Saluzzo e il suo Pelaverga. I miei assaggi e la storia recente (seconda parte)

Saluzzo e il suo Pelaverga. I miei assaggi e la storia recente (seconda parte)

di Pietro Stara

Sono stato a Saluzzo, ho visto gente, ho fatto cose, e soprattutto ho avuto a che fare col vino locale, nome Pelaverga. Ne è uscita una cronaca un po’ lunga quindi qui c’è la prima parte già pubblicata, questa invece è la seconda ed ultima.

Come un fiume carsico, dopo anni di oblio, o meglio di oblii, ecco che qualche anno fa, un ieri l’altro a noi assai vicino, la storia dei vini di Saluzzo riprende nuova linfa. E, come spesso accade, vi è qualcuno che un po’ per caso, un po’ per intuito, un po’ per cocciutaggine e per amor di terra, riprende a tessere le fila di una storia che andava a spegnersi come il moccolo di una candela ampiamente consunta.

I probi pionieri delle colline saluzzesi
Accade così che due persone, più una terza e una quarta di lì a poco, sul finire degli anni ottanta dello scorso secolo, quando la viticoltura del saluzzese è oramai votata al mero autoconsumo locale, si conoscono, si stringono la mano e decidono di portare avanti un progetto: il primo della coppia si chiama Remigio Maero, mentre il secondo Ernesto Casetta. Remigio ha un ristorante che gestisce con la famiglia e vinifica un po’ di pelaverga, comprando le uve qua e là, per il proprio ristorante. Due o trecento bottiglie in tutto. Ernesto, invece, è già un produttore di vini a Vezza d’Alba e ne fornisce alcuni al ristoratore, poi amico, Remigio. Il pelaverga di Remigio viene, dai racconti del figlio Emidio, così e così: non hanno attrezzature per la produzione se non artigianali, non controllano le fermentazioni, i residui zuccherini sono troppo alti e via cantando. Così Remigio chiede ad Ernesto di vinificargli il pelaverga. Ernesto accetta, s’innamora pure lui del vitigno (lo definisce senza alcun pudore contadino il “primo amore”), e si mettono a cercare vigne abbandonate e terreni per impiantare nuovamente quell’uva che andava lentamente scomparendo: un giorno comprerà la prima vigna della zona coltivata interamente a pelaverga che la famiglia Maero aveva realizzato, dopo un disboscamento a Castellar, agli inizi degli anni 90, divenendo così anche lui, roerino di vecchio lignaggio, produttore delle colline Saluzzesi.

Ernesto Casetta mi racconta che questo accade quando, nel contempo, si struttura la crisi del grignolino: alla fine degli anni 80 ne produce circa duecento ettolitri e quando capisce le potenzialità del pelaverga, vino sottile, pepato e a bassa gradazione alcolica, intravede le potenzialità commerciali e sostitutive di quest’ultimo al primo. Intanto anche la famiglia Maero si butta a capofitto in quel vecchio amore: oggi è l’azienda, con i suoi 3,8 ettari su sei, più grande del contado. Vi stavo parlando, poco più sopra, di un terzo e di un quarto personaggio: la storia è quella di Alessandro Reyneri, mancato due anni orsono e rievocato da sua figlia Luce, che dimora in una delle più belle ville circondate da vigna di tutta la collina saluzzese. Sotto confina il botanico Montevecchi che si prodiga a raccogliere vitigni scomparsi nelle valli adiacenti a Saluzzo. Parla con Reyneri del ritrovamento di alcuni tralci inselvatichiti della vite blancha, ad oltre mille metri di altitudine, sui terrazzamenti della borgata ‘Charjòou’, nel Comune di Macra, in cima al vallone di Langra. Alessandro Reyneri accetta la sfida: li va a prendere con l’amico botanico e li impianta nel suo vigneto collinare e, in seguito, fa la stessa cosa con lo chasselas di Aisone. Il suo piccolo appezzamento diventa così un campo sperimentale su cui lavoreranno per diversi anni studiosi dell’Università di Torino: l’antico vitigno ritrovato è il weisser heunish di lingua tedesca, il gwass in Svizzera e il gouais francese. Originario della Croazia il vitigno si è propagato con eserciti, monaci e chissà chi altro: alcuni parlano della sua diffusione francese ad opera degli Unni di Attila nel 451 d. C. Altri ancora lo fanno risalire alle legioni romane guidate da Probo (280 d.C.). Per quanto riguarda invece l’introduzione del vitigno in Val Maira pare probabile che sia avvenuta ad opera dei monaci Benedettini dimoranti nell’abbazia di San Costanzo e che arrivano da quella di S. Colombano a Bobbio in Val Tebbia (Piacenza). Sarebbe il caso di aprire un dibattito sul controverso termine “autoctono”, ma non è questo il momento.

Vigneto a Manta

Vigneto a Manta

Ciò che importa rammentare, infine, è che, grazie agli studi della genetista Carole Meredith, del dipartimento di Viticoltura ed Enologia dell’Università della California, l’heunish – gouais, dopo aver amoreggiato in terra francese con il pinot noir, ha generato ben 16 vitigni nobiliari: lo chardonnay, l’aligoté, l’aubin vert, l’auxerrois, il bachet noir, il beaunoir, il dameron, il franc noir de la Haute-Saône, il gamay blanc, il gloriod, il gamay noir, il knipperle, il melon, il peurion, il romorantin, il roublot e il sacy. Ma in tutto ve ne sono circa 78 di figlioli del gouais, e tra questi, di cui non è nota la madre selvatica, ci sono anche il riesling, la schiava, il cabernet sauvignon, il silvaner, lo zinfandel, il syrah…
Ora le uve di Reyneri vengono interamente vinificate da Cascina Melognis di Vanina Carta e Michele Fino, e quel rarissimo vitigno della Val Maira dimora, assieme allo chasselas con parlata occitana e un tocco di bolana, nelle bottiglie etichettate “Comitis”.

Qualche anno dopo, il 1996, il disciplinare e vini.
Vent’anni fa al consolidato duetto Remigio Maero ed Enrico Casetta si affianca Ambrogio Chiotti di Costigliole Saluzzo, produttore, tra gli altri vini, del Quagliano, e, per gli aspetti tecnici, Fabrizio Rapallino della Coldiretti, che forgiano la prima doc delle colline Saluzzesi (revisionata nel 2010). Nel 2001 vede la luce il Consorzio di tutela.
Tredici aziende associate di cui otto produttrici di vini, per una doc piccolissima, che rappresentano attualmente undici aziende che coltivano, producono e commercializzano i loro vini, mentre altre quattro si limitano alla coltivazione ed al conferimento delle uve per la vinificazione.

Vediamo ora quali vini si possono produrre sotto la doc Colline Saluzzesi:
Colline Saluzzesi Pelaverga (100%)
Colline Saluzzesi Pelaverga rosato (100%)
Colline Saluzzesi Rosso. Denominazione riservata ai vini rossi ottenuti da uve provenienti da uve pelaverga, nebbiolo, barbera da soli o congiuntamente con un minimo del 60%. Possono concorrere alla produzione di detti vini altri vitigni a bacca rossa (di cui lo chatus è il più importante), non aromatici, autorizzati e raccomandati per la provincia di Cuneo fino ad un massimo del 40%.
Colline Saluzzesi Chatus DOC. Da queste parti ha preso il nome di Nebbiolo di Dronero, ma con il nebbiolo non ha alcuna parentela. Mentre li ha, e tutti, con lo chatus dell’Ardèche
Colline Saluzzesi Barbera
Colline Saluzzesi Quagliano. Il vitigno quagliano viene citato per la prima volta nei Bandi campestri della comunità di Busca nel 1721 e successivamente in quelli di Costigliole Saluzzo nel 1749. Ne parla ancora Giovanni Eandi nel 1833
Colline Saluzzesi Quagliano spumante

L’unica doc in Italia a non prevedere bianchi! Anche se, più di due secoli fa, nella “Statistica della provincia di Saluzzo” compilata dal già menzionato Giovanni Eandi nel 1833, si riporta: “Le produzioni dell’agricoltura massime nella parte piana sono abbondanti prosperano le viti in entrambi i luoghi ed è assai riputato il vino muscato bianco di Costigliole.”
Possiamo però ben aspettare perché, oggi, i viticoltori saluzzesi stanno sperimentando, alla Bicocca di Verzuolo, il Bianchetto di Saluzzo e il Rossese Bianco. Chissà.

Grappolo tardivo di pelaverga, vigna Reyneri

Grappolo tardivo di pelaverga, vigna Reyneri

La degustazione.
Occorre partire da una premessa, che poi sarebbe una considerazione ex-post, ovvero a degustazione avvenuta: avendo avuto modo di assaggiare una gamma sufficientemente rappresentativa della doc, mi sento di sottolineare alcuni aspetti che caratterizzano i vini di territorio saluzzese. Tutti i vini manifestano, nelle loro peculiarità di vitigno ed espressive, una forte caratterizzazione e tipicità. Sono facilmente riconoscibili nella loro tipologia indipendentemente dalle diversificazioni di stile e produttive che, come giusto che sia, ci sono e marcano confini e differenze tra i produttori. Si parla di vitigni, molto diversi tra loro, che albergano da secoli in un territorio collinare ai piedi del Re di Pietra, il Monviso. Sono vini sottili, mai di alta gradazione, freschi, fragranti, piccanti e che guardano, senza ammiccamenti o soggezione alcuna, ai vini d’oltralpe con cui mantengono solidi e duraturi rapporti.

Pelaverga. Il primo in assaggio è quello di Casetta (2015). Un vino che esprime, leggero e leggiadro, lampone, ribes, una leggera speziatura con ritorno amarognolo nel finale. Il secondo è il Divicaroli (2015) di Cascina Melognis: più evidenti le note di geranio e rosa che accompagnano il lampone e la ciliegia. Il pepe bianco in deliziosa evidenza. Gli altri due pelaverga sono ottenuti per salasso. Quello dei produttori di Castellar (2015) è frutto di una raccolta leggermente più tardiva: il pepe bianco risponde pienamente alla sottile pungenza al naso. Piccante e maggiormente asciugante dei primi due. L’ultimo in assaggio è quello di Maero Emidio (2013): oltre che per salasso, il pelaverga di Emidio rimane in vasca e poi in bottiglia per più di un anno. Questa sosta prolungata permette al pelaverga di evidenziare con miglior compiutezza alcune sue caratteristiche peculiari e di aggiungerne delle altre, in via di evoluzione: al garofano in piena nitidezza si sommano note di fieno e di affumicatura che rimarcano un contrasto agro-dolce di estrema piacevolezza.

Colline Saluzzesi Rosso. Si inizia con Ardy 2014 di Cascina Melognis, barbera (70%) e chatus (30%) con separazione dei beni (vinificati separatamente). Il matrimonio è di quelli che funzionano e bene. Il barbera che dona spontaneamente una corroborante freschezza si allarga, senza perdere slancio, sulle more e sulle viole. Il secondo è Pensiero 2013 dei produttori di Castellar. Le percentuali variano di un poco: 60% barbera e 40% chatus. Una viola in bellissima vivacità e una rosa leggermente appassita si legano a spezie e sapidità d’alpeggio. Del Pensiero assaggiamo anche tre annate più vecchie: la 2011 con un grandissima intensità e polpa; il 2010 evoluzione con un grande equilibrio: vira su note terziarie senza perdere la piacevolezza del frutto. Di grande eleganza il 2009. Parte chiuso, raccolto in sé. Ma poi si riprende piano piano e aggiunge note di caffè e menta alla sua distinta presenza. Il terzo è il Bricco Romani Fornero 2014. Barbera, chatus e nebbiolo in parti eguali. Il frutto netto si amalgama egregiamente sui tannini del nebbiolo. Dello stesso assaggiamo anche il 2011 di grande e ampia tessitura, con polpa in succosa e muscolare ascendenza. Il 2008, leggermente chiuso al naso, in bocca prende note caramellate e iodate in bella successione.

Chatus. In purezza il Neirantich di Tomatis 2013. Particolarissimo: usato, come avete potuto leggere, per lo più da taglio, in purezza sottolinea con ancor più forza la frutta scura e le note di viola sostenuti da tonalità erbacee.
Provana del Sabbione di Maedo Emidio. Vino che rinasce nella vigna del Castello della Manta. Vigna ripristinata da Emidio Maero di Castellar e vino che viene dedicato alla contessa Elisabetta Provana del Sabbione, proprietaria del castello donato nel 1984 al Fai. Alle annate 2014 e 2009 partecipano con grande successo barbera, nebbiolo, chatus e altre reminiscenze ampelografiche locali quali l’introvabile bibieras. La prima annata prodotta del vino, il 2008, è solo barbera. Il 2014 è stretto ed affilato come l’annata da cui proviene: il frutto si evidenzia in tutta la sua bellezza. Ma è il 2009 a stupire: grande eleganza, largo, forte di un’abbondanza che non trabocca e di tannini sapientemente amalgamati. Il 2008 è frutto di un assolo di composta maturità.
Quagliano. Vino gioviale, giovanile, esuberante, dolce con titolo alcolometrico volumico di 11% gradi totali, di cui almeno 5,5% svolti. Assaggio quelli di Bonatesta, Giordanino e Fornero. Fragola e fragoline di bosco sparate e, dunque, lampone, per poi ammiccare, nuovamente, alla viola. Fresco chiama a sé dolci e frivolezze. Luigi Veronelli, ne “I vini d’Italia”, lo definisce ‘simpatico’. E pure io.

Bibliografia.
Pierstefano Berta, Giusi Mainardi (a cura di), Accademia Italiana della Vite e del Vino, Storia regionale della vite e del vino in Italia, Piemonte, Edizione U.I.V., Milano 1997
Rinaldo Comba (a cura di), Vigne e vini nel Piemonte moderno, voll. 1, 2, Edizioni l’Arciere, Cuneo 1992
Renato Lombardo, La Biancha dla Val Maira, in lou temp nouvel, Quaderno di studi occitani alpini, 63, cartular dal soulestrèi, pp. 17 – 38
Luigi Veronelli, I vini d’Italia, Canesi editore, Roma 1961
Giovanni Eandi, Statistica della provincia di Saluzzo, Saluzzo, Domenico Lobetti-Bodoni 1833 e 1835
Le chiacchierate con i produttori, le visite ai vigneti così come la degustazione sono avvenuti in occasione del ventennale della d.o.c. “Colline Saluzzesi”, Saluzzo 2 e 3 dicembre 2016

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

5 Commenti

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Josè Pellegrini

circa 7 anni fa - Link

Una bellissima storia come tutte le "storie " di Stara.Il vignaiolo che bel personaggio: intelligente , curioso, tenace . Uomini di terra da sostenere e aiutare cercando i loro vini. . Dove trovarli? andando a Saluzzo ? Comunque sia la città merita un viaggio.

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Michele Antonio Fino

circa 7 anni fa - Link

Ciao José, certamente "on site", come dicono quelli bravi, i vini si apprezzano in maniera speciale, complice la meravigliosa città. Però ci sono piccoli fenomeni di distribuzione e tutti i produttori spediscono volentieri. Se te ne interessa qualcuno in particolare o vuoi qualche informazione in più, puoi mandare una mail a direttore del Consorzio, Silvio Barberis: silviobarberis@virgilio.it

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Josè Pellegrini

circa 7 anni fa - Link

L'identificativo dice cha ho ripetuto un commento<. non è vero!

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Luciano

circa 7 anni fa - Link

Complimenti a Pietro per questo ricco e particolareggiato racconto della rinascita della viticoltura nel Saluzzese, con l'augurio che possa tornare ai fasti del periodo del Marchesato di Saluzzo!

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giu

circa 7 anni fa - Link

Complimenti per un articolo, direi, perfetto!!! Molto bravo

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