Sono andato al Vinitaly per bere il sakè. E mi è anche piaciuto

Sono andato al Vinitaly per bere il sakè. E mi è anche piaciuto

di Alberto Muscolino

Quando passi al Vinitaly la bellezza di 3 giorni, accumulando un totale di 24 ore, 1440 minuti (di cui una buona parte in fila per il bagno!), 50 km (contapassi alla mano), circa 60 produttori importunati per 150 vini ingurgitati, sei sulla buona strada per le prossime olimpiadi. Se alla fine, però, decidi di scrivere di sakè, capisci che qualcosa, a un certo punto, deve esserti sfuggita di mano.

Il fatto che mi sarebbe piaciuto così tanto un semplice – pensavo all’inizio – fermentato di riso, proprio non me l’aspettavo. Sono finito nel padiglione internazionale quasi per caso, spinto dalla curiosità di provare qualcosa di diverso, guidato solo dalla serendipità (ovvero il culo di trovare delle cose di un certo livello quando stai cercando altro) e mi sono imbattuto nel sakè. La sua storia è antica, si perde nei racconti e nelle leggende cino-giapponesi di più 2000 anni fa ed è intimamente legata alla cultura orientale e all’importanza del riso in quella parte del mondo.

Due nozioni di storia
Divenuto in breve tempo bevanda simbolo del paese del sol levante, celebrato e consumato durante le cerimonie ufficiali, nasce, in realtà, in maniera casuale e non proprio accattivante. Il processo produttivo consisteva, infatti, nella macinatura dei chicchi di riso, che poi venivano cucinati in acqua pulita, fino a formare una sostanza simile a un purè. Solo che la macinatura veniva svolta da un intero villaggio tramite la masticazione dei chicchi e la successiva raccolta del bolo alimentare, sputato in grandi vasche comuni.

La masticazione introduceva gli enzimi necessari alla fermentazione, ma dato il basso potere digestivo della saliva, il preparato alcolico aveva basse gradazioni ed era consumato come una sorta di porridge. In seguito, superata la parentesi squisitamente Giapponese di affidare il rito della masticazione a giovani ragazze vergini, venne scoperta la muffa la Koji-kin (aspergillus orzae), i cui enzimi trasformano in zuccheri gli amidi complessi aumentando il tasso alcolico, e i villaggi smisero di ruminare.

Al riso innestato con  koji-kin  (chiamato  kome-koji, o riso di malto), viene aggiunta una miscela di lievito (shubo), per convertire gli zuccheri in  etanolo.  Preparare il  kome-koji  è un passaggio fondamentale: dopo la lucidatura del chicco (fase in cui si elimina parte della crusca, troppo povera di amido) il riso va cotto al punto giusto e poi lasciato in acqua, controllandone costantemente la temperatura. In grandi recipienti si avvia la fermentazione multipla parallela (saccarificazione e fermentazione avvengono contemporaneamente), che dura dalle due alle sei settimane. Segue la pressatura e la filtrazione. Per i sakè “fortificati” è il momento di aggiungere l’alcol. Ultime operazioni sono la pastorizzazione, per inibire gli elementi vivi e rallentare l’ossidazione, lo stoccaggio e la maturazione.

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La messa in commercio del sakè coincide con il momento ottimale per degustare questa bevanda, la cui percentuale alcolica varia dal 4% al 20% vol. Il sakè Barrel è conservato e commercializzato in piccoli barili, chiamati Taru, da 1800 cc, aperti durante una cerimonia, detta Kagami Biraki. Prima di essere servito in piccoli contenitori di porcellana, viene scaldato a una temperatura di circa 35 °C, non di più perché, come nel caso del cognac ad esempio, bisogna solo “humaniser” il sakè.

Attualmente sono attivi circa 1500 produttori in Giappone che hanno la possibilità di misurarsi con le seguenti tipologie designate dal governo:

Junmai: macro categoria che comprende i Premium Sakè preparati solo con riso, acqua e kome-koji;

Honjozo: macro categoria che comprende i Premium Sakè preparati utilizzando riso, acqua, kome-koji e alcol etilico (meno del 10% della qualità del riso raffinato);

Futsushu: macro categoria che comprende i Sakè Ordinari, meno soggetti a specifiche restrizioni.

Le tipologie Premium sono, inoltre, caratterizzate da sottocategorie, in base al grado di levigatura del chicco che può andare da circa il 70% a circa il 35%. Infine si possono distinguere delle tipologie in base al metodo di preparazione:

Namazake: “sakè crudo” non pastorizzato e imbottigliato immediatamente dopo la pressatura. Semplice, fresco e leggero, da consumare in tempi brevi;
– Genshu: pastorizzato, ma non diluito in acqua di sorgente e quindi con più alta gradazione alcolica (tra i 18 e i 20 gradi). Gusto forte, ricco e speziato;
– Koshu: invecchiato in bottiglia anche per molti anni. Complesso, evoluto e intenso;
– Taruzake: invecchiato in botti di cipresso giapponese, è un sakè complesso e arricchito dai sentori del legno;
Nigorizake: torbido e lattiginoso, in quanto filtrato solo attraverso una tela grezza. Denso, dolce e fruttato, con sedimenti di riso.

Per i più curiosi consiglio anche un bel documentario su Netflix: The Birth of Sakè.

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A questo punto però proviamoli: Kanpai!
Tokubetsu Junmai-shu – produttore Nanbubijin
Riso levigato al 55%, della tipologia junmai ovvero senza alcol aggiunto. Servito freddo.
Colore paglierino molto scarico e limpido (frutto di doppia o tripla filtrazione). I profumi sono delicati di fiori bianchi, amido di riso, un elegante agrumato e una nota di caramella gommosa. In bocca è secco, pulito, senza asperità, scivola dritto lungo il palato con una facilità impressionante. I 15,3 gradi alcolici non sono per niente avvertiti e l’abbinamento con una tartina al formaggio spalmabile, tonno e salsa di soia è perfetto, perché stempera la sapidità ed esalta il pesce.

Tiaro – produttore Taga
Riso levigato dal 70% al 50% (non specificato), della tipologia koshu ovvero invecchiato, in questo caso, per circa 16 anni in acciaio. Servito fresco.
Gli anni d’invecchiamento hanno regalato a questo koshu un colore dorato che brilla nel calice. Al naso è spiazzante: funghi porcini secchi molto intensi e poi miele, caramello, prugna matura e mallo di noce.
In bocca è complesso, evoluto, avvolgente e rotondo. Elegante, molto elegante, più dolce del primo con sentori di castagna e mandorla, sapido sul finale. Mi ricorda un po’ uno sherry!

Junmai Umeshu – produttore Kozaemon
Blend di sakè e vino di prugne giapponesi. Servito fresco.
Colore ambrato e brillante anche in questo caso. Al naso spiccano profumi di amaretto e mandorla, prugna e una nota caramellata.
In bocca è invitante, dolce ma mai stucchevole perché equilibrato da una vibrante acidità. Alcolicità contenuta a 11%. Finisce fresco e sapido sul frutto maturo.

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Alberto Muscolino

Classe '86, di origini sicule dell’entroterra, dove il mare non c’è, le montagne sono alte più di mille metri e dio solo sa come sono fatte le strade. Emigrato a Bologna ho fatto tutto ciò che andava fatto (negli anni Ottanta però!): teatro, canto, semiotica, vino, un paio di corsi al DAMS, vino, incontrare Umberto Eco, vino, lavoro, vino. Dato il numero di occorrenze della parola “vino” alla fine ho deciso di diventare sommelier.

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