci le bollicine, aumentandone la qualità e la finezza. I secondi, gli Inglesi, continuavano ad essere i migliori acquirenti dei vini di Francia, come in realtà capitava da diversi secoli, e determinavano le mode ed i gusti prevalenti nelle alte corti d’Europa. Se i primi iniziarono a fare vini frizzanti casualmente, secondo tradizione già nota ai romani, grazie a rifermentazioni spontanee in bottiglia migliorate con le nuove tecnologie (freddo-caldo stagionali, zuccheri residui, invenzione delle bottiglie di vetro), i secondi contribuirono per lungo e per largo a diffondere la fama dei vini mossi francesi, e a deciderne la qualità, il contenuto zuccherino e via dicendo. Ma non è tutto qui! Il signor Merret, fisico e chimico inglese, presentò alla Royal Society, di cui era membro, un piccolo pamphlet in cui si dimostrava come soltanto buone bottiglie, di vetro scuro con un tappo di sughero legato, potevano resistere alla compressione di un vino a cui venisse aggiunto zucchero e melassa per farlo fermentare una seconda volta: questa seconda fermentazione era in grado così di produrre stabilmente delle bolle. La presentazione del libello scientifico andava in realtà non tanto a dimostrare una nuova tecnica di spumantizzazione quanto a rendere disponibile alla scienza Inglese e soprattutto ai suoi vetrai un testo italiano di grande importanza tecnica: ‘L’arte vetraria‘ di Antonio Neri [8] pubblicato a Firenze nel 1612, libro tradotto dallo stesso Merret e che godrà di numerosissime ristampe italiane ed estere.

Cosa stiamo scoprendo? Che forse molte delle rivelazioni scientifiche procedono per passi incerti e contorti, e che ciò che avviene di frequente è che più contributi non necessariamente indirizzati verso la stessa meta producano ‘involontariamente’ risultati applicabili ad altre scoperte e invenzioni: è quello di cui parlò nel “Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo” un anonimo autore armeno di stanza a Venezia [9]’: la serendipità, ovvero la scoperta fortuita, ma ragionata, di qualcosa di importante che non si stava cercando. Ed è forse quello che è capitato a Merret, il quale per dimostrare la tenuta fisica del vetro sotto pressione, inventò la seconda fermentazione in bottiglia con aggiunta di zucchero e melassa. Ma forse si può anche immaginare che l’aggiunta di zucchero e melassa fossero già conosciuti come mezzi per generare la fermentazione ed addolcire i vini, tanto apprezzati dai buongustai londinesi.

Méthode champenoise
Detto questo sembra di essere giunti ad un conclusione seppur confusa sulle tappe della scoperta del méthode champenoise, così come lo conosciamo oggi. Ma nient’affatto! Innanzitutto lo Champagne prodotto era soltanto dolce, a volte molto dolce, abbinabile a fine pasto con pasticcerie di vario tipo e a volte, assai raramente, con fritture di pesce. Bisognerà aspettare il 1850 per avere il primi Champagne secchi e soltanto il 1870 per avere la diverse tipologie di Champagne in cui predomina comunque la componente secca a discapito di quella dolce oramai fuori moda. È ancora grazie ai commercianti inglesi che s’impone questa trasformazione, avvenuta inizialmente, così come ricordato in precedenza per altre scoperte, in maniera casuale [10]. Grazie a Chaptale e Parmentier, con l’aggiunta di zucchero nel pressoir [11] al tempo della vendemmia (tecnica che prese in nome di chaptalisation), si arrivò alla definizione certa di un aumento del tenore alcolico nei vini, soprattutto in quelle annate in cui la maturazione dell’uva non raggiungeva gli effetti desiderati; questa conoscenza venne poi ampliata da Parmentier che suggerì ai vignaioli francesi, la cui scarsità dello zucchero era ben nota, di utilizzare il succo d’uva concentrato (sirop de raisin) o il mosto stesso nelle botti in fermentazione [12]. L’aggiunta di zucchero, o di mosto concentrato, creava un’infinità di rotture (casse) delle bottiglie, ed era l’incubo costante di molti rivenditori, a cui si affiancava il sedimento (dépot) causato dal vino non decantato.

Il primo a descrivere la pratica del dégorgement fu André Jullien, nel suo Manuel du sommelier ou instruction pratique sur la manière de soigner les vins; contenant la théorie de la dégustation, du collage et de la fermentation secondaire des vins; les moyens de prévenir leur altération et de les rétablir lorqu’ils sont dégénérés ou naturellement défectueux, edito a Parigi, per Colas nel 1813. E fu soltanto nel 1836 grazie al farmacista di Châlons-sur-Marne, François, che si riuscì a stabilire un dosage, a quel tempo chiamato réduction Francaise, per calcolare in maniera precisa la quantità di zucchero da aggiungere prima di imbottigliarlo e di aggiungerne, se necessario, la quantità corrispondente al volume di anidride carbonica che si voleva ottenere: «per un vino moderatamente spumante una pressione corrispondente a 4 e ½-5 atmosphères, per un grand mosseaux, il cui tappo salterà fino al soffitto, da 5 a 6 atmosphères [12]». Il ‘metodo François’ non fu immediatamente accettato da tutti, benché desse delle buone certezze sulla sua riuscita, ma si diffuse a partire da quei produttori e soprattutto da quei négociant interessati a non perdere clienti, a venderne maggiori quantità e soprattutto a rendere il prodotto meno caro. Siamo all’ultimo passo verso lo champagne così come lo conosciamo oggi: bisognerà aspettare ancora una volta i commercianti inglesi ed il 1850, come scrissi in precedenza, per proporre sul mercato internazionale un vino spumante dal gusto secco. Il merito di questa proposta è legata alla testardaggine del signor Burne, che dopo aver assaggiato, nel 1846, una cuvée di Pierre-Jouet non addolcita, di tipo brut, ne rimase talmente colpito, che chiese di fornirgliene alcune casse di quella tipologia. Dopo averlo venduto ad un circolo militare di Londra, gli venne chiesto di ritirarlo perché troppo secco e di sostituirlo con uno Champagne dolce. Il signor Burne non datosi per scoraggiato continuò, assieme a molti altri suoi colleghi anglosassoni, a richiedere champagne meno dolci, fintanto che nei decenni successivi si imposero entrambe le tipologie, sino al prevalere di quella secca. Per concludere la carrellata sul metodo non possiamo qui non ricordare il capo cantiniere della Veuve Clicquot, Antoine Muller, che nel 1818 inventò la tecnica del remuage, grazie all’utilizzo delle pupitres, che consisteva in due tavole fissate come una V rovesciata su cui erano stati provocati dei fori dove inserire le bottiglie.

Per concludere
1) La Champagne si riferisce ad un territorio geo-politico, come direbbero delle vecchie cartine geografiche, a cui corrispondono dei terroir in senso viticolo non ripetibili: che si producessero vini rossi, o gris e fermi o vini mossi o vini frizzanti o vini con metodo champenoise, la cosa non cambia.
2) I vini frizzanti anche con seconda rifermentazione in botte, negli otri e poi in bottiglia erano già ampiamente conosciuti dall’antichità, storia in cui si inserisce in maniera non banale Francesco Scacchi, il quale, però, non inventa nulla.
3) Il metodo champenoise deve un contributo fondamentale a viticoltori, enologi, medici, poeti e scrittori greci (antica Grecia), italiani (impero romano e oltre), galli, che amavano particolarmente i vini ‘piccanti’, ad un vetraio fiorentino e a un chimico inglese, il quale volendo dimostrare una cosa si imbatté involontariamente in qualcosa d’altro.
4) Poi il metodo champenoise così come lo conosciamo, a partire dalle cuvée di Dom Pérignon in avanti, è soltanto francese, piaccia o meno, senza negare il contributo fondamentale dei commercianti inglesi e delle mode che al di là della Manica si imposero in tutto il continente.

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[1] Francisci Scacchi Fabrianensis, De salubri Potu Dissertatio, Del bere sano, Fondazione Cassa di risparmio di Fabriano e Cupramontana, Giampiero Zazzera Libraio in Lodi, Lodi 2000, pag. 161 (edizione originale Roma 1622 per Alexandrum Zannettum). Il capitolo in cui parla di vini piccanti è il XXI: Se il vino frizzante, comunemente chiamato piccante, sia utile alla salute.


[2] Lamberto Paronetto, Lo spumante classico nel corso dei secoli


[3] Ibidem


[4] Cfr. Mara Colpo, il Biblionauta, Il Giornale di Vicenza 26 luglio 2006 in http://www.bibliotecabertoliana.it/biblionauta/2006/26_07_2006.pdf


[5] Cfr. André L. Simon, Lo Champagne dalle origini ad oggi (1962), Mursia, Milano 1968


[6] La rivalità tra i territori di Champagne e di Borgogna, generate in gran parte dalle guerre commerciali tra Francia e Spagna, troverà poi eco nelle battaglie di penna, in prosa e in versi, che durarono più di cento anni a partire dallo scritto che Daniel Arbinet pubblicò a Parigi, nel 1652, in difesa del vino di Beaune (Borgogna): egli riferì a tal proposito di un vino molto gradevole e molto salutare (secondo tradizione medica).


[7] La traduzione di l’Agriculture era apparsa nel 1564, anno della morte di Charles Estienne; ebbe diverse riedizioni prima del 1570. L’edizione di Lunéville, 1577, in-8°, fu accresciuta da Liébault che aveva sposato sua figlia.


[8] Edizione consultata: «L’arte vetraria definita in Libri Sette, del R. P. Antonio Neri Fiorentino Nel quale si scorpino maravigliosi effetti, e s’insegnano Segreti bellissimi del Vetro nel Fuoco, & altre cose curiose, dedicata all’Illust.mo et Eccell.mo Sig. Don Antonio Medici, in Firenze, Nella Stamperia de’ Giunti, M.DCXIII (1612), co’ licenza de’ Superiori».

[9] http://www.linkiesta.it/it/blog-post/2012/09/27/la-serendipity-ha-origine-italiana-ma-quasi-nessuno-lo-sa/10575/ 


[10] André L. Simon, cit. pp. 119 – 123


[11] Torchio orizzontale


[12] Cfr. Antoine Augustin Parmentier, Traité théorique et pratique sur la culture de la vigne, avec l’art de faire le vin, les eaux-de-vie, esprit de vin, vinaigres simples et composés (2 vol., 1801) in collaborazione con Jean-Antoine Chaptal, l’abbé Rozier, e Dussieu, Delalain, fils, Paris 1801; Traité sur l’art de fabriquer les sirops et conserves de raisin (publication 1810), destinés à suppléer le sucre des colonies dans les principaux usages de l’économie domestique, Méquignon, Paris 1810


[12] André L. Simon, cit. pag. 107

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

1 Commento

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Alfredo Leoni

circa 6 anni fa - Link

Articolo molto interessante , che descrive in dettaglio, tutta la storia di questo affascinante mondo, delle bollicine... peccato che , in pochi sanno,( finche i monaci ,non daranno l'autorizzazione a divulgare i loro manoscritti..), che già verso la fine del 1300 , nel monastero Bendettino di Camaldoli , si spumantizzava ,con discreto successo. Nel Monastero ,sono custoditi più di centomila manoscritti , in latino antico, che parlano esclusivamente di tutto il lavoro che si faceva in campagna e dei loro frutti, cioè, la più grande e dettagliata enciclopedia( se cosi si può chiamare) che descrive dettagliatamente , giorno , dopo giorno, tutto quello che facevano, dal levar del sole al calar del sole per ben 400 anni , dal 1200 al 1600. L'unica testimonianza palpabile oggi, è uno spumante , realizzato con ostinazione, dall'Azienda Agricola Andi Fausto, nel 2012 , che ha cercato, con assoluta fedeltà e con notevoli , difficoltà, ( prendendo spunto, dai manoscritti Benedettinii), di realizzare , con le antiche tecniche, uno spumante , che ricordasse , il più fedelmente possibile, il vino, prodotto da questi monaci.

Alfredo Leoni

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