Sono stata 9 giorni a New York e sono dimagrita: i dettagli – Parte seconda

Sono stata 9 giorni a New York e sono dimagrita: i dettagli – Parte seconda

di Lisa Foletti

Riprendendo il filo del discorso newyorkese, entro nel vivo delle esperienze enogastronomiche vissute durante la mia recente vacanza nella Grande Mela.

Preciso, innanzitutto, che quasi tutti i pasti consumati a NYC sono stati prenotati dall’Italia nelle settimane precedenti: almeno due di questi (Cosme e Blanca) non sarebbero stati possibili altrimenti, gli altri forse sì, ma quando si tratta di mangiare io detesto l’improvvisazione, e ancor più le brutte sorprese. Meglio essere previdenti, soprattutto se la cena è il fulcro della propria giornata, e in essa si ripongono molte speranze e aspettative.
Impossibile tralasciare un altro dettaglio fondamentale: la metropolitana di New York, per quanto vecchia, scomoda (le scale mobili sono una rarità, e i pochi tornelli fungono contemporaneamente da ingresso e uscita), inospitale (subtropicale sulle banchine e siberiana dentro i vagoni), è dotata di un numero impressionante di linee e fermate, conduce davvero ovunque, e soprattutto funziona 24 ore su 24. Questo la dice lunga su quanto sia semplice muoversi a NYC, senza problemi di guida né di spostamenti serali. Perlomeno se non si ha fretta.

Giorno 1
Atterrate nel pomeriggio, ci siamo concesse una doccia e un veloce cambio d’abito per poi incamminarci verso il Grand Central Terminal, a poche centinaia di metri dal nostro hotel. Nella stazione ferroviaria più grande del mondo per numero di banchine, inaugurata nel 1913, si trovano numerosi ristoranti e fast food, oltre che gastronomie, panetterie, un mercato di prodotti alimentari freschi, e più di quaranta punti vendita al dettaglio. Al secondo piano interrato c’è lo storico Grand Central Oyster Bar & Restaurant, uno spazio enorme sormontato da ampie volte rivestite di piastrelle “Guastavino” e punteggiate di lucine, un chilometrico bancone bar e un numero imprecisato di tavolini apparecchiati in stile trattoria italiana (con tanto di tovaglia a quadri), a metà strada fra lo spettacolare e il kitsch.

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Se si chiama “oyster bar” un motivo ci sarà, ma noi quella sera non eravamo in vena di molluschi, quindi fra le decine di proposte ci siamo orientate sul pesce cotto (ostriche fritte, cocktail di astice, un filetto di dentice e uno di spigola grigliati con accompagnamento di verdure varie, fagioli, funghi) e siamo cascate piuttosto male: ostriche mortificate dalla spessa panatura, astice freddo e gommoso, piatti principali dall’aspetto ospedaliero con carni asciutte e contorni pallidi. Un riesling 2014 di Trimbach (Alsace) a 52$, senza infamia e senza lode, e niente dessert. 95$ a testa, con molta delusione. Qui si viene per i crudi, dicono. Di certo non per i cotti, dico.

Giorno 2
Dopo una giornata trascorsa fra musei e scarpinate open air, con spuntino volante non degno di nota, è arrivata l’ora del Babu Ji, rinomato e contemporaneo ristorante indiano. Alcuni gradini discendenti conducono a una saletta dal soffitto basso, anch’esso punteggiato di lucine (questa volta viola), con un bancone bar e la foto di un vecchio indiano baffuto che troneggia sulla parete antistante l’ingresso. La sala ristorante è al piano di sopra e vi si accede da una piccola scala in legno: l’ambiente è raccolto e moderno, con pochi tavolini dalla mise en place piacevolmente essenziale (niente tovaglia, bicchiere e piatto in metallo), luci molto soffuse e immagini bollywoodiane proiettate in technicolor sulla parete alle mie spalle, a metà strada tra l’elegante e il kitsh.

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Decidiamo (forse sbagliando) di evitare il menu degustazione e di pizzicare dalla carta qualche piatto, non senza qualche difficoltà nella decifrazione delle portate e degli ingredienti: “l’originale” naan pizza con fontina e spezie, lenticchie gialle con latte di cocco e spezie, gamberoni speziati, costolette d’agnello tandoori con salse e spezie, riso basmati invecchiato con limone e cumino (cioè spezie).

Soffice e gustosissima la pizza di pane naan farcito di formaggio, piuttosto impersonali i gamberoni, succulente le costolette d’agnello, profumato e ben cotto il riso di accompagnamento, cremose e abbondanti le lenticchie. Un Beaujolais Appellation Régnié 2016 di Guy Breton a 59$, servito nei tumbler di vetro, ad accompagnare degnamente la cena: il gamay meno goloso, più pungente e speziato, col frutto selvatico quasi amarognolo, a tratti balsamico, con cenni di rabarbaro e arancia amara, spiazzante sulle prime per via della sua spiccata acidità e di una lieve rifermentazione, godibilissimo dopo qualche minuto di assestamento. Nel complesso, 95$ decisamente meglio spesi rispetto alla sera precedente, anche se non è nato l’amore: cucina indiana davvero ben fatta, inaspettatamente digeribile, ma ci aspettavamo qualcosa di meno classico. Errore di valutazione nostro, probabilmente.

Giorno 3
Giorno di pioggia, ideale per visitare musei, chiese, e soprattutto il Chelsea Market. Antica sede della National Biscuit Company (fabbrica di biscotti Oreo) totalmente restaurata, oggi è un vastissimo mercato coperto che ospita negozi di prodotti gastronomici e di abbigliamento vintage, punti ristoro di ogni tipo, pasticcerie e caffetterie, stand dedicati allo street food e un grande mercato del pesce. Se ti prende la fame lì dentro, ma ti vuoi trattenere perché quella sera ti aspetta una grande cena (come nel nostro caso), è una vera sofferenza.

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Ma noi, determinate a non esagerare, abbiamo optato per il Corkbuzz, piccolo e raffinato wine bar di stampo europeo, dove siamo rimaste piacevolmente soprese dalla cura e dalla qualità delle materie prime, pur nella semplicità delle proposte: una piccola tartare di manzo tagliata al coltello, un tris di crostini belli da vedere e sfiziosi da gustare, e uno strepitoso reuben sandwich con petto d’anatra affumicato (non conoscevo questo tipo di sandwich americano, e ne sono rimasta conquistata), il tutto accompagnato da un discreto calice di pinot nero di Illahe, Oregon (a 16$, un po’ overpriced) e da una stone IPA. Nel complesso, 38$ a testa ben spesi.

Il ristorante che ci aspettava quella sera era il Cosme, insegna newyorkese dello chef Enrique Olvera, padre della cucina messicana contemporanea che, con il suo Pujol di Città del Messico, ha cambiato il corso della gastronomia del suo Paese. Il Cosme, quest’anno al 25° posto nella classifica mondiale dei “50 Best Restaurants”, è capitanato dall’executive chef Daniela Soto-Innes e vanta uno stuolo di professionisti da far girare la testa: solo di camerieri ne ho contati almeno una quindicina! Locale moderno e accogliente, semibuio (pare che i newyorkesi siano fissati con l’intimità), un bel bancone bar e una distesa di splendidi tavoli in legno capaci di ospitare un’ottantina (o forse più) di commensali. Un meccanismo super oliato e sincronizzato che mi ha lasciata incantata per precisione e professionalità: al nostro arrivo l’ambiente era già strapieno, e tutti sembravano godersi la cena in tranquillità e relax.

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Neanche qui è stato facile orientarsi tra le proposte gastronomiche, ma la disponibilità dei camerieri ha fatto il resto, ed ecco arrivare Scallops aguachile (grosse capesante crude in un succo acidissimo di cetriolo e lime, peperoncino e coriandolo, con fette sottilissime di jicamas, ovvero patate messicane), Kabocha squash tamal (una confortante e cremosa “masa” – impasto fresco di mais – cotta al vapore con burro e purea di zucca giapponese, in una salsa di semi di zucca, pomodori, tomatillos, pepitas, chiles, guajillos, il tutto finito con una grattugiata di Castelrosso piemontese), Sweet corn tlayuda (una sorta di gustosa e croccantissima pizza di mais farcita con funghi galletti, formaggio e spezie), Lamb belly (burrosa pancia di agnello), Caramelized cacao butter (morbido dessert a base di burro di cacao, pistacchio e crumble di lamponi), preceduti da due discreti cocktails a 18$ cadauno, e accompagnati poi da due calici di vino rosso, anch’essi a 18$ (l’intenso e materico Alea Viva 2016 di Andrea Occhipinti, e un sostanzioso listán negro di Suertes del Marqués, Tenerife). 135$ a testa ottimamente spesi, in gran parte per merito del servizio e dell’ambiente.

TO BE CONTINUED…

La prima parte è qui.

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Lisa Foletti

Classe 1978, ingegnere civile, teatrante, musicista e ballerina di tango, si avvicina al mondo del vino da adulta, per pura passione. Dopo il diploma da sommelier, entusiasmo e curiosità per l’enogastronomia iniziano a tirarla per il bavero della giacca, portandola ad accettare la proposta di un apprendistato al Ristorante Marconi di Sasso Marconi (BO), dove è sedotta dall’Arte del Servizio al punto tale da abbandonare il lavoro di ingegnere per dedicarsi professionalmente al vino e alla ristorazione, dapprima a Milano, poi di nuovo a Bologna, la sua città. Oggi alterna i panni di sommelier, reporter, oste e cantastorie.

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