[Longform] Alcol, salute, Angelo Gaja e un po’ di chiarezza
di Alessandra Biondi BartoliniDa dicembre ho aggiunto un nuovo podcast ai miei già numerosi appuntamenti con le voci del Post. Si chiama Orazio, la voce è quella di Matteo Caccia e la formula di ogni puntata prevede di partire da una notizia di attualità per ripescare e raccontare storie del passato.
Lo trovo un modo molto bello per affrontare il presente e così ho deciso di sperimentarlo. Un fatto di attualità e due storie del passato.
Si parla di alcol, vino e salute.
Nelle settimane scorse in molti hanno riportato, e in pochi hanno commentato, le parole di Angelo Gaja. Succede più o meno ogni volta che Angelo Gaja parla: tutti fermi che ha parlato. È effettivamente un personaggio influente, ha raggiunto traguardi importanti, è stato (e forse è ancora) protagonista di un’epoca e di diversi cambiamenti.
Il fatto che nel parlare utilizzi poche forme ipotetiche e dubitative poi non significa che quello che Gaja afferma non debba essere verificato da chi decide di pubblicare le sue dichiarazioni. Questa volta ha parlato di alcol, spiegando che, a suo dire, non sia corretto equiparare il vino agli altri alcolici in quanto c’è alcol e alcol.
Queste, secondo quanto riportato da Winenews, sono state le esatte parole di Gaja. Le riportiamo integralmente per evitare di commentare solo alcune cose estrapolate da un contesto più vasto:
È ormai consuetudine equiparare il vino a superalcolici e aperitivi unicamente a causa della componente alcolica che hanno in comune. Si tratta di un abuso che dura da troppo tempo. Esistono infatti tre tipologie di alcol. Alcol di fermentazione, immutato da 10.000 anni, da quando il vino è nato, prodotto dai lieviti che si depositano sugli acini d’uva, agenti della fermentazione alcolica, ed è frutto di un processo che è il più naturale, il più bio in assoluto. L’alcol così prodotto è il costituente principale nonché primordiale del vino e si accompagna ad un 3% di altri componenti, il resto è acqua. Alcol di distillazione, prodotto dall’arricchimento di alcol a mezzo dell’impianto di distillazione. È frutto della volontà del produttore di realizzare una gradazione alcolica più elevata e far così rientrare la bevanda nella categoria dei superalcolici: durante la distillazione viene persa buona parte degli altri componenti del vino. Alcol di addizione è quello intenzionalmente aggiunto per la produzione di aperitivi e similari attingendo dall’alcol puro di distillazione, privato totalmente dei componenti del vino, in percentuale idonea e in mescolanza ad acqua, materia colorante, aromatizzanti. Ancorché la molecola sia la stessa, sono la natura e la funzione dell’alcol presenti nel vino, superalcolici ed aperitivi a renderli profondamente diversi. Non si tratta di stabilire gerarchie o fomentare la competizione tra diversi prodotti, ma solo di offrire il massimo di chiarezza ai fruitori.
Per sgombrare il campo, chiariamo subito che, per quanto pochi tra coloro che hanno riportato la dichiarazione abbiano commentato (qualcuno lo ha fatto, come Eugenia Torelli su l’Inkiesta: “Angelo Gaja ha scritto delle cose strane su vino e spirits“), l’alcol presente nel vino e nelle altre bevande fermentate, l’etanolo, dal punto di vista chimico è esattamente lo stesso. Ma questo in effetti lo dice anche Gaja.
Il fatto è che anche dal punto di vista biologico, la natura e l’origine dell’alcol è la stessa: l’alcol viene prodotto dai lieviti nelle bevande fermentate (come il vino, ma anche come la birra, il sidro, il pulque o il sakè, che dal punto di vista culturale non sono da meno), ed è quello stesso alcol che se separato fisicamente dai fermentati con il processo della distillazione dà i distillati o che infine, una volta distillato, può essere aggiunto nei liquori, i cocktail o i vini fortificati.
Non è per aumentare la gradazione alcolica del vino (anche perché diversi distillati non si producono distillando il vino peraltro) che si distilla o si miscela: è per produrre bevande diverse che sono, tutte compreso il vino, ottenute per volontà del produttore e non per un processo spontaneo. A cambiare sono naturalmente la concentrazione in alcol e, talvolta ma non sempre, le modalità di assunzione e le occasioni di consumo dei diversi alcolici, fattori che potrebbero avere un effetto sull’assorbimento e sui danni legati all’alcol e sui quali si continua a fare ricerca.
Questo però non annulla né permette di dire che l’alcol di fermentazione sia diverso o che non produca danni alla salute. La valutazione del rischio non è banale e viene studiata seriamente tenendo conto di molte variabili: banalizzarla per salvare questo o quel prodotto non è francamente un’operazione correttissima.
Tra chi ha sostenuto la teoria di Gaja c’è stata anche Cristiana Lauro, che in un video e poi in un articolo su Il Sole 24 Ore ha affermato che se il vino facesse davvero così male ci saremmo estinti da tempo. E però non solo noi che consumiamo vino non ci siamo estinti, ma non lo hanno fatto nemmeno gli scozzesi che hanno sempre consumato più alcol da distillazione.
Due storie del passato per guardare avanti
Le due storie che ci portano nel passato per spiegare i fatti del presente arrivano da due epoche molto diverse: nel primo caso facciamo un salto nel tempo di poco più di 100 anni e andiamo tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900 per scoprire che quanto si diceva e si pensava allora non è così lontano da quanto si dice e si sostiene talvolta anche oggi. Nella seconda storia, invece, torniamo a più di dieci milioni di anni fa, nel momento in cui i nostri antenati scesero dagli alberi e cominciarono ad apprezzare i frutti fermentati contenenti alcol.
Una storia di proibizionismo e di protezionismo
La prima storia ci porta all’Italia e alla Francia dei primi decenni del 1900, negli anni del proibizionismo, quello vero.
Perché quando ho letto quanto ha affermato Gaja mi si è accesa una lampadina. Qualche anno fa non si parlava di vino e salute come adesso, il settore del vino non si dichiarava sotto attacco e anche il Ministero dell’agricoltura aveva un altro nome. E però già si capiva che per noi, italiani e mediterranei, fare i conti con i rischi legati all’alcol non è mai stato facile.
Facendo un po’ di ricerche che poi sintetizzai in un articolo su Il Tascabile (che si può leggere integralmente a questo link) ripercorsi la storia della reputazione del vino, scoprendo che non solo fino a pochi decenni fa il consumo medio di alcolici era enormemente più alto, ma anche che per secoli – se non per millenni – il vino è stato inserito nelle farmacopee e usato come curativo e corroborante per i malati. Nella medicina degli antichi, Galeno consigliava anche la teriaca, che oltre al vino conteneva carne di vipera e nell’800 la coca, l’eroina o le radiazioni avevano un grande successo nelle ricette dei medici, mentre i grassi animali, l’estratto di carne e naturalmente il vino riempivano le diete di convalescenti e bambini. La reputazione di alimenti e bevande cioè cambia nel tempo e con le conoscenze, mediche e scientifiche, che nel tempo si sono acquisite.
Ma c’è anche il fatto che il riconoscimento dell’alcol e del suo abuso come fattori di rischio per la salute umana sono piuttosto recenti: mentre fino al 1800 la preoccupazione legata all’ebrezza riguardava per lo più il decoro e l’ordine pubblico, è solo dal 1849 – quando per la prima volta il dottor Magnus Huss, un medico svedese, conia il termine di alcolismo e distingue gli effetti dell’ubriachezza acuta dalla dipendenza cronica – che l’attenzione si va a concentrare sulla salute dei pazienti.
Tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900 il nemico da combattere diventa l’alcolismo: le leghe antialcoliche cominciano a denunciare i danni sulla salute e sulla società legati alla produzione, vendita e consumo di alcol. In alcuni paesi, come gli Stati Uniti, questo porta alle politiche di Proibizionismo. Dal 1919 al 1933 in America in teoria non circola una goccia d’alcol, ma chiunque abbia visto anche solo un film di gangster sa benissimo che non solo l’alcol si produce e si vende clandestinamente ma anche che il suo mercato, nell’illegalità, finisce per alimentare la malavita organizzata
In altri paesi, come in quelli mediterranei, per quanto i danni dell’alcolismo non fossero così diffusi e la spinta antialcolica fosse minore, le istituzioni non poterono esimersi dal valutare effetti, consumi e diffusione dell’abuso di alcol e dal prendere delle misure per contrastare l’alcolismo.
Nel rapporto “Alcuni cenni sull’alcolismo e sul disegno di legge Luzzati”, letto nella Società Agraria della provincia di Bologna nel 1912 dal Dottor Lucio Gabelli, si trova:
L’alcolismo è prodotto dai vari alcol spesso col concorso di speciali essenze ed eteri. In tal modo i quadri patologici possono alquanto diversificare tra loro e dare origine a varie categorie di alcolismo distinte colle speciali denominazioni di alcolismo propriamente detto causato dai liquori, absintismo prodotto dall’absinthe speciale liquore ad alta gradazione contenente essenza di assenzio, oenilismo dovuto al vino.
Al di là di alcuni aspetti legati all’occasione di consumo, come nel caso dei liquori di assenzio che si consumavano col preciso scopo di sballarsi e che proprio per essere stati proibiti da vari paesi dalla Francia all’Italia erano divenuti sempre più trasgressivi e interessanti per i loro estimatori, leggendo le pagine del rapporto del dottor Gabelli, si capisce che il rischio nel 1915 non era legato alla natura o alla provenienza dell’alcol ma alla sua qualità (oltre che naturalmente alla quantità): sdoganare l’alcol in tutte le sue forme significava allora esporre alcuni consumatori, peraltro appartenenti anche alle classi più fragili e basso spendenti, a prodotti di miscelazione che usavano alcoli poco e male rettificati.
Ma Gabelli racconta anche che nella proposta di legge che classifica gli alcoli, alla fine non era stata fatta una distinzione tra fermentazione, distillazione e addizione come Gabelli avrebbe consigliato di fare, ma di bevande alcoliche fino a 21° e bevande con più di 21°. Il motivo, spiega l’autore, è che si era reso necessario tutelare i prodotti nazionali come il Marsala e il Vermouth.
E la tutela dei prodotti nazionali, la spinta protezionistica nella lotta all’alcol si legge anche nel manifesto francese di propaganda antialcolista dello stesso periodo, che mostra gli effetti deleteri dell’alcol e la trasformazione dell’uomo per averne abusato: a sinistra gli “alcoli buoni”, quelli ottenuti dalla fermentazione dell’uva, delle mele, dell’orzo, tutti guardacaso prodotti nazionali, e a destra gli “alcoli cattivi”, quelli della distillazione industriale delle patate, le barbabietole, il grano, prodotti nel Nord Europa (e in modo particolare nell’odiatissima Inghilterra). A sinistra gli effetti degli alcol buoni sulla cavia, che si addormenta e cade preda degli eccessi ma alla fine smaltisce la sbornia senza gravi conseguenze, mentre a destra a causa degli alcoli cattivi il povero topo finisce con l’avere attacchi epilettici e muore. Ma a guardare bene, anche gli effetti sull’aspetto dell’uomo ci dicono qualcosa di sottile: perché il sobrio ha l’aspetto di un elegante e ordinato uomo mediterraneo, mentre l’alcolista al suo fianco (non vorrei eccedere nell’interpretazione) appare evidentemente come un uomo nordico, biondo, con gli occhi chiari e un aspetto decisamente poco raccomandabile.
Quando è nata la nostra relazione con l’alcol e perché non ci siamo estinti
L’Ipotesi della scimmia ubriaca è una spiegazione evoluzionistica formulata nel 2004 dal biologo Robert Dudley dell’Università di Berkley in California per rispondere alla domanda “perché consumiamo alcol e ne abusiamo?”.
Secondo Dudley, la comparsa, casuale, nei nostri progenitori con dieta essenzialmente frugivora di una variante genetica in grado di sintetizzare gli enzimi che permettono di detossificare l’alcol nel fegato e utilizzarlo come fonte energetica ha rappresentato un vantaggio evolutivo. Gli individui che, guidati dall’odore dei frutti maturi e già parzialmente fermentati caduti dagli alberi, potevano mangiarne di più e più velocemente senza stare male, avevano accesso non soltanto a più cibo ma a una fonte con un maggior contenuto di calorie e con un’azione energizzante ed euforizzante che li rendeva senza dubbio molto cool e combattivi.
Noi siamo i loro discendenti, ma questo non significa che l’alcol non ci faccia male o che anzi ci faccia bene, e che se facesse male ci saremmo estinti.
Non solo non ci siamo estinti in quanto abbiamo consumato alcol, a volte poco, a volte molto e a volte troppo, ma anzi la biologia ci dice che questo ha esercitato sui nostri antenati una pressione selettiva. Quando esiste un fattore di rischio, nei primati, negli ominidi o nei sapiens che bevono vino o grappa o gin, la resistenza si distribuisce secondo una gaussiana: alcuni individui sono più sensibili e probabilmente si ammalano, altri lo sono meno e si ammalano con minore frequenza e altri (meno) infine sono molto resistenti e sono “mio nonno che, buon per lui, è vissuto fino a 100 anni bevendo un litro al giorno e salendo sugli alberi a raccogliere le mele”. Quando si portano ad esempio questi ultimi però ci si dimentica di tutti gli altri, coloro dei quali non si racconta e che sono usciti dal gioco molto prima e sono stati esclusi dalla selezione.
Ora, per quanto si dice che gli spartani immergessero i bebè nel vino per fortificare i migliori e lasciare che i più deboli interrompessero presto la loro corsa, appare evidente che nel 2025 nessuna istituzione o struttura deposta alla protezione della salute pubblica possa adottare un criterio di selezione naturale o la teoria di Malthus nello scrivere e definire le sue politiche.
E infatti sia OMS, sia i dipartimenti per la salute a Bruxelles, sia l’Istituto Superiore di Sanità non hanno dubbi sul fatto che il consumo di alcol rappresenti un fattore di rischio per la salute e spingono perché i consumatori ne siano debitamente e correttamente informati per fare scelte consapevoli relativamente alle loro vite.
Non per vietarne il consumo, la produzione o la vendita. Non per attaccare il vino. Non è una questione personale, non è una guerra commerciale, non è proprio per niente una guerra: le chiamate alle armi, il linguaggio militaresco non sono del tutto appropriati. Stiamo parlando della salute delle persone: se un consumo, un’attività, una situazione ci dà piacere, benessere, emozioni, ecc possiamo scegliere di adottarlo o consumarlo pur conoscendone i rischi.
“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne possa sognare la tua filosofia” – cit. Matteo Caccia che cita William Shakespeare
12 Commenti
domenico
circa 1 mese fa - LinkSante parole, soprattutto il finale. Credo che ormai tutti i lettori del blog abbiano scelto consapevolmente di rischiare, bevendo del buon vino, sapendo che ci sono tante altre cose che fanno male. Mio nonno ha bevuto tanto vino e il suo stato di salute lo dimostrava ampiamente. Ottimo articolo.
RispondiStefano Cinelli Colombini
circa 1 mese fa - LinkL'alcol che beviamo è tutto etanolo (ovvero C2 H6 O) sia che provenga da fermentazione che da distillazione, per cui l'affermazione dell'amico Gaja è solo poetica, non ha valore scientifico. Però quanto alla classifica dei 126 agenti come cancerogeni, il sito dell'AIRC è molto onesto e chiaro in materia; quando una sostanza entra nell'elenco dovremmo chiederci quanto è cancerogena, a quali dosaggi e dopo quanto tempo di esposizione. Che l'alcol possa fare male è indubbio, ma su dosi e quantità vorrei studi seri sulla variazione del rischio in corrispondenza con il variare di dosi e tempo di assunzione. La constatazione di Cristiana Lauro mi spinge a pensare che l'esposizione all'alcol non è cancerogena in ogni dosaggio e per qualunque tempo di esposizione, altrimenti davvero "ci saremmo estinti da tempo". Per questo la trovo utile, e non incompatibile con la constatazione che l'alcol fa male.
RispondiAlessandra
circa 1 mese fa - LinkGrazie Stefano, quando si parla di fattori di rischio si entra nel campo delle probabilità. L'alcol aumenta la probabilità di contrarre le patologie per le quali esiste una relazione tra il suo consumo e l'insorgere della malattia. Dipende da tante cose, dalla dose e dalla frequenza sicuramente ma anche dalla predisposizione, dalla dieta, dalle occasioni di consumo, dalla matrice ecc. Se mi butto una volta con il paracadute mi espongo a un rischio e c'è una certa probabilità che il paracadute non si apra. Se mi butto tutti i giorni la probabilità sale. Però ci sono persone che si sono lanciate per una vita tutti i giorni e stanno benissimo e persone che si lanciano una volta e quella volta è sufficiente perchè vada male.
RispondiStefano Cinelli Colombini
circa 1 mese fa - LinkLa statistica è una scienza, e in medicina è molto importante. Sempre di più. Per questo troverei corretto che la discussione sugli effetti del vino (non parlo genericamente di alcol, perché a noi riguarda il vino) passi dallo scontro tra una apodittica condanna per ogni dosaggio, in ogni modalità di somministrazione e per qualunque durata opposta ad una assoluzione stile "anno Santo" a qualcosa di diverso. Più statistico, e più scientifico. Vorrei uno studio di durata ragionevole, su più Paesi e su più regimi dietetici e stato sanitario che produca dati affidabili sul rischio connesso alla assunzione di modiche dosi di vino, dosi più elevate e nessun consumo. Questa sarebbe scienza, e sarebbe anche qualcosa di socialmente utile perché si tratta di chiedere a centinaia di milioni di persone di cambiare abitudini di vita. Sono disposto a partecipare al finanziamento di uno studio di questo tipo, e a prendermi il rischio che condanni totalmente l'uso moderato.
RispondiPaolo
circa 1 mese fa - Linkonestamente è difficile realizzare quanto chiede, gentile Cinelli Colombini, proprio per l'incrocio tra la complessità della questione medica (che parla appunto di "fattori di rischio" e non di rapporti causali) e l'oggettiva complessità delle "statistiche". E' una illusione pensare "la scienza ci dà le risposte". No, la scienza per lo più ci pone di fronte a domande e sfide. Penso sempre al mitico paradosso francese, figlio di una lettura deformata e smeplicistica delle statistiche, associata a imperfette associazioni di stile di vita e abitudini alimentari. Orbene sopravvive con forza quella che è poco più che un errore di lettura e quindi interpretazione di alcune rozze statistiche. Ma ancora ci tocca subire i cascami di quella lettura, trrvando tracce di affermazioni quali "il vino rosso protegge dall'accumulo di colesterolo se bevuto n moderata quantità". Davvero, dofficile pensare che possa darsi uno studio così ampio ed esaustivo come si vorrebbe
RispondiStefano Cinelli Colombini
circa 1 mese fa - LinkScusi Paolo, ma lei sta relegando la scienza ad un ruolo di vaga sibilla, che indica potenziali minacce non definibili. In realtà la scienza medica è interamente basata sulla quantificazione del rischio, ogni paziente deve (non può, deve) essere messo di fronte a una scelta cosciente per cui gli va indicato cosa rischia. Mi faccio tagliare una gamba se rischio una cancrena, ma non per un neo. Smetto di bere se ogni dose e con ogni frequenza ha una elevata probabilità di causarmi il cancro. Se un bicchiere a pasto costituisce un rischio modesto, continuo. Se una bottiglia a pasto causa rischi elevati, evito di berla. Questo la scienza deve dirmelo, e non è affatto impossibile. Se spendono cifre folli per ricerche molto meno importanti.
RispondiInvernomuto
circa 1 mese fa - LinkTutto giusto e ineccepibile, ma rimane il problema del collegamento alcool-cancro , il vero fulcro dell'intervento di Gaja arrivato per mail a molti produttori. Il disclaimer sulle btl (di vino/birra/spirits) non sarebbe il problema, chiuncque fumi o fumava quando è stato introdotto non credo abbia smesso a causa dei messaggi sui pacchetti (io almeno no, poi smisi per altri motivi). Il problema vero per il comparto è che, se la proposta passa, addio pubblicità (e non vuol dire F1 o cose simili, ma significa nessun sito, nessuna pagina social) addio soprattutto OCM e PSR (o come si chiama adesso) Lì vorrebbe dire una riduzione di un buon 40% dei produttori. Che forse, visto l'affollamento attuale, è quasi un bene....
RispondiGiuseppe
circa 1 mese fa - LinkArticolo godibilissimo nonostante la sua lunghezza e complessita'. Sicuramente anche merito dell'autrice che non ha certo bisogno delle mie lodi ma a cui va un sincero apprezzamento e che spero di continuare a leggere con frequenza anche su questo sito. Come per l'articolo di M.Fino sempre a tema "alcol e salute" trovo sintesi e spiegazioni calzanti e di facile comprensione per tutti. Grazie di nuovo
RispondiBranch
circa 1 mese fa - LinkLa lettera di Gaja è stata appena "smontata" dal sempre interessante Bressanini, in un video sul suo canale YouTube. Da bevitore di vino e alcolici vari non posso che dare ragione a Bressanini rispetto al concetto base che più volte esprime nel video: l' alcool fa male, e non fa differenza se è quello contenuto nel vino, nella grappa o nella birra. Però capisco Gaja, o meglio, i suoi timori. Non è ancora una guerra, forse, ma gli attacchi al vino esistono. E a mio parere, questi attacchi spaventano perché credo che molti, più o meno consciamente, percepiscono che non si sta semplicemente parlando di scienza e salvaguardia della salute dei consumatori, ma dell' avanzare progressivo di un' ideologia il cui orizzonte non può che essere il divieto. Personalmente, di talebani del salutismo, gente che mi dice cosa devo bere e mangiare, e che mi spiega come devo vivere, pena essere trattato come un appestato, non ho bisogno.
Rispondimarco
circa 1 mese fa - LinkLa conclusione dell'articolo esprime la convinzione che la regolamentazione del consumo di alcol non debba comportare divieti o attacchi ideologici contro il vino o altri alcolici. L'obiettivo principale è che i consumatori possano fare scelte consapevoli, sapendo che il consumo di alcol comporta dei rischi per la salute. Non si tratta di limitare la libertà individuale, ma di assicurarsi che le persone abbiano tutte le informazioni necessarie per prendere decisioni informate riguardo alla loro salute e al loro benessere. L'articolo è eccellente e lo condivido. Rimane la curiosità di sapere se Gaja sia veramente convinto in buona fede delle opinioni espresse sull'alcol. Le considerazioni di Cristiana Lauro partono da un'osservazione giusta: non tutti quelli che hanno bevuto o bevono vino sono scomparsi. Ma poi arriva a delle conclusioni errate che abilmente Alessandra Biondi Bartolini ha contrastato. Concludo dicendo. Sono forse uno dei pochi, se non l'unico, ad esaltare, in questo blog, l'alcool, a dare cioè importanza all'alcol nella degustazione e nel consumo di vino. Cioè io bevo vino non per stare mezz'ora ad annusarlo ma anche e, soprattutto, perché c'è l'alcol. Ne bevo moderatamente. E, consapevole dei rischi, come conclude l'articolo, continuerò a bere vino ... con alcol
RispondiAlessandra BB
circa 1 mese fa - LinkBuongiorno Marco, colgo l’occasione per ringraziare te e anche gli altri che hanno apprezzato il mio articolo. No, non sei solo tu, siamo tutti. Resta una questione di consapevolezza e di moderazione e sono convinta di quello che ho scritto, ma sono convintissima anche che il successo millenario degli alcolici (tutti) sia legato soprattutto all’azione euforizzante dell’alcol. I nostri antenati il bicchiere lo roteavano poco (Noè per tornare a citare Gaja non ce lo aveva nemmeno il bicchiere e va detta tutta: Noè coltiva la vite, produce il vino e si ubriaca). C’è anche una ricchissima letteratura sul ruolo che l’ubriachezza ha avuto nei secoli (ne parliamo un’altra volta ).
Rispondihakluyt
circa 1 mese fa - LinkMarco scrive : "io bevo vino non per stare mezz'ora ad annusarlo ma anche e, soprattutto, perché c'è l'alcol". Meraviglioso !!!! Marco, un abbraccio fortissimo...
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