L’intervista a Paolo Babini: il pagadebit ha un futuro nobile

L’intervista a Paolo Babini: il pagadebit ha un futuro nobile

di Lisa Foletti

In questo periodo di fermo produttivo e sociale, Facebook si è trasformato in una vetrina di lati B, ma anche U, V e Z, intesi come quelli peggiori. Un coacervo di sfoghi, arringhe, sproloqui socio-medico-politici da cui (quasi) nessuno si è salvato. Non so spiegare il tedio che mi assale di fronte a una tale ondata di qualunquismo, e alla vista di tanti sermoni lunghi (lungherrimi!), sovente sgrammaticati, retorici, e dello spessore della carta velina. Se non fosse per quegli sporadici guizzi da pescare con santa pazienza nella melma social, sarei già tornata al mio Nokia 3310.

E a proposito di spunti interessanti, qualche giorno fa mi sono imbattuta nel post di un vignaiolo romagnolo che ho sempre apprezzato, non solo per i suoi vini ma anche per la sua sobrietà e pacatezza nel parlare, un uomo gentile e colto, appassionato e mai sopra le righe. Il suo post, che conteneva il germe di un progetto nuovo e bello, raccontato con minuzia ed entusiasmo, mi ha ridato speranza nei confronti del genere umano in generale, e dei vignaioli in particolare.

Ho subito pensato di scriverci un articolo, ma poi ci siamo scambiati qualche messaggio e ne è scaturita una bella intervista. Stiamo parlando di Paolo Babini, 59enne titolare dell’azienda agricola Vigne Dei Boschi.

Cliccando qui trovate il testo del post da cui ha avuto origine la nostra chiacchierata:

D. Ciao Paolo, diciamo due parole sulla tua realtà, prima di approfondire il nuovo progetto. Dov’è ubicata esattamente la tua azienda agricola?
R. La sede è a Solarolo (RA). Le vigne sono un ettaro a Solarolo e circa 5 e mezzo a Valpiana di Brisighella. Inoltre a Valpiana c’è circa mezzo ettaro di olivi e circa 30 di bosco.

D. Da quanto tempo fai vino?
R. Il primo imbottigliamento è del 2000. L’azienda è nata nel 1989.

D. Dopo quanto tempo hai cominciato a fare biodinamica e, soprattutto, perché?
R. Quando abbiamo acquistato (allora eravamo io e mio fratello) il proprietario era un vecchio signore di stampo antico. Coltivava le vigne in modo tradizionale (es. letame – aveva una piccola stalla – rame, zolfo) era bio senza saperlo. Arrivati noi, subito i tecnici ci hanno fatto comprare prodotti chimici, dicendo che non si poteva avere un reddito adeguato se non si faceva così. Per qualche anno abbiamo fatto così poi ci siamo chiesti che senso avesse in un posto quasi sperduto in mezzo all’Appennino, dove comunque il clima era salubre, usare tutta quella chimica. Poi ci siamo detti che prima il vecchio proprietario ci riusciva, e anche bene, facendo vini molto più buoni di quelle piccole micro vinificazioni che facevano noi. Quindi siamo tornati indietro e nel 1994 abbiamo iniziato la conversione al Bio, certificata nel 1996.

Negli anni successivi però è maturato altro (nel frattempo era arrivata Katia, che pur lavorando come tecnico di cantina alla CAB a Brisighella ha stimolato in me una nuova visione di intendere il vino… ma questa è un’altra storia). Volevamo andare oltre, perché il Bio rappresentava una mera sostituzione della chimica con non-chimica, ma poi finiva lì. Nel 2002 c’è stato l’incontro con Nicolas Joly in un convegno a Bologna con Sangiorgi, Maule, Nicolaini, che mi ha aperto un nuovo mondo. Al di là di Steiner, i preparati e tutto il resto, che pur è importante e fondamentale, la biodinamica ti fa ragionare in simbiosi (nel mio caso) con le vigne, cioè ti porta ad una mentalità meno interventista e più lasciata al rispetto, alla vita di tutto quello che ci circonda e che è utile alla coltivazione e poi in cantina.

D. Quante varietà coltivi, quali ti danno più soddisfazione e perché?
R. Varietà tante, forse troppe, ma la mia naturale indole a sperimentare è indomabile. Oltre ai classici romagnoli albana e sangiovese abbiamo il malbo ritrovato in una vecchia vigna di sangiovese (probabilmente in tempi passati era utilizzato soprattutto in zone alte, per “irrobustire” il sangiovese in annate fredde e piovose tipo colorino in Toscana) poi moltiplicato e fatto una vigna a sé. Poi negli anni 80 c’era l’idea di provare altre varietà. In particolare noi così in quota (le mie vigne sono dai 350 ai 480 metri di altitudine) abbiamo provato chardonnay, pinot nero, sauvignon, questi nel 1990, poi pagadebit e sauvignon rosso (allora si chiamava così poi diventò centesimino), nel 1997 malbo e albana e un’altra vigna di sauvignon, nel 1999 riesling sangiovese e syrah.

Difficile dire da quale sono più coinvolto. Sicuramente da quelli che mi danno più da fare, perché con loro è sempre difficile fare dei vini che mi soddisfano, cioè sauvignon e pinot nero.

D. Veniamo ora al nuovo progetto. Leggendo il tuo post, deduco che oggi non avete più il problema della superficie vitata che vi ha costretti a sacrificare la vigna di bombino (il pagadebit). È corretto?
R. Le nuove norme consentono di reimpiantare (quindi abbattere la vigna per poi ripiantare la stessa superficie) oppure di richiedere ex novo nuova superficie vitata. Sono favorite in questa richiesta le aziende certificate Bio. Noi abbiamo già “in portafoglio” questa possibilità. Ovviamente dove non ci sono più le piante vecchie perché morte metteremo delle nuove piantine fatte comunque con marze prese da quelle ancora vive.

La selezione di quelle prime piante del vigneto originale era stata ricavata da una vecchia vigna di pagadebit del forlivese (un biotipo scartato dalla selezione clonale dell’Università di Bologna perché meno produttivo rispetto ad altri più performanti) di nome Capriotti. Per me era l’ideale proprio perché mi interessava fare più qualità che quantità.

D. Pensi davvero che il pagadebit possa essere “nobilitato” e avere un mercato diverso da quello che ha sempre avuto? O pensi che, in fondo, la gente comprerà il tuo perché lo hai fatto tu?
R. Il pagadebit, come ho scritto nel post, è il vitigno di riserva quello di scorta che comunque tu lo faccia sarà sempre affidabile ma che mai diventerà un prezioso diamante. Un secondo insomma. E questo cosa mi stimolava allora e ancora di più oggi. Allora ero di fatto alle prime armi. Ora sono passati 17 anni da quella prima vinificazione e credo di poter tirare fuori, in particolare da quelle vecchie piante, qualcosa di veramente compiuto. Quindi un po’ tutte e due le cose. Nobiliare quel vitigno e soprattutto lui in quella zona, Valpiana, che ora dopo 30 anni so cosa può dare.

D. Alla fine del tuo post parli di “condividere con chiunque ci vorrà essere la coltivazione, la vinificazione l’affinamento e la messa in bottiglia di questo #vinoincomune”: cosa intendi? Qual è l’idea guida del progetto?
R. L’idea di recuperare questa vigna c’era da tempo, però era lì sopita in attesa di avere un po’ di soldi da parte per risistemarla. Avevamo previsto il recupero nel 2019. Purtroppo nel 2018 una grandinata devastante ci ha di fatto azzerato tutta la produzione su a Valpiana (infatti non uscirà nessuna annata dei nostri vini come 2018, e con quel po’ di uve che si sono salvate abbiamo fatto un rifermentato, il JPB2R, ma 600 bottiglie contro le 12 mila che normalmente facciamo di tutti gli altri vini di Valpiana ). E quindi abbiamo rimandato il recupero. Ora il Coronavirus! Visto che gli incassi di fatto in questi ultimi mesi non ci sono stati e sarà difficile anche in seguito, dovevamo rimandare ancora con il rischio di perdere completamente la vecchia vigna di Pagadebit. Più aspetti più è concreto il rischio che muoiano le vecchie piante.

Allora l’idea sarebbe di raccogliere delle adesioni per raccogliere i soldi necessari in cambio di bottiglie quando la vigna tornerà a produrre. Prevedo che il vino  potrebbe essere disponibile tra 5 anni. Ovviamente in tiratura speciale tipo magnum, etichetta particolare ecc..

In questi giorni mi sono informato e probabilmente faremo un crowdfunding.

D. Altre cose bollono in pentola?
R. Sì! Ti racconto anche di un altro progetto che ho in testa, di lunghissimo termine. Costituire un vigneto biodiverso. Ma veramente biodiverso. Cioè con piante tutte diverse. Dove ognuna sia di fatto una varietà a sé. Purtroppo mi sto rendendo sempre più conto che le varietà che abbiamo da centinaia di anni stanno invecchiando non solo di età ma dal punto di vista genetico. Si ammalano sempre di più di virosi, batteri, ecc… Quindi occorre dare “sangue” nuovo. Ma non con biotecnologie di laboratorio, bensì come hanno sempre fatto spontaneamente. Quindi l’idea è di fare in modo che si incrocino tra loro in modo spontaneo (ho già delle vigne dove una pianta è vicino ad un’altra e si possono scambiare il polline) e poi dai semi far crescere nuove piante. Quindi tutte diverse ma ovviamente con i caratteri genetici dei genitori ricombinati. Non comunque con l’obiettivo di selezionare la migliore di loro, ma di impiantare tanti di loro, quindi con caratteri diversi.

Chiaramente se tutto va bene ci vorrà una decina di anni. Ho già iniziato due anni fa quindi se ne riparlerà nel 2028.

D. Altro? Non essere timido…
R. Un’altra cosa a cui tengo moltissimo, ma è tanti anni che provo e fino ad ora non ha dato risultati tangibili: fare gruppo a Brisighella con gli altri produttori. Abbiamo un territorio straordinario bellissimo sia a livello ambientale che paesaggistico ma è difficilissimo fare “cose” in comune. Forse siamo tutti piccoli artigiani molto anarchici come mentalità ed è dura. Per dire, oltre a me, Stefano Bariani, Filippo Manetti, Andrea Bragagni, I fratelli Gallegati, Paolo Monti, Villa Liverzano, la Collina Giacomo e Camillo Montanari, Marco Ghezzi, ecc… Ma io insisto e forse il prossimo anno (doveva essere questo ma per gli ovvi motivi ci siamo fermati) qualcosa spero di fare, anzi, speriamo di fare.

D. Intendi qualcosa di diverso rispetto ai Bioviticoltori di Brisighella?
R. Quella dei Bioviticoltori è stata una esperienza bellissima. Oltre alle amicizie personali e di vecchia data che rimangono tra noi credo sia il momento di andare oltre. L’idea Bioviticoltori era quella di riunirci per farci conoscere attorno ad una idea di coltivazione e vinificazione “naturale” che avevamo in comune. Ora tante aziende se non quasi tutte quelle che ti ho elencato sono arrivate lì. Ora credo che sia più importante l’idea di territorio che di metodo.

Buone nuove e tanta energia dalla Romagna, dunque.

Io brindo a Paolo con il suo 16 Anime, incantevole e grintoso riesling dal nome ancora più suggestivo (a voi scoprirne l’origine).

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Lisa Foletti

Classe 1978, ingegnere civile, teatrante, musicista e ballerina di tango, si avvicina al mondo del vino da adulta, per pura passione. Dopo il diploma da sommelier, entusiasmo e curiosità per l’enogastronomia iniziano a tirarla per il bavero della giacca, portandola ad accettare la proposta di un apprendistato al Ristorante Marconi di Sasso Marconi (BO), dove è sedotta dall’Arte del Servizio al punto tale da abbandonare il lavoro di ingegnere per dedicarsi professionalmente al vino e alla ristorazione, dapprima a Milano, poi di nuovo a Bologna, la sua città. Oggi alterna i panni di sommelier, reporter, oste e cantastorie.

3 Commenti

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Siro

circa 4 anni fa - Link

A quanto pare ci perdi molto tempo su Facebook a leggere tutti questi commenti deprecabili per scovare i pochi post intelligenti...il tempo è prezioso

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Lisa Foletti

circa 4 anni fa - Link

Grazie per questo prezioso e utilissimo contributo, Siro 😉

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Pigri

circa 4 anni fa - Link

Se, negli ultimi anni (decade), la produzione romagnola ha cambiato passo e, soprattutto visione, è soprattutto grazie a te ed il tuo vedere possibile un'alternativa, essere in qualche modo sognatore e poter essere migliore e diverso da ciò che si era sempre fatto :) Un territorio che ti deve essere, in qualche modo, grato.

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