Sirio Maccioni non c’è più, resta la leggenda del suo ristorante a New York

Sirio Maccioni non c’è più, resta la leggenda del suo ristorante a New York

di Leonardo Romanelli

Certe persone non muoiono a caso, sanno quando farlo: Sirio Maccioni apparteneva a quei pochi personaggi che possono dire di aver segnato un’epoca nel loro settore. Ristoratore diventato popolare negli anni Settanta a New York con “Le Cirque”, ha realizzato il ristorante dei sogni di un emigrato italiano arrivato nella Grande Mela per avere successo. Non lo ha fatto con la valigia di cartone e le scarpe sfondate, lo ha fatto da protagonista fin da subito, dopo una gavetta in alberghi di alto lignaggio italiani e transalpini come era d’uso negli anni Cinquanta. E tanto è stato bravo che è riuscito ad affermarsi con una proposta di cucina francese classica, una serie di specialità di tradizione americana e poi, non scordandosi del Belpaese, con una serie di prodotti gatronomici italiani.

La Francia, alla sua epoca, era una meta obbligatoria per assimilare quello che era il metodo di lavoro, adatto per eccellere in tutto il mondo. Ed era la scuola che lo aveva mandato a formarsi Oltralpe, quando ancora gli istituti alberghieri avevano una funzione professionale e formativa del lavoro: spinta motivazionale alle stelle, capacità di interpretare i bisogni della clientela, padronanza dell’ambiente, tutti quegli elementi appresi che gli hanno permesso di spiccare il volo.

A New York si fa conoscere dal jet set, cioè da quei personaggi che fanno tendenza e sono opinion leaders, quei VIP che decreteranno il vero successo dei luoghi che frequentano. Anche in parte alimentato dalla sua capacità di creare “rumore” con operazioni di marketing genuine ed intuitive: i tavoli sempre pieni ogni sera perché i vuoti venivano smontati e portati nel retro del locale per lasciare la piacevole illusione agli ospiti di essere dei veri privilegiati. Oppure le modelle ospitate a pranzo (“tanto mangiavano pochissimo ”raccontava)per fare arrivare i paparazzi alla porta, farlo sapere a tutti e creare quindi la voglia di prendere parte al grande circo.

Sarà un caso la scelta di questo nome per il locale, “Le Cirque”, un ristorante che nasce muore e rinasce dalle sue ceneri almeno tre volte  a Manhattan, per poi espandersi in altri lidi come Las Vegas e poi Repubblica Dominicana, India  ed Emirati Arabi, senza considerare le osterie aperte anche in America con il brand “Circo”. Sirio Maccioni è stato il primo a riuscire nell’impresa senza farsi forza di essere italiano, secondo l’idea ricorrente dei suoi tempi, e rimanendo sempre orgogliosissimo delle sue origini: i tre figli fieri di essere italiani, il ritorno a Montecatini una volta l’anno a trascorrere le vacanze, il ritrovo con gli amici di sempre che lo facevano tornare con i piedi per terra nel frequentarli, anche se era facile trovarsi a cena in agosto con Robert De Niro o altri attori, che passavano a trovarlo per un saluto.

Certi suoi pensieri relativi al settore ristorativo appaiono oggi premonitori: il cuoco deve essere bravo a soddisfare il cliente con la sua tecnica, deve evitare voli pindarici, sarà per questo che ha sempre scelto chef non troppo appariscenti a livello mediatico, bravi ma non personaggi da vetrina. Odiava tanti aspetti moderni della cucina, soprattutto forme di impiattamento inutili e di interpretazione difficile, preferiva concretezza, in porzioni e sapori. Ai camerieri ha sempre raccomandato anche autonomia in sala, essere in grado cioè di allestire anche piatti da soli, non dimenticare i fondamentali come sfilettare i pesci o affettare carni di fronte ai clienti.

I tre figli maschi gli sono sempre rimasti al fianco nella sua avventura, così come la moglie: era questo che si era portato dietro dalla madrepatria, l’importanza della famiglia unita. E’ scomparso l’ultimo rappresentante di una generazione che stabiliva il “dress code” di giacca e cravatta obbligatoria per fare in modo che si alzasse la cura del cliente nei propri riguardi, che riteneva giusto essere presente nel locale e non rappresentare solo la firma dell’insegna, poiché chi entrava nel ristorante lo faceva anche perché c’era il suo nome.

Oggi più che mai il suo insegnamento può essere ritenuto ancora valido.

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Leonardo Romanelli

“Una vita con le gambe sotto al tavolo”: critico gastronomico in pianta stabile, lascia una promettente carriera di marciatore per darsi all’enogastronomia in tutte le sfaccettature. Insegnante alla scuola alberghiera e all’università, sommelier, scrittore, commediografo, attore, si diletta nell’organizzazione di eventi gastronomici. Mescolare i generi fino a confonderli è lo sport che preferisce.

3 Commenti

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Giacomo

circa 4 anni fa - Link

E' morto il suo modo di fare ristorazione., grazie al cielo.

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Mattia romano

circa 4 anni fa - Link

Che peccato che tu non abbia ritenuto giusto tenere chiusa la bocca in un momento del genere e nei confronti di qualcuno che comunque ha dimostrato valore in quello che ha fatto. Almeno firmati con nome e cognome e dai una spiegazione a un affermazione tanto vile.

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Luigi

circa 2 anni fa - Link

Sei un metalmeccanico.

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