Saluzzo, il suo Pelaverga e altre uve dimenticate. Storia e vicende di un terroir insolito (prima parte)

Saluzzo, il suo Pelaverga e altre uve dimenticate. Storia e vicende di un terroir insolito (prima parte)

di Pietro Stara

Sono stato a Saluzzo, ho visto gente, ho fatto cose, e soprattutto ho avuto a che fare col vino locale, nome Pelaverga. Ne è uscita una cronaca un po’ lunga quindi qui piazzo la prima parte.

Se provate a digitare “pelaverga” sul famoso motore di ricerca google, la prima pagina che incontrate rimanda inequivocabilmente a quello di Verduno. Se lo faceste anche su quello meno usato di yahoo, scoprireste che esiste pure un pelaverga di Saluzzo (al quarto posto, dopo le foto di quello di Langa), per poi scendere, nelle righe successive, nuovamente a quello di Verduno. Se poi diteggiate “pelaverga” e abitate fuori dal marchesato di Saluzzo o dalla repubblica d’Alba, vuol dire che siete molto preparati sui vitigni piemontesi. Se digitate “pelaverga” e abitate a Forlì, tanto per fare un esempio, siete semplicemente da applauso. Se digitate “pelaverga” e poi aggiungete colline Saluzzesi, oppure soltanto Saluzzo, che siate romagnoli o sardi poco importa, l’applauso è prolungato. Quasi da ovazione.

Voglio qui narrarvi la storia di una delle più piccole doc d’Italia e di una delle più piccole doc del Piemonte, una delle più recenti (1996), ma i cui vini si perdono nella memoria delle colline ai piedi del Monviso.

Perché quindi raccontarvela? “Perché parli di vino”, direte voi; oppure “perché ne hai voglia”, aggiungerà qualcun altro; oppure ancora, “ma che cavolo ne sappiamo, diccelo tu!”. Visto che me lo avete chiesto in maniera così insistente, ora vi rispondo. Per tre essenziali ragioni:

– La prima, appena accennata, è che si tratta di una denominazione di origine composta interamente da vitigni storici antichissimi e introvabili al di fuori di un areale assai limitato.
– La seconda è che i vini prodotti sono di sicuro e pregevole interesse.
– La dimensione della doc: talmente piccola che un tempo non troppo lontano chi faceva vino se lo beveva pure, e tutto quanto.

Vino e villa rustica nel saluzzese di epoca romana.
Uno degli attestati più recenti e significativi dell’antichissima tradizione viticola del saluzzese è data dal ritrovamento, nel 2003, di un’antica villa rustica romana, ubicata nel territorio comunale di Costigliole Saluzzo. Avrebbero voluto farci dei campi sportivi, ma qualcosa è andato talmente storto ai giocatori con la palla da portare un gran bene agli archeologi con pala e badile: viene così rinvenuta un’antica azienda agricola, risalente al periodo augusteo (I secolo d.C. con successive modificazioni sino all’incendio che la distrugge intorno al 280 d. C.) di quasi tre ettari, che soddisfa diverse funzioni: da una parte la produzione, la conservazione e lo smercio delle derrate alimentari e, dall’altra, come centro di ospitalità all’interno di una via pedemontana che congiunge Augusta Taurinorum con il sud Piemonte, la Liguria e la Gallia Narbonese attraverso la valle Varaita. Il nucleo abitativo padronale, la domus, di piccole dimensioni, ospita la sala di rappresentanza e la sala dei banchetti: la pavimentazione, un pavimento rosso imborsato nella malta e ricoperto ad alcuni mosaici floreali, attesta la presenza dei triclini ad angolo lungo due pareti. Attorno ad essa le cucine (i focolari), da dove si presume sia partito l’incendio. Tutto intorno il podere (fundus). Il vasellame in metallo, di grandissimo pregio, è della medesima fattura di quello trovato a Pompei: casseruole e mestoli in ferro si aggiungono a coppe di ceramica importate sia dalla Gallia che dal nord Africa. Nelle stanze a settentrione della villa, utilizzate per la trasformazione dei prodotti agricoli, sono stati rinvenuti strumenti di lavoro campestre e di carpenteria edile: falci e falcetti, campanacci per greggi, piccozze in ferro. Ben sei macine più una idraulica lavoravano contemporaneamente, caso molto più unico e assai raro, che sottolinea l’ampiezza del lavoro agricolo svolto. La parte settentrionale della villa ospita l’impianto di produzione vinicola. Alcune vasche si dispongono in maniera speculare davanti ad un muretto basso: tre vasche “calcatorie” dove avviene la pigiatura si pongono di fronte ai tre “lacus” preposti alla raccolta del mosto. I due sistemi di vasche sono messi in comunicazione dai condotti in piombo. Questi condotti vengono successivamente puliti e restaurati con diverse operazioni di sterilizzazione grazie ad una malta idraulica composta da coccio pesto. Una vasca ancora più antica e di dimensioni più grandi, databile tra il primo e secondo secolo d. C. viene soppiantata dalle realizzazioni successive: in questa prima grande vasca viene trovato un piccolo bicchiere, sottostante al bordo di una parete, appartenente ai primi sommelier con la tunica e la biga. Con i sistemi di flottazione (setacciatura in acqua), infine, sono recuperati nei condotti sotterranei di un grandioso impianto idraulico delle acque nere (e bianche), sia dei resti organici che quelli botanici: un bel po’ di vinaccioli, che un giorno, magari, ci sveleranno cose che manco ad immaginarsele.

Vigneto a Castellar

Vigneto a Castellar

I vini di Saluzzo dal medioevo all’età moderna.
In piena epoca medievale, per favorire la permanenza contadina nei campi e la nuova piantagione di vigne vengono utilizzati alcuni incentivi, tra cui l’accensamento: l’abbazia di Staffarda dà ai privati due giornate piemontesi a bosco ubicate nel saluzzese, con il vincolo di trasformarne una delle due in vigna entro i cinque anni dall’assegnazione. L’altra, quella che rimane a bosco, deve servire a fornire pali e brope (pertiche) atte a sostenere la vite, che vengono legate con i salici, e i suoi filari in un sistema di allevamento ad alteno: nell’alteno le viti sono tenute alte e sostenute da tutori vivi, come olmi, aceri, salici. Nella terra altenata sono associate tre colture: vite, cereali e albero tutore. Gli ampi spazi che intervallano questa coltura, oltre a fornire la possibilità di coltivare frumento, legumi e ortaggi, permettono di effettuare le lavorazioni agricole con l’aiuto degli animali. Antiche scelte agricole rimandano ad un lessico dialettale in costruzione: “in adrit” vengono sistemate le vigne che guardano a sud e ad est, mentre “in enversegno”, al contrario, verso nord e ovest sono lasciati i boschi. Adrit e nvers ripropongono, nel dialetto odierno, quelle scelte di un tempo.

I vini si bevono e si smerciano sul posto e la cosa, per quanto possa sembrare ovvia (se si pensa soltanto alle difficoltà legate alla conservazione) così non è: in realtà vige una sorta di protezionismo commerciale quasi assoluto, che permette solo in rari casi e per fini curativi, di importare vini provenienti da altre terre. Le baruffe commerciali e daziarie sono talmente aspre che, solo nel saluzzese, a causa degli scontri ripetuti tra il comune di Dronero e quelli dell’alta Val Maira, Lodovico II, nel 1486, deve pensare alla costruzione di una nuova strada pubblica che, passando dalle terre inferiori del Piemonte, attraverso Busca, arrivi sino a Barcellonette. Pochi vini, quindi, sono foresti e tra questi, nel saluzzese, si attestano (1443) quelli che provengono dall’albinganensis (zona Albenga).

Intorno al 1600, oltre al “De naturali vinorum historia de vinis Italiae et de conviviis antiquorum libri septem”, dove naturale è la storia (1596), del marchigiano Andrea Bacci, in cui si elogia (libro VI) i vini di Saluzzo, di colore tra il bianco e l’aureo e di robusta sostanza (Nada Patrone), i più importanti resoconti sul vino piemontese ci giungono da Giovanni Botero, nel suo “Relazione sul Piamonte” (con la a, 1607) e dal saluzzese Francesco Agostino della Chiesa, con la sua “Relazione dello stato presente di Piemonte” (1635). Quest’ultimo scrive che il Piemonte, “più fertile in grani e vini, tanto che questi vengono esportati, tra le altre cose produce vini eccellentissimi, particolarmente il Monferrato e Saluzzo, Moncalieri e Gattinara, e Carema nel Canavese”. L’opinione è talmente condivisa che, poco tempo prima (1601), l’ambasciatore della repubblica Veneta, tal Simone Contarini, non tarda ad assicurare che “il Piemonte è così morbido, così fertile e così abbondante, che un paese in tutto grasso si suol dire un Piemonte… Abbonda il Piemonte in particolare di carnaggi, di grani e di vini”.

Di altri vini di gran pregio, ed uno di questi si presume sia il pelaverga, ne fa ampio accenno, prima che ne riferisca Andrea Bacci, Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III, a metà 500: “Salutio è in Piemonte et ha vino molto perfetto… Di questi vini raro si trova in Roma, ma il Cardinale d’Ariminis, per un suo abbate di detto luogo, me aveva qualche caretello e ne faceva gustare e bere a Sua Santità che assai gli piaceva…”. Una tradizione che aveva i suoi precedenti dal momento che pure nel 1511 Margherita di Foix, moglie di Ludovico II marchese di Saluzzo, mandava in omaggio ogni anno “una trantena di botalli de vino de Pagno et de Chastella” a Papa Giulio II perché “el bon vin gli piasia: et non fu mai meglior espesa per la chassa de Saluce fata che mandar questo vino ch’è stato causa de tanti beni” (Baruffi, 1863).

Ma è ancora il saluzzese Della Chiesa che si prodiga in elogi: “vini di Saluzzo e della Valle di Bronda e massime di Pagno sono tali, che per la dolcezza, e delicatezza loro, sono tenuti in gran stima”. Botero conferma Pagno come luogo famoso per la bontà de’ vini. Perché, per rammentarla tutta, il pelaverga senza aggettivo alcuno, è quello di Pagno. Che poi, per chi non lo sapesse ancora, è l’uva “cari” o cario” dai grani grossi, rappa rossa, dolce da mangiare e adatto a fare vini buoni e delicata di cui narra Gian Battista Croce ne “Della eccellenza e diversità de i vini che nella Montagna di Torino si fanno; e del modo di farli”. Nuovamente posto in luce, e dedicato a Sua altezza Serenissima da Gio. Battista Croce suo gioielliere, per Aluigi Pizzamiglio, Torino 1608.

1800
Agli inizi dell’Ottocento Jean A.C. Chaptal, ministro degli Interni e professore universitario di chimica all’Università di Montpellier, allievo del più noto studioso degli effetti della fermentazione, Lavoisier, vuole raccogliere tutte le uve coltivate nei dipartimenti francesi al fine di creare una collezione ampelografica completa che prende il nome di “Pepinière Nationale du Luxembourg”. Chaptal chiede dunque, il 26 gennaio 1803, al generale Charbonnière, di fargli arrivare le barbatelle delle viti più rappresentative coltivate in Piemonte. La richiesta viene girata alla Società di Agricoltura di Torino la quale spedisce, per il saluzzese, il Pellaverga, (con due elle) e il Parpuri (da cercare nei comuni di Verzuolo, La Manta e Costigliole). Sulla raccomandazione del pelaverga era dello stesso parere, diversi anni dopo, uno dei più grandi ampelografi a livello mondiale, il conte Giuseppe di Rovasenda (1824-1913), il quale raccoglie e classifica una collezione di vitigni e un archivio ampelografico imponente (oltre 4000 ceppaie) donati, dopo la sua morte, all’Università degli Studi di Torino.

Ma forse, la migliore fotografia sullo stato delle coltivazioni nel saluzzese ci viene tramandata dal vice intendente Giovanni Eandi che, nel secondo volume della “Statistica della provincia di Saluzzo”, del 1835 (il primo è del 1833), riporta quanto segue: “Vi sono delle specie che hanno pregio per la salubrità del vino come in collina il quajano, in pianura l’avarena e l’avarengo. Si annoverano infine come uve primaticcie ed assai zuccherose il dolcetto, il quajano, il puerperio, la montanera e la brunetta. Devesi poi fare una particolareggiata menzione dell’uva pellaverga la quale è giustamente rinomata: essa produce un vino leggiero e diuretico, quasi acquoso, poco colorato e gratissiino palato per la sua dolcezza: è buono a beversi, tosto seguita la vinificazione, e diviene buonissimo nella primavera, che segue alla vendemmia: di rado si conserva oltre l’anno, salvo sia misto con il nebiolo, poiché allora diviene più frizzante e veramente eccellente. L’uva di pellaverga si conserva anche per mangiarla in tavola, e sino in primavera avanzata. La migliore qualità della medesima si trova in val Bronda. Però la pellaverga per giungere a maturità perfetta richiede tempo assai caldo, e di quando in quando discreta pioggia. Anche l’uva detta perpeuri o puerporio, è particolare a queste colline e ad alcuni alteni che le avvicinano: se ne forma un vino assai carico di colore, morbido, e di sapore alquanto amaricante ma non si conserva oltre l’anno.”

[Fine della prima parte. Crediti immagine principale].

 

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

5 Commenti

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Michele Antonio Fino

circa 7 anni fa - Link

Il bello di Pietro è che non tralascia nulla di ciò che la sua memoria fotografica ha la ventura di incontrare. Il brutto è che ogni sua trattazione scoraggia altri dal cimentarsi con il tema, tanto egli è capace di dire tutto quanto umanamente dicibile. C'è solo un dettaglio che vale la pena ulteriormente approfondire, nell'occasione di un pezzo così bello e ricco. Ed è l'azienda sperimentale della Bicocca di Verzuolo: sulla collina di Villanovtta, nella proprietà che fu di Giuseppe di ROvasenda e ne ospitò la collezione di vitigni, nel 2010, grazie a una sinergia rara e alla disponibilità dell'erede, Maria Lucrezia Melzi d'Eril, ha trovato campo una vigna dove si testano i vitigni dell'antichità saluzzese non ancora giunti a rinnovato successo (si fa per dire)... I bianchi Rossese Bianco e Bianchetto di Saluzzo e i rossi Cardin, Bubbia e Parpeuri. SOno in corso di esecuzione le prime microvinificazioni, ma per il futuro il Saluzzese riserverà di sicuro ancora molte ottime sorprese ampelografiche!

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marcello ponzo

circa 7 anni fa - Link

finalmente ho letto qualcosa di esaustivo e interessante su di un argomento che è sempre stato messo in secondo piano rispetto al parente langarolo ritenuto da tanti l'unico o comunque il principale vino che porta il nome Pelaverga.

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Luca S.

circa 7 anni fa - Link

Bellissimo articolo, parecchio interessante... Unica piccola correzione: il paese è Manta, non La Manta.

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Pietro Stara

circa 7 anni fa - Link

Grazie Luca per l'apprezzamento. Ho lasciato l'articolo (La) semplicemente perché nel testo originale ottocentesco si fa riferimento a "La Manta" e, nelle trascrizioni letterali, non si possono fare cambiamenti. Così come non li ho fatti per Piamonte con la 'a', pellaverga con due 'elle' e via dicendo.

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Michele Antonio Fino

circa 7 anni fa - Link

Luca, c'è anche da tenere presente che l'articolo trasporta in Italiano l'originale toponimico di provenienza probabilmente occitana. La Manta, 'l (lou) Piasc, 'n Pagn, 'n Brondel, 'l Castlar, 'l Mel sono toponimici dialettali che recano articoli o preposizioni che non hanno altri toponimici della stessa zona. Ricordi di epoche e di modalità fondative diverse da altri borghi? Chissà. Bello comunque quando ogni tanto, nella lingua franca italiana, fanno ancora capolino. No?

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