Paolo Marchionni e il difficile mestiere di non essere guru

Paolo Marchionni e il difficile mestiere di non essere guru

di Tommaso Ciuffoletti

Meglio guru che paraguru, dice il saggio, ma l’unica domanda a cui Paolo non ha risposto fra le tante che gli ho fatto in una serata di chiacchiere e vino è proprio questa: “Come mai non sei diventato un guru?”. Domanda all’apparenza maliziosa, ma dovuta alle parole che proprio qui su Intravino gli ha dedicato Alessandro Morichetti in un pezzo su “I produttori di cui mi fiderei alla cieca“. Queste le parole: “Paolo – pur avendoci bevuto insieme un paio di volte e non di più – è un prototipo di produttore di cui tenderei a fidarmi. Non tanto perché si è laureato in Filosofia Teoretica-Gnoseologica con una tesi dal titolo “La qualità nella filosofia della mente. Analisi di un caso: il sistema gusto-olfattivo”, quanto perché è un ragazzo con la faccia a modino, che non sbraita né sbraccia, che parla quando serve e che, insomma, ispira positività”.

Paolo è Paolo Marchionni, classe ’77, produttore di vino (ed olio) a Vigliano, nel comune di Scandicci, alle porte di Firenze. La sua è una vicenda, personale e familiare, che ha attraversato i decenni cruciali della storia moderna del vino toscano e italiano. Cominciata con una consulenza amichevole che Giacomo Tachis fece a suo padre per l’impianto delle prime vigne, è proseguita con la ricerca di una strada personale che si è intrecciata a tante esperienze diverse – perché Paolo è uno che ha seminato tanto, non solo per sé – e che oggi ne fa uno dei protagonisti più credibili di un modo di fare, raccontare e interpretare il vino che se non fosse termine consunto, diremmo “alternativo”. Biologico, corretto, discreto nel senso etimologico, che si riferisce a coloro che hanno capacità di discernimento.

E se anche voi ne siete dotati, valutate ora se proseguire la lettura, perché qua non siamo a dare giudizi, punteggi o recensire vini usando parole strane. Ma a raccontare storie. Prendendo tutto il tempo che queste richiederanno. Anche perché Paolo me lo ricordo sempre con la solita faccia, forse sì, “a modino”, ma anche con delle treccine di stoffa nei capelli ai tempi del liceo classico. Abbiamo pochi anni di differenza e abbiamo entrambi frequentato negli anni ’90 il liceo Galileo di Firenze. Nei miei ricordi dell’epoca, Paolo aveva già una certa aura di fascino (a parte le treccine), ma accompagnata ad un modo schivo che sì, ispirava fiducia.

E poi per me era inevitabilmente il figlio di un padre importante. Perché la prima persona che ho incontrato quando sono venuto al mondo, un 24 novembre 1979 alle ore 15,30, è stato proprio il babbo di Paolo, illustre medico e ginecologo.

Il filo dell’eredità
“Mio babbo si trasferì in campagna, a Vigliano, alla fine degli anni ’70, con l’idea di mantenere un legame con la tradizione contadina di famiglia e staccare almeno ogni tanto dall’ospedale. A quei tempi il mondo dell’università era fatto anche di legami conviviali che andavano oltre le storie professionali e fu lì che parlando del più e del meno, lui, che era poco più che un ragazzo, ebbe l’occasione di chiedere qualche consiglio a Giacomo Tachis. E Tachis, che proprio in quegli anni stava creando il Castello della Sala [la cantina di vinificazione a Castello della Sala risale al 1977, ndr] gli suggerì subito di mettere dello chardonnay”.

C’era la vigna, sì, ma anche l’eredità del medico che sembrava avviare Paolo verso una carriera segnata. “Ci sono andato vicino così, ma finito il liceo andammo a cena io e mio babbo e gli confessai anche che avevo una grande passione per il vino e per la cucina”. “La cucina a cui mi riferivo era quella che frequentavo a San Marcello Pistoiese, a casa dei genitori di mia madre, famiglia di boscaioli appassionati di politica, anarchici e comunisti, che nei pranzi della domenica imbastivano discussioni meravigliose e senza fine. C’era mio babbo che tornava da un convegno in Russia e gli zii pronti e fieri di sentire di chissà quali meraviglie e lui che invece gli raccontava che per strada gli chiedevano i dollari. E allora giù che gli davano di democristiano! E lui che rincarava raccontandogli delle morti per fame in Cina e loro a dargli di borghese e così via. Io, che ero bambino, vivevo quasi con tensione quelle gran discussioni, salvo poi vedere che tutto si risolveva in una risata e nuovi bicchieri di vino. Ecco, era quello che mi affascinava”.

Il filo dell’eredità che Paolo scelse per sé non fu, quindi, quella del padre illustre medico, ma quella del padre appassionato del vino, della tavola e del convivio.

Il vino
Della cucina si è detto, ma il vino? “Non era il vino delle etichette. Certo era sempre in tavola, ma non s’aveva a casa il culto dell’etichetta”. Ok, ma avevate questa vigna consigliata da Tachis. “Sì, ma non per questo ci eravamo messi a nutrire ambizioni. In realtà noi si faceva la vendemmia il sabato e la domenica coi parenti e con gli amici e poi un gran pranzo, questo era per me bambino “fare il vino”. Quello che devi capire è che tutto nasce dalla voglia di mio babbo di riportare a Vigliano una vita contadina, che se ci pensi era il più grande dei lussi per uno che lavorava in città a ritmi serrati e che aveva quello spirito di cui ti ho detto prima”.

“Quella vigna di cui dicevamo risale al 1981. Col senno di poi io forse non l’avrei messa, ma fa parte della nostra piccola storia e così quando abbiamo rifatto gli impianti nel 2002… beh, abbiamo rimesso mezzo ettaro di chardonnay, che va nel nostro bianco base, nel quale da 4 anni metto anche il trebbiano”.

“Negli anni immediatamente successivi s’aggiungono altre vigne, ma non cambia la nostra storia col vino. Anche perché mio babbo voleva costruire una cantina in regola e chiese i permessi praticamente subito, vuoi provare a indovinare quando li ebbe?”. Sparo alto: “10 anni dopo”. “Li ebbe nel 1993, per costruire 120mq di cantina”.

“Iniziò allora la storia di un vino fatto a Vigliano, che aveva un’etichetta e che si poteva vendere. Per vendere intendo al giro di conoscenti e amici, poco altro, ma fu lo stesso un momento decisivo. Era un vino che stava in una fascia potremmo dire “hobbistica”, ma veniva venduto e il nostro nome usciva di casa, portato in giro da una bottiglia e da un’etichetta. Del resto a inizio anni ’90 il mondo del vino in Italia era nettamente diviso tra quelli che facevano vini riconosciuti, con marchi che si andavano affermando, investimenti , enologi di richiamo e … tutti gli altri relegati ad una vicenda che davvero s’inquadrava poco più che nella sfera dell’hobby. E noi più di lì non potevamo davvero andare”.

Vigliano
A cambiare il destino di quella che poi è diventata azienda a tutti gli effetti è stato il fratello di Paolo, Lorenzo Marchionni, classe 1973, un carattere forte, deciso ed una visione di ciò che poteva essere. “Fu lui ad imporsi con l’idea di fare le cose ad un livello superiore e, sempre attraverso Tachis, individuò Andrea Paoletti come la figura a cui rivolgersi per l’impianto di nuove vigne. Paoletti, all’epoca appena quarantenne, aveva da poco finito di lavorare alla costruzione della tenuta di Santa Cristina e si era messo in proprio come consulente. Insieme a lui, mio fratello realizzò quella che fu proprio una rottura generazionale e di visione di ciò che poteva essere Vigliano”.

“Il primo anno di produzione fu nel 1997. Uscimmo con un blend di sangiovese e cabernet sauvignon: etichetta Vigna dell’Erta. Vinificammo nella nuova cantina, invecchiammo in tonneaux e se c’è una cosa che posso testimoniare con piacere fu che Paoletti non ci disse mai di aggiungere un lievito o mettere in atto – che fosse vigna o cantina – qualcosa che non fosse più che corretto. E lo dico ora a posteriori, sapendo che se all’epoca lui ci avesse detto di metterci dentro qualunque cosa, noi lo avremmo fatto. Non ce lo disse mai ed è un merito che è giusto riconoscergli. E sempre oggi posso dire che una conduzione attenta alla salute della vigna, del vino e di chi lo avrebbe bevuto fu inevitabilmente figlia anche della meticolosità da medico di mio padre”.

Quel Vigna dell’Erta uscì in 3.500 bottiglie nel 1999. “Fax, ordini, Veronelli, Gambero Rosso, agenti, assegnazioni… insomma, tutto quello che era il vino inteso come business ci venne addosso, ma anche se fu un trambusto di cui coglievo solo in parte il senso, fu un bel momento che durò anche negli anni successivi. Un momento che rimane molto legato a quel periodo, anche nel packaging stesso del vino che era molto anni ‘90, ma fu molto, molto bello”.

Altre strade
Eppure i fili di questa storia sembrano perdersi proprio allora, quando per Paolo ci fu l’università (facoltà di Filosofia), un viaggio in California, un business improvvisato con un bed & breakfast, un master in management delle imprese vitivinicole, ma anche un conflitto latente col fratello maggiore, che stava guidando l’azienda con dedizione, polso fermo ed un carattere diverso da quello di Paolo. A riprendere la tessitura con il mondo del vino ci fu l’incontro con Giovanni Ascione – “un maestro assoluto” – durante uno stage successivo proprio a quel master sulle imprese vinicole. Per chi non lo conoscesse, Giovanni Ascione può essere brevemente raccontato da queste parole di Luciano Pignataro: “È stato prima a lungo manager di azienda, poi a cominciare dalla fine degli anni ’90 si è dato anima e corpo all’enologia e alla gastronomia, prima da ristoratore (Le volte di  Annibale e Bacco a Caiazzo) poi da scrittore, consulente e degustatore di eccellenza, con una visione laica e umanistica del vino, infine dal 2008 come produttore di rosso realizzato con pallagrello, aglianico e casavecchia”. Oggi la sua azienda, Nanni Copè, ha purtroppo annunciato la chiusura ed è notizia di poco tempo fa.

Occorre però adesso fare un salto indietro nel tempo, ad una maledetta notte del 1993, che scosse non solo l’Italia ma il mondo intero: l’attentato di via dei Georgofili a Firenze. Per un fiorentino che l’ha vissuta, quella notte fra il 26 e il 27 maggio rappresenta uno spartiacque, c’è un prima e un dopo quella bomba, quelle morti, quei feriti, quelle storie. Fu uno spartiacque anche per Paolo, che da quel momento iniziò a seguire le attività di Libera con attenzione e passione. Tanto che nel 2004, senza un preciso perché (se non quello che le vicende s’incaricano di spiegare nel tempo), scrisse a Gianluca Faraone, presidente della Cooperativa Placido Rizzotto. Ne seguì un invito in Sicilia che Paolo accettò e da lì, solo apparentemente figlia di un caso, iniziò un’amicizia e una collaborazione umana prima che professionale. Una collaborazione che proprio per il tramite di Paolo coinvolse anche Giovanni Ascione e che, credo di poter scrivere, contribuì alla creazione di quell’azienda eccezionale che è Centopassi. Un intreccio di storie che confondono fili e trame in apparenza, ma che in realtà tracciano un disegno che si svela nel tempo e con la necessaria distanza.

Il ritorno a casa
Carico di nuove esperienze – compresa quella con Alce Nero per sviluppare la distribuzione GDO per i vini di Libera Terra – Paolo è adesso pronto per tornare a casa o, per meglio dire, per fare di Vigliano la propria casa per il futuro. Del resto c’erano stati il matrimonio con Novella nel 2006 e negli anni immediatamente successivi la nascita di due figli. Ma intanto l’azienda stava collassando. Il fratello di Paolo, Lorenzo, riusciva a seguirla sempre meno, assorbito da un’attività personale che gli prendeva sempre più tempo, e le difficoltà si accumulavano insieme ai ritardi e si andavano verificando anche le prime vere crisi. “Ricordo che noi avevamo un importatore californiano che ci ordinava regolarmente 4-5000 bottiglie l’anno e che un bel giorno ci disse che chiudeva la collaborazione. In poche parole l’onda lunga che era partita dalla fine degli anni ’90 si esaurì in quella seconda metà del primo decennio dei 2000”.

“Sì, l’azienda stava andando male ed io decisi di dedicarmici totalmente nel 2009. Con un’angoscia pazzesca, ma con una grinta che sorprese anche me. Avevo fatto esperienza, mi ero innamorato davvero di questo mondo ed ero pronto a fare ogni sacrificio necessario. Per anni non mi sono messo in tasca una lira, ricordo le mille questioni con le banche che mi toglievano il sonno e per quanto sapessi di avere alle spalle una famiglia che poteva aiutarmi, per me quello fu ripartire da zero. E ripartire da zero è stata la sfida che mi ha permesso di affrontare tutto senza risparmiarmi”.

Muoversi verso di sé
In fondo non è vero che Paolo non ha risposto alla mia domanda sull’essere guru, perché in realtà, riascoltando la registrazione delle nostre chiacchiere trovo il punto della questione, il capo della storia che si è dipanata fin qui attraverso tutti questi anni. È il punto a cui si giunge venendo da lontano e guardando ancora oltre ed è esattamente il punto dell’unico equilibrio possibile: muoversi verso di sé.

“Vedi la vendemmia è una volta l’anno, io ad oggi ne ho fatte 11. La mia prima vendemmia è del 2009 e sapevo, mentre la facevo, che i risultati li avrei sentiti nel 2011. Così come quando decisi di cambiare packaging, in realtà stavo ancora vendendo bottiglie con vecchie etichette e le nuove sarebbero arrivate solo nei mesi successivi. Ancor di più quando decisi che non mi riconoscevo più nei vitigni internazionali e che intendevo cambiare lo stile dei vini di Vigliano”. Lo ascolto fermarsi nella registrazione. “Io sapevo chi ero, sapevo cosa volevo, dovevo solo arrivarci”. I tempi, le decisioni, la visione.

“Il cambio nello stile dei vini è venuto fuori passo dopo passo, fra prove, dubbi, domande, macerazioni che si sono fatte più lunghe e magari a volte troppo a volte non abbastanza, ma sempre avendo chiara la direzione: tirar fuori una maggiore espressività del Sangiovese. Tim Manning – agronomo ed enologo inglese, con esperienze in Nuova Zelanda, Oregon e in varie realtà toscane, tra cui vale la pena menzionare il lavoro con Sean O’Callaghan – è una persona che ama stare dietro le quinte, ma che ha avuto un ruolo importante nel compiere questo percorso. Oggi credo che i vini di Vigliano rappresentino bene il lavoro e l’intenzione che c’è dietro”.

Hai fatto un cambio, ma forse è più corretto dire che l’hai costruito, dandogli infine un corpo ed un’anima quasi classica. “Credo che altri, al posto mio, avrebbero… non so… fatto l’etichetta funky, scritto storie pazzesche, spinto sui toni di un bio da sbandierare. Io forse non ce l’ho di carattere, ma credo che siano state anche le esperienze fatte ad avermelo insegnato… insomma, quando ho deciso di guardare a ciò che volevo che fosse, ho lasciato che ogni decisione prendesse forma coi suoi tempi”.

E non fermarsi
Non so se questo significa essere guru o il suo contrario. So che questa storia si chiude nell’unico modo possibile, con un’azienda che attraverso quelle 11 vendemmie dal 2009 ad oggi diventa la Vigliano di Paolo. Due rossi 100% Sangiovese –  l’Erta e Rossovigliano – un Trebbiano macerato e un rosato di Sangiovese. 4 vini ed uno stile fatto di discrezione, pazienza, visione, in una terra che è stata vocata ed ha risposto, che non è famosa, ma riesce costantemente a farsi trovare per nettezza e chiarezza e che dà forma al lavoro di Paolo e di tutti coloro che la sua storia ha intrecciato.

Tra costoro ci sono anche Andrea Pecchioni, cacciatore di teste specializzato nel settore moda e vino con la società Selecta, aveva registrato il dominio winejob.it e fu proprio Paolo a suggerirgli – prendendo ad esempio il sito made in USA Winejob.com – di investire anche sulla formazione. Da quel suggerimento è nato il corso di alta formazione in Marketing Internazionale del Vino, che negli anni ha formato e ancora forma decine di ragazze e ragazzi per lavorare in questo settore. E ci sarebbe da dire anche di Todo Modo, splendida libreria, enoteca, luogo d’incontro magico di Firenze, di cui Paolo è socio fondatore insieme ad un gruppo di ragazzi con storie diverse e che sono innanzitutto amici splendidi e con i quali collaboro anche io. Potete quindi soppesare l’entusiasmo dei miei giudizi alla luce di questa amicizia e collaborazione, ma se passate a Firenze, fate un salto a Todo Modo (due passi dalla stazione centrale) e fatevi un’idea da voi.

A questo punto, se non ho detto tutto, almeno ho detto molto. Ma forse questa storia non si chiude, perché nel continuo muoversi verso di sé, Paolo confessa un futuro che vede. “Oggi sono io che vado in giro per il mondo a vendere Vigliano… ecco, quello che vedo per il futuro siamo io e Lorenzo, insieme, a mandare avanti l’azienda e insieme a vendere il vino in giro per il mondo… forse tra qualche anno”.

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Tommaso Ciuffoletti

Ha fatto la sua prima vendemmia a 8 anni nella vigna di famiglia, ha scritto di mercato agricolo per un quotidiano economico nazionale, fatto l'editorialista per la spalla toscana del Corriere della Sera, curato per anni la comunicazione di un importante gruppo vinicolo, superato il terzo livello del Wset e scritto qualcos'altro qua e là. Oggi è content manager di una società che pianta alberi in giro per il mondo, scrive per alcune riviste, insegna alla Syracuse University e produce vino in una zona bellissima e sperduta della Toscana.

1 Commento

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Nelle Nuvole

circa 4 anni fa - Link

Una storia vera raccontata con dovizia di dettagli, ma mai noiosa. La strada che attraversa la vigna e la cantina non è mai spianata, non è mai dritta. I vini di Paolo Marchionni da me assaggiati negli ultimi anni hanno tutta la stessa eleganza autentica e sottaciuta, da gentiluomo di campagna quale egli è. Non si dimenticano, né si dimentica il suo approccio discreto, non invasivo, ma penetrante, a qualsiasi conversazione che riguardi la sua visione del vino e la sua storia aziendale.

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