Questa terra di frontiere – Il progetto CarsoKras

Questa terra di frontiere – Il progetto CarsoKras

di Intravino

Questa è da sempre una terra di frontiere. Se riflettiamo su cosa significhi frontiera, o confine, il pensiero corre innanzitutto all’idea di mobilità, di movimento continuo tra identità e alterità: superare un confine è in primo luogo perdere parte della coscienza di sé e del proprio quadro di riferimento, prendere atto dell’esistenza dell’altro; significa anche esplorarlo, produrre informazioni originali, nuovi significati per noi e per chi fino a ieri era al di là. Nel nostro caso particolare, vuol dire anche porsi nella felice condizione che corrisponde a una doppia sete ideale, quella di saperi e di sapori.

I confini sono linee mobili, cerniere e non rigidi fines. Se, come insegna Erich Auerbach, tutti riceviamo il dono di una lingua, una cultura e una nazione, «… solo separandosene e superandole queste divengono efficaci». Visitare oggi queste terre e ripensare ai confini sanciti dall’ultimo conflitto mondiale, bloccati da ideologie e rancori, è spiazzante: più che al Dopoguerra, la memoria dei contemporanei potrebbe facilmente correre all’epoca in cui scrittori, artisti e intellettuali potevano riconoscersi nelle parole di Scipio Slataper che sosteneva di sentirsi italiano, slavo e attratto dalla cultura tedesca. I confini di oggi sono ideali, non idealizzati da opposte fazioni in primati posticci. La frontiera non è più sulla terra, bensì soprattutto in cielo, aerea e rarefatta: una frontiera immensamente luminosa, prossima all’idea di spazio e lontana da quella di demarcazione, fatta della luce unica, irripetibile di queste zone. Questa terra senza più confini si offre ai sensi in una multiforme e originale bellezza. Di questa bellezza, già un secolo fa, Slataper si inebriava così:

Allargavo smisuratamente le braccia per possedere tutta la terra, e la fendevo con lo sterno per coniugarmi a lei e rotare con la sua enorme voluta nel cielo-fermo, come una montagna radicata dentro al suo cuore da un’ossatura di pietra, come un pianoro vigilante solo nell’arsura agostana, e una valle assopita caldamente nel suo seno, una collina corsa dal succhio d’infinite radici profondissime, sgorganti alla sommità in mille fiori irrequieti e folli.

Le infinite radici profondissime, i mille fiori irrequieti e folli rendono l’essenza di una varietà profonda: bora e foiba, nuclei plurimillenari e distese senza quasi traccia umana, verdi di bosco o bianche di calcare. L’essenza vive nei diroccati castellieri, antichi insediamenti fortificati dell’età del Bronzo, espugnati e poi riedificati dagli Istri, i primi indoeuropei; o dai Carni, di stirpe celtica; o dai Paleoveneti, ai quali si dovrebbe il nome antico di Trieste.

L’essenza è nelle tracce del passaggio di popoli ed eserciti verso le ricche pianure, per primi i Celti che qui portarono la vite, avendone appreso la coltivazione dagli Etruschi; e dopo di loro i Romani fondatori di Aquileia, capitale della X Regio Venetia et Histria, emporio commerciale di straordinaria importanza, nonché centro di irradiamento della vitivinicoltura. Dei vini del suo comprensorio trattarono tra gli altri Plinio Seniore, che classificò i vina generosa dell’antichità e vi ricomprese il Pucinum, che «… nasce là dove l’Adriatico s’ insena non lungi dalle sorgenti del Timavo su d’un colle sassoso dove all’aura marina se ne matura tanto che basta per poche anfore…»; ed Erodiano, con le sue immagini idilliache di civiltà agreste: «… Disposti sono gli alberi ad eguali distanze, ed accoppiate sono le loro viti, formando un quadro giulivo tanto da sembrare quelle terre adorne di corone frondeggianti… ».

L’essenza è nel limes che i Romani segnarono sotto la spinta dei popoli d’Oriente: per queste terre correva la Via dell’Ambra, che alla Màinizza piegava in direzione della fortezza legionaria di Aemona Iulia, cioè Lubiana, attraversando l’Isonzo sull’imponente Pons Sontii e imboccando la valle del Frigidus, cioè il Vipacco/Vipava. L’intero percorso era inizialmente munito di presidi militari, quindi fu fortificato ed integrato sotto Diocleziano nei Claustra Alpium Iuliarum, il sistema di difesa dei passi alpini orientali. La resistenza di questa poderosa linea si esaurì nel corso di due secoli: proprio qui, dove le Alpi si addolciscono al cospetto del mare, si aprirono definitivamente le porte per l’invasione che, da un lato, pose fine all’Impero d’Occidente e, dall’altro, avvinse i nuovi vincitori al sostrato di culture materiali e immateriali, come nell’immagine antica ed emblematica che Paolo Diacono ritrae nell’Historia Langobardorum: quella di Alboino che, ammirando lo splendore della pianura friulana dalla sommità di un monte – forse Monte Re-Kraljevska Špica, oppure il Monte Nanos, l’altopiano della Bora – si riconosce re di quella terra.

L’essenza, ancora, è nel perpetuarsi della vocazione agricola e vitivinicola, grazie anche alle prime migrazioni di Slavi: incalzati da Longobardi e Avari, essi ripararono in queste zone durante tutto il periodo del Regno Longobardo e poi del Regnum Italiae, inaugurato da Carlo Magno e successivamente retto da Pipino, Ludovico I, Lotario I. Nel 788 i Franchi conquistarono Trieste e chiamarono le popolazioni slave, ormai cristianizzate, a occupare le zone spopolate dell’Istria settentrionale fino al limite della città. Gli Slavi scelsero zone a più bassa antropizzazione quali quelle montane, le valli minori e l’agro abbandonato. La loro presenza fu per questo motivo fondamentale nella ricostituzione del tessuto sociale, economico e culturale delle pianure friulana e veneta, devastate da orde successive di invasori. Da questi primi insediamenti, infatti, scaturì l’essenza di un rapporto prezioso ma spesso fragile, più volte minacciato o negato dai raggiri amnesici dei nazionalismi, eppure tanto connaturato da non recidersi mai veramente, quasi la terra sapesse custodirlo in profondità mentre in superficie scompariva: un rapporto carsico, se volete, nel senso più proprio.

L’essenza, infine, è anche nella città che da sempre guarda all’altopiano e a Oriente come retroterra finitimo, e che in passato soleva guardare a Vienna come a quello supremo. Insidiata dal Patriarcato di Aquileia, dai Conti di Gorizia e soprattutto da Venezia durante il dominio vescovile, come libero comune Trieste venne occupata dalla Serenissima dal 1369 al 1380. Così, quando nel 1382 si prefigurò una seconda occupazione, la città si pose per libera elezione sotto la custodia del Duca d’Austria e conservò le libertà civiche. Già in quell’epoca Trieste era l’enopolio dei vini del comprensorio, tutelata da misure protezionistiche che penalizzavano la vendita dei prodotti stranieri e incoraggiavano l’esportazione, a sua volta favorita dalla sovrapproduzione. Questo ruolo fu riconfermato con l’istituzione, nel 1719, a opera di Carlo VI d’Austria, del porto franco, che non penalizzava consumo e commercio delle produzioni locali. A seguire, con Maria Teresa regnante, la città inaugurò il lungo periodo di sviluppo che richiamò migliaia di nuovi residenti, in gran parte dal bacino adriatico e in misura minore da Austria, Ungheria e Balcani: il flusso migratorio più consistente fu quello degli sloveni, già largamente maggioritari nel contado e sempre più presenti anche in città, specie a partire dal 1861. L’espansione ottocentesca di Trieste vide le sue tappe simboliche nell’apertura della linea ferroviaria con Vienna, nell’elevazione a capoluogo del Litorale Adriatico e nel rango di quarta città dell’Impero per popolazione residente: era la città del Lloyd e della Compagnia di Assicurazioni Generali, dei grandi investimenti in infrastrutture di trasporto e logistiche, dell’epoca aurea di una città-ponte tra Italia, entroterra Mitteleuropeo e Balcani, sostrato per la borghesia e per quel suo male di vivere dal quale scaturirono capolavori come l’Ulysses, La Coscienza di Zeno, Una vita. L’essenza di quel tempo riluce anche in queste opere, o in luoghi come quelli descritti da un altro nume tutelare dello spirito triestino, Carolus L. Cergoly:

I caffè triestini. I cari i teneri intimi caldi riposanti silenziosi caffè triestini.

Non raggiungevano la perfezione dei caffè viennesi ma potevano dirsi tranquillamente i primi cugini dei caffè viennesi.

Però c’è una differenza tra l’aria interna dei caffè viennesi e l’aria interna dei caffè triestini.

Certi odori sono comuni ma un odore da monopolio distingue l’aria del caffè triestino da quello viennese.

A Vienna odore d’acqua dolce odore di bel Danubio blu ma a Trieste tutti i caffè odorano d’acqua di mare salsa di alghe e di onde coccolate dai refoli della Bora.

Poi ci sono gli odori del tabacco.

Le sigarette che odorano Memphis e Le Favorite i sigari che profumano Coronas Rositas Virginia e Regalitas i tabacchi da pipa (i Pfeifentabake) con i loro fumi al Caballero e al Derby fanno molto atmosfera caffetteria emporiale.

Poi ci sono gli odori d’inchiostro tipografico.

I giornali per comodità dei lettori tutti su stecche poggiapagine di bambù.

Quando il lettore volta pagina la pagina sembra una vela di paranza tutta ricca di brezze marine.

Quando il lettore volta pagina la pagina sembra nella intimità silenziosa del caffè una bandiera spiegata in campo pacifico.

I camerieri in frac sono dei gentiluomini in ectoplasma e sembrano usciti dalla bella e carnosa bocca di Florence Cook e dopo finito il servizio tutti a braccetto della bella e giovane Katie King che come ectoplasma garbato si lasciò anche fotografare.

L’essenza di quel tempo è Mitteleuropa, una cultura e un destino; ma è anche emanazione di un ordine superiore, superessenza diffusa e intimamente fragile: è il miracolo di un impero assorto nel sogno di se stesso, incurante dei segnali della finis Austriae che gli spiriti più disincantati avevano già preconizzato. È l’Austriaco di K. Kraus, che «… ha il senso che nulla può accadergli proprio per il fatto che la sua coscienza di esser nato su un conto che sta per essere estinto lo mette al riparo dalle sorprese.»

Dietro la forma peculiare che è Trieste ve n’è immediatamente un’altra, dotata di un’essenza sua propria e irriducibile: è la fascia sottile del retroterra circonvicino, il contado abitato soprattutto da sloveni: luogo e comunità fanno vivace e naturale contrasto al capoluogo, idealizzato da molti quale esempio di sovranazionalità ma al contempo attraversato spesso da tensioni interetniche. Al cosmopolitismo identitario di Trieste, minato già dall’inclinazione austro-slavista e dall’immobilismo centralista-burocratico degli ultimi decenni d’impero, nuocciono i contrapposti interessi nazionalistici. L’essenza del Secolo Breve irrompe e si manifesta nella duplice lacerazione delle guerre, due in trent’anni, duplice firma a sangue su una terra contesa e dilaniata. La Prima è un dramma che termina per la parte italiana in vittoria e rivalsa, presto degenerato nel fascismo, movimento dichiaratamente anti-slavo, informato alla repressione e all’assimilazione coatta delle minoranze. Le ripercussioni del ventennio sui rapporti interetnici saranno gravissime e si manifesteranno compiutamente nella Seconda Guerra, con le violenze squadriste, l’occupazione nazista, la Risiera di San Sabba, Villa Triste, i bombardamenti e, verso la fine, le violenze d’impeto uguale e contrario, le foibe, l’esodo giuliano-dalmata, Porzus, Trieste jugoslava, la Linea Morgan col compendio di Territorio Libero, caduti di Piazza Unità, Memorandum di Londra e Trattato di Osimo. È l’essenza di Trieste sventuratissima posta – così Salvatore Satta – del gioco fra le grandi potenze e della Venezia Giulia che paga per tutta l’Italia.

Ma questa era l’essenza di ieri. Quella di oggi è, fortunatamente, più attenta alle lezioni di bellezza e senso della storia, ha una prospettiva sui confini più giovane, colta e progressiva, lontana dai proclami dei nazionalisti poveri e diseredati ai quali, così Enzo Bettiza, «… non rimane che l’esasperazione a vuoto dei propri sentimenti, non rimane che la nevrastenia». Una prospettiva sui confini che è slancio e invito a trascenderli. Confini come volumi, luoghi di nuovi significati:

La linea unidimensionale è un ostacolo posto per evitare il contatto, l’area bidimensionale subisce il contatto, ma interpone tra sé e l’altro uno spazio vuoto. Vivere per davvero il confine significa trasformarlo in volume, dove il movimento rotatorio si configura come luogo di ininterrotta produzione di significato.

E di bellezza. Multiforme e originale, si è detto all’inizio. Qui, per chiudere, celebriamone una delle forme a noi più consuete: la viticoltura. La vite è coessenziale a questa terra di frontiere, è coltura/cultura storicamente radicata, conferisce al luogo la sua impronta. Qui il vino è più e meglio che memoria storica e rievocazione: è registro culturale e sensoriale, custodia e rielaborazione di un significato antico che, ogni anno, si rinnova in qualcosa di completamente originale. Per questo, comprendere la terra di frontiere implica anche conoscerne il vino e le persone che ne custodiscono e rielaborano, ogni anno, il significato.    

[Post sponsorizzato. Le attività di pubblicazione fanno parte di un progetto della rete CARSO-KRAS per la valorizzazione dei vini autoctoni ad Indicazione Geografica Tipica Vitovska, Malvasia, Refosco e Terrano, finanziato dalla misura 3.2.1 del PSR 2014-2020 della Regione Friuli Venezia Giulia.]

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1 Commento

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Andrea

circa 2 anni fa - Link

Mi soffermo solo sulle ultime righe. Trattasi di progetto della regione F. Venezia Giulia per la valorizzazione dei vigneti autoctoni ad INDICAZIONE GEOGRAFICA TIPICA etc... Bene, si prende atto che la DOP Carso nella sostanza non esiste più, che nei fatti è realtà: la maggior parte delle migliori bottiglie e la ma ggior parte delle bottiglie tout court esce già a IGP. Da qui la domanda che vale per molti altri territori italiani: cosa vale la denominazione di origine protetta, che tanto ci ostiniamo a difendere nelle sedi più varie se non rappresenta più l' eccellenza del territorio e neppure il territorio?

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