Perdonate se ho il whisky facile (ma solo al Milano Whisky Festival 2016)

Perdonate se ho il whisky facile (ma solo al Milano Whisky Festival 2016)

di Thomas Pennazzi

Come d’autunno cadono le foglie, così puntualmente accadono i festival alcolici. Il Milano Whisky Festival è, tra questi, la più blasonata e partecipata delle rassegne novembrine per ubriaconi che vogliano darsi un tono.

Da anni ospitato ormai nelle capaci sale dell’Hotel Marriott, questo festival a tema scozzese e dintorni è capace di attirare un vero concorso di folla: nei due giorni della manifestazione qualcosa di prossimo alle 5.000 persone, e (quasi) tutte innamorate del biondo spirito gaelico. A pensarci sembra incredibile.

Gli espositori, divisi tra importatori ufficiali ed indipendenti, ben oltre la trentina di stand, costituiscono la crème dell’offerta di whisky in Italia, e hanno proposto in assaggio migliaia di diversi imbottigliamenti: c’è da perdersi nell’indecisione, anche solo davanti ad un unico banchetto, pur avendo un fegato allenato e borsa piena. Ma se la qualità media delle bottiglie era elevata, lo era anche quella dei partecipanti, abilissimi a destreggiarsi tra Highlands e isole, torbati, malti singoli, glens, lochs, ed etichette dai nomi impronunciabili perfino per un anglofono nativo.

Il whisky è giovane: rari gli ubriaconi, tanti invece i ragazzi appassionati alla ricerca della bottiglia perfetta, da bravi malt maniacs. Tra i banchi giravano domande, curiosità, e voglia di assaggi per capire ed approfondire aziende e tipologie. IL MWF è difatti una biblioteca aperta, irripetibile occasione annuale per ampliare le proprie conoscenze. Ci fosse una manifestazione così in anche solo in ottavo, che ne so, a Verona, per la grappa, avremmo affluenza da mezza Europa. Pensarci, no?

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Per i malti non faccio le capriole, dichiararlo ancora serve solo per i distratti, ma non sono prevenuto: assaggio con mente sgombra, poi dico la mia, tra qualche ingenuità e talora un pensiero sensato.

Come viatico per iniziare la navigazione nel mare alcolico caledone, il sempre gentile Federico di Beija-Flor mi ha evitata la lunghissima fila delle sue bottiglie, puntando il dito verso un cofanetto appartato. Era il caso di fidarsi. Versato nel bicchiere, quel whisky mi ha offerto una ricchezza floreale oltremodo elegante, ed un naso che cantava allegro e melodioso, in continua evoluzione. Più giovanile al palato di quanto facessero presumere l’etichetta e la lunga permanenza in legno, si tratta di un bicchiere dall’equilibrio oltre il felice: superbo. C’è dietro un cellar master di gran mano, senza dubbio. Per pudore non ho voluto chiederne il prezzo, certo di aver avuto tra le dita una bevuta per pochi. Si trattava di un Highland Park 30yo, distilleria delle isole Orcadi.

Tante chiacchiere dopo, mi son trovato al banco di Kavalan ad ascoltare il giovane, ma navigato ed entusiasta Marco, brand manager di Velier, che spiegava al popolo le caratteristiche di questa distilleria taiwanese. Indubbiamente l’Oriente affascina, ma poi ti domandi perché facciano whisky, con tutta la tradizione alcolica millenaria cinese alle spalle che hanno. La particolarità climatica di Formosa, calda e umida che la pianura padana ad agosto non è nulla al confronto, accelera brutalmente l’invecchiamento, così che pochi anni qui valgono parecchi di quelli scozzesi. Il whisky perde rapidamente volume e si concentra. Assaggiando il loro imbottigliamento Single Malt entry-level, il naso ti esplode come colpito da una granata a frammentazione. Il fruttato risale il bicchiere a grappoli: aromi dolci e tropicali (non c’è un altro descrittore) invadono le narici. La bocca non è così appagata, e ci può stare; lo diresti un whisky facile per ragazzi, da cocktail. Il loro Solist ex-sherry invece, un cask strength, è roba seria. Lo guardi, lo annusi, e il pensiero fantastica di una qualche entità mutante, un’inquietante chimera tra un amontillado VORS e un rum Demerara forse? La concentrazione in botte e l’azione della botte stessa annichiliscono qualunque idea di whisky. In bocca l’acquavite, densa, glicerica, ricca allo spasimo, ha estratto tutto, ma proprio tutto il carattere vinoso del contenitore. È un esempio didattico di quanto il clima influisca drammaticamente sulla maturazione di un distillato, e di come le botti di vino possano trasformare pericolosamente i malti, e financo snaturarli.

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Bello rivedere tante persone conosciute, e poterle salutare: Julia Pedross, brand ambassador di Puni, la si incontra sempre con piacere, come i suoi whisky, del resto. Tenete d’occhio questa promettente distilleria sudtirolese, che saprà regalarci belle cose entro pochi anni.

Di fianco al suo stand c’era un mostro sacro del whisky mondiale, Sua Magnificenza il Maestro Giorgio d’Ambrosio, con il suo team. E proprio meraviglie ci offriva, una batteria di whisky d’antiquariato da sogno: ancora più meraviglioso il poterli degustare. Quale migliore occasione per farsi un’idea di cosa poteva essere il whisky quando in Scozia si pensava sì a fare soldi, ma con un occhio alla tradizione? Oggi è tutto cambiato, sempre più industria, e ancora più standardizzazione, anche nei sapori. La bottiglia che ho assaggiato viene da una selezione dello stesso d’Ambrosio, un Bruichladdich 17yo, distillato quando i juke-box suonavano i 45 giri dei Beatles e di Bob Dylan, e arrivato con un timing perfetto negli anni della Milano da bere. Bene, questo memorabile assaggio, dal naso pieno ma inizialmente timido, dieci minuti dopo è sbocciato in un malto grasso, fruttato di mele golden e di certe golose prugnette dette meschine, ma solo in aspetto. Aromi stratificati, abbondanti, generosi. Avete presente una cornucopia? Ecco. Al palato non poteva essere diversamente: oleoso, opulento, eppure fresco e leggiadro insieme. I malti vecchi, nulla da fare, partecipano di una dimensione in più, oggi scomparsa. Bevuta irripetibile, per la quale ringrazio Paolo Tagliabue, mio sapiente consigliere.

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Altri assaggi si perdono tra i mille stimoli del festival, ma in fin di fiera, qualcosa ancora si merita qualche parola. Capito davanti ad uno stand dove un’espositrice mi saluta, essendoci incontrati poco tempo prima ad una degustazione pre-festival. Sono un pessimo fisionomista, ma cerco di evitare la gaffe, ricambiando il saluto pur non ricordando, lo confesso. La signora mi parla dei suoi whisky e mi vuole gentilmente offrire qualcosa, mentre mi trovo sprovvisto del bicchiere, lasciato su qualche altro banco. Rimedio, torno, e trovo ancora due belle sorprese. Qui siamo da Wilson & Morgan, e la cortesia di Marina del Puppo mi fa trovare nel calice uno dopo l’altro due Bunnahabhain 25yo maturati in sherry, ma con caratteri differenti, per essere stati in botti diverse. Due vivaci personalità, dal naso intenso e dal palato muscoloso, indubitabilmente mascoline e nobili. Anche nel whisky ci sono distillati “dal petto villoso”.

La giornata è stata interessante, faticosa, ricca di stimoli, e pure di buoni bicchieri, ma alla fine ne scrivo sorseggiando un vecchio cognac. Sono incorreggibile, lo so, però se siete arrivati a leggere fin qui, forse, mi vorrete perdonare.

[Foto: Milano Whisky Festival]

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto fatica a ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito (il cognac), e per qualche anno ne ha scritto in rete sotto pseudonimo.

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