Ristorante Magorabin, tra precisione sabauda e ritmo giamaicano

Ristorante Magorabin, tra precisione sabauda e ritmo giamaicano

di Lisa Foletti

Marcello Trentini è uno che “cerca il freddo per il letto”, usando le parole di Andrea Grignaffini. È uno che ama complicarsi la vita, insomma. E ci scherza anche su, sciorinando aneddoti, non senza qualche sassolino nella scarpa che è ben lieto di levarsi. Perché a lui le cose semplici e le scorciatoie non sono mai piaciute, e non la manda certo a dire. È un capellone “rasta” sui 45, con un trascorso da liceale artistico che gli ha lasciato in dote un certo amore per l’arte che trasferisce nella bellezza compositiva dei piatti e nello stile del locale, lineare e curatissimo, impreziosito da alcune tele contemporanee (una dipinta da lui medesimo). Il suo ristorante “Magorabin”, a Torino, ha raggiunto i 14 anni di attività, e i 5 dal conseguimento della stella Michelin. Al fianco dello chef, da sempre, c’è la moglie Simona Beltrami, sobria regina della sala e della cantina.

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Proprio dalla sala parte la mia osservazione ammirata, ché non è frequente trovare tanti dettagli giusti in un’unica esperienza enogastronomica. Quello del ristoratore è un mestiere di grande responsabilità, perché tocca una sfera assai delicata e preziosa della vita delle persone, ossia il benessere, lo svago, il tempo libero. Allora non può passare inosservata, al Magorabin, l’attenzione minuziosa ma non manierata ai gesti e alle piccole cose, dallo spostamento di una sedia alla piega di un tovagliolo, dalle fragranze nei bagni alle divise impeccabili. Un occhio esperto nota tutto, gli altri si godono la coccola percependo un diffuso senso di benessere.

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La cucina di Trentini, specialmente con il percorso di degustazione a 12 portate (cui si sommano numerose entrée e un trionfo di piccola pasticceria), riesce a mostrare senza ostentazione la sensibilità, il mestiere e la cultura del suo artefice, dove la cultura è un abito sartoriale, modellato dalle tante esperienze lavorative e di vita. Così, radici italiane si intrecciano a trame orientali, preparazioni marcatamente piemontesi incontrano ingredienti forestieri, evidenziando una propensione all’aromaticità e all’agro.

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Ricorre il coriandolo, e l’aceto nelle sue possibili declinazioni: ceviche, marinature, brodi acidulati. Irrompe la potenza evocativa e consolatoria dell’agnolotto (qui servito “al fazzoletto”, in ossequio a una tradizione antica) ripieno di 5 diversi tagli di carne, o quella del meneghino risotto giallo, ma con il graffio torinese del vermouth. Eco territoriale anche nelle “Tagliatelle al tartufo”: praline di tagliatelle frullate, ricoperte di polvere di tartufo nero; un divertissement che ha le sembianze di un tartufo e il sapore delle tagliatelle al tartufo.

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Il tratto segnatamente distintivo, dalle tinte seducenti e profilate, emerge con chiarezza in piatti come il fegato di rana pescatrice in carpione, il cavolfiore in tre consistenze con granchio poché e pompelmo abbrustolito, gli spaghetti con estratto di cime di rapa, alici e scaglie di tartufo, o la capasanta con funghi, ravanelli sottaceto, essenza di peperoncino ed estrazione di champignon. Fino ai purissimi dessert, dalla dolcezza appena suggerita, partoriti dal giovane e talentuoso pastry chef argentino, Federico Tiseyra: memorabili la panna cotta con salsa di mandorle, gelatina di lime e finocchio, e il tannico e asciugante gelato di noce, moscovado e yogurt.

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Se ci si affida a Simona per un percorso di abbinamenti, la scelta di alternare il vino a bevande diverse (miscelati, saké, infusi) si rivela vincente, perché concede distensione al palato e gioca con le sensazioni, anche quelle tattili. Aperitivo morbido e setoso con la Riserva Lunelli 2008 di Ferrari, seguito da un centratissimo American Indian ad accompagnare le interminabili entrée. Con i primi antipasti arriva la Cuvée Louise 2004 di Pommery, una scelta di finezza e burrosità, non possente, ad affiancare bocconi dalle tinte acide; solo per la capasanta viene invece servito un secchissimo saké. A seguire, un calembour odoroso con il Golden Earl Grey TWA (Singapore) ed essenza di spezie indiane, abbinato al minestrone di verdure in brodo ristretto.

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Poi si torna al vino, con un Dolcetto D’Alba Superiore 2011 di Flavio Roddolo che gioca la carta della territorialità, da gradevole comprimario, in abbinamento agli agnolotti e agli spaghetti con cime di rapa e tartufo. Insieme al risotto giallo arriva poi il Morey St. Denis 1er Cru Les Ruchot 2013 di Domaine Arlaud (prima annata certificata biodinamica), tutto improntato sul frutto, alla ricerca di un accompagnamento di classe che non si prenda la briga di battagliare col vermouth. A seguire, il caffè Indonesia/Honduras/Kenia percolato con timo e limone insieme al piccione tandoori, forse uno degli abbinamenti più felici di tutto il pasto. Chiusura dolce e delicata, data la complessità aromatica dei dessert, con il Moscato d’Asti Piasa Sanmaurizio di Forteto della Luja, servito in elegantissime coppe Perrier Jouet dal sinuoso decoro di anemoni.

Esperienza significativa, questo Magorabin. Il mio applauso, per quel che vale, va ad aggiungersi alla (mai troppo) lunga lista dei riconoscimenti e dei premi.

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Lisa Foletti

Classe 1978, ingegnere civile, teatrante, musicista e ballerina di tango, si avvicina al mondo del vino da adulta, per pura passione. Dopo il diploma da sommelier, entusiasmo e curiosità per l’enogastronomia iniziano a tirarla per il bavero della giacca, portandola ad accettare la proposta di un apprendistato al Ristorante Marconi di Sasso Marconi (BO), dove è sedotta dall’Arte del Servizio al punto tale da abbandonare il lavoro di ingegnere per dedicarsi professionalmente al vino e alla ristorazione, dapprima a Milano, poi di nuovo a Bologna, la sua città. Oggi alterna i panni di sommelier, reporter, oste e cantastorie.

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