Levante, Ponente e area del Genovesato nella storia del vino ligure. Parte 2, a Ponente

Levante, Ponente e area del Genovesato nella storia del vino ligure. Parte 2, a Ponente

di Pietro Stara

Continuando la mia rassegna di letture tra testi più o meno arcaici, ecco la seconda parte tratta da documenti in mio possesso, utili a raccontare un po’ di storia eno della mia regione. La prima parte è qui, in questo post si parla di ponente ligure.

Nell’Archivio di stato di Genova si conservano due cartolari notarili che contengono quasi un migliaio di atti, per la massima parte rogati a Ventimiglia dal notaio Giovanni di Amandolesio (3), fra il 1256 e il 1264. Notevole è sin da quell’epoca la produzione di vino attestata anche se, al contrario di quanto si verifica nella documentazione più tarda, soprattutto a partire dal secolo XV, di questi vini non si dà mai non soltanto la specificazione tipologica particolare, ma neppure quella generica: bianco, rosso, rosato. Al massimo si indica, anche se di rado, l’area vinicola di provenienza: «I vigneti si estendevano nella valle Roia, in Vallecrosia, nella valle Nervia, spingendosi da un lato fino a Mentone, dall’altro verso Taggia e l’odierna Imperia. Alla metà del Duecento si è in pieno fervore di espansione delle culture, soprattutto di quella viticola, attraverso il disboscamento ed il sistema di concessione delle terre ad plantandum e ad medium plantum. Normalmente la coltivazione della vite era associata a quella del fico ed anche di altri alberi da frutta. Il vino a Ventimiglia era tenuto in particolare considerazione, tanto da assumere, talvolta, la funzione sostitutiva della moneta. Botti di diverse dimensioni e diverso valore venale facevano parte della normale suppellettie delle case di Ventimiglia e del suo territorio, se appena le persone erano di condizione non infima. Erano botti di doghe di legno (castagno o rovere), ad indicare le quali si trova negli atti ora la voce veges ora la voce hatis, che talora appaiono ben distinte nel significato e talora sono invece usate come sinonimi».

L’unico riferimento al vino ventimigliese non rivela le uve di cui è composto, ma soltanto la terra che le dimora, detta Mototium, gestita da Dionigi Fiore, “pro metretis (38,84 litri) quatuordicim vini et una moscatelli”. Ventimiglia è l’epicentro della contrattazione per la compravendita del vino nuovo, che solitamente avviene nei mesi di settembre e di ottobre, destinato sia al consumo locale che all’esportazione via mare nella direzione di Savona, di Arenzano, di Voltri, di Genova, di Sestri Levante e di Chiavari: «Il traffico del vino costituiva comunque uno dei principali commerci di esportazione, se non addirittura il principale. Era un traffico che si effettuava quasi esclusivamente via mare, su imbarcazioni appositamente attrezzate e che in molti documenti genovesi del secolo XIII erano specificamente definite come “barche da vino”. Il commercio più intenso si svolgeva in direzione di Genova: il 14 settembre 1259, ad esempio, Fulcone Ganzerra, Nicola di Taggia e Jacopo Saonese presero a nolo un legno per il trasporto di 100 mezzarole di vino (circa 9.000 litri) da Ventimiglia a Genova in un unico viaggio, con l’impegno da parte dei proprietari dell’imbarcazione di fornirei contenitori. Non manca qualche caso di acquisto di vino ventimigliese da parte di uomini della Rivera di Levante —ad esempio Sestri — per probabile esportazione in quel territorio: il che appare abbastanza singolare, dal momento che una ricca produzione vinaria non difettava sia a Chiavari sia nelle Cinque Terre. Qui si può davvero pensare ad una ricerca qualitativa oppure anche ad annate difficili per il luogo d’importazione».

Sui vini del Ponente, se non per ragioni commerciali sopracitate, non si hanno riferimenti storici precisi sino al non lusinghiero giudizio a proposito di un Rossese di località imprecisata, ma molto probabilmente dell’albenganese (Rossese di Campo Chiesa), servito dal vescovo di Savona ad ufficiale esattoriale genovese: «Andrea de Franchi Bulgaro, medico e umanista inviato nel 1425 dall’arcivescovo di Genova a riscuotere certe decime dal vescovo di Savona, fu blandito dall’inadempiente prelato con un ottimo pranzo e abbondanti libagioni. Quando Andrea ebbe portato a termine la missione ne diede relazione in versi genovesi all’arcivescovo, sottolineando la correttezza e la buona accoglienza del pastore rivierasco, ma anche la qualità non eccelsa di quanto gli era stato offerto delle sue cantine: “De’ ghe dea in firmamento / megio vin che no è roceise” (Dio gli offra in cielo un vino migliore del suo rossese)».

Un altro riferimento al consumo dei vini del Ponente ligure è la caratata (4) del 1531, in cui si rammenta che la podesteria di Triora produceva vini solo per uso interno (5). Occorrerà aspettare, alcuni secoli dopo, l’autorevole opinione di Gallesio che, tra il 1829 e il 1830, compie alcuni viaggi nella Liguria di Ponente diretti a visitare, partendo da Finale Ligure, tutta la costa occidentale fino a Nizza e oltre. Il 30 di agosto Gallesio, nel volgere verso la cittadina di Mentone, passa per la zona di Ventimiglia, annotando l’intero parco delle uve che annovera alcune varietà tuttora esistenti e altre di cui si è perduta traccia. Del Rossese così narra: «colore rosso-carico, primaticcio; grappoli mediocri, informi, con acini preferibilmente uniti e mediocri, produce vino rossiccio-carico, dolce o brusco secondo che si vuole e preferibilmente spiritoso (6)».

Infine, nel 1964, Dalmasso e Mariano, in uno studio commissionato dal Ministero dell’Agricoltura sui principali vitigni presenti in Italia, indicano la presenza di un diverso Rossese a frutto colorato (che però non descrivono) in provincia di Savona, che troverebbe conferma nella distinzione del Rossese di Ventimiglia da quello di Campochiesa congiuntamente coltivati negli anni ‘60 su circa il 20% della superficie vitata del versante tirrenico della provincia di Savona (7). Il Rossese viene descritto attraverso interessanti valutazioni di tipo qualitativo che distinguono le diverse varietà dei vitigni: «Il “Rossese” è uno dei vitigni che ha una sinonimia fra le più ingarbugliate, anche se non molto ricca di termini. È, del resto, il caso comune a molti vitigni che prendono il nome dal colore dell’uva. Come per le “Bianchette”, per le “Verdee” per le “Negrare” (con tutti i nomi affini di “Negretti, Negrettini, Neirani”, ecc.), così per i vitigni il cui nome allude al colore dell’uva più o meno rossastra, se ne potrebbero citare numerosi, che nulla han di comune fra loro. Nel prezioso Saggio del Di Rovasenda oltre tre colonne sono dedicate ad un elenco di tali vitigni: e non si può dire che esso sia completo. Ma nel caso del “Rossese” di cui qui soltanto ci occupiamo, v’è qualcosa di più singolare: e cioè che sotto questo nome, sia da parte di alcuni dei più accreditati autori di opere ampelografiche, come anche nell’uso comune dei tecnici viti-vinicoli del secolo scorso, il nome veniva generalmente adottato per un vitigno (o per vitigni) a frutto bianco! […] Ripetiamo che qui noi ci occuperemo solo del “Rossese nero”. Ma resta ancora da chiarire un punto. Di Rossese a frutto colorato debbono esisterne almeno due: quello che si potrebbe dire di Albenga (Savona) e quello di Dolceacqua o di Ventimiglia (Imperia). Quale dei due deve considerarsi il vero Rossese? Noi riteniamo il secondo. E ciò per un motivo importante. Il vino Rossese ha ormai una sua fama consolidata, anche se l’entità della sua produzione è per ora molto limitata. Quello però che è ricercato come vino d’indiscutibile pregio è quello di Dolceacqua: pittoresco paese nei pressi di Ventimiglia, già ben noto anche per le sue colture d’uva da tavola tardive e da serbo (“Servant”). Anche il vino del “Rossese di Albenga” (Campochiesa), prodotto tra Finale ed Alassio, ha i suoi amatori: è vino robusto, alcoolico, ma non ha la finezza di quello di Dolceacqua. Comunque, trattasi di un vitigno differente, sia nelle foglie che nei grappoli – i quali presentano colori molto variabili: da quasi neri, a rosso violacei a rossi, tipo Barbarossa, ma in terreni freschi essi rimangono quasi verdastri e solo con sfumature rosa (8)».

Necessita qui evidenziare almeno due punti: il primo riguarda la piena cognizione dell’eleganza del Rossese di Dolceaqua, da cui la meritata fama. E la seconda, in riferimento all’uso del nome Rosssese, a indicare vitigni, al plurale, a bacca rossa e bianca, che dimostrano il non risolto e complicato uso del sinonimo in relazione ad uve e vini differenti.

[Crediti immagine]

3. Atti rogati a Ventimiglia da Giovanni di Amandolesio – due volumi, a cura di Laura Balletto, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera 1985
4. A Genova erano così anticamente indicati sia la stima dei beni stabili ai fini fiscali sia il libro dove la si annotava sia l’imposta accertata
5. Cfr. Laura Balletto, Vini tipici della Liguria tra Medioevo e Età Moderna, in Il vino nell’economia e nella società italiana Medievale e Moderna, Quaderni della Rivista di Storia dell’agricoltura, Accademia economico-agraria dei Georgofili, Firenze 1989; Laura Balletto, Il vino a Ventimiglia alla metà del Duecento, in Studi in memoria di Federigo Melis, Giannini Editore, Napoli 1978; Laura Balletto, Quando Ventimiglia era nota soprattutto per il suo vino, in “Liguria”, Rivista mensile di attualità e cultura, Anno 62°, N. 9 -10 Settembre/Ottobre 1995
6. I vitigni liguri dall’inizio dell’800 a oggi, in http://sima.liguriainrete.it/LaRaf/docs/docAgriteka/5–629977253-19-set-2006-16.54.01.pdf
7. G. Dalmasso e M. Mariano, Rossese in Principali vitigni da vino coltivati in Italia, Ministero dell’Agricoltura e Foreste. Longo & Zoppelli, Treviso 1964
8. G. Dalmasso e M. Mariano, Rossese in Principali vitigni da vino coltivati in Italia – Volume III, Ministero dell’Agricoltura e Foreste. Longo & Zoppelli, Treviso 1964

Bibliografia necessaria
Alessandro Carassale, Il Rossese di Dolceacqua. Il vino, il territorio di produzione, la storia, Atene Edizioni, Taggia (Im) 2004;
Alessandro Carassale e Alessandro Giacobbe, Atlante di vitigni del Ponente Ligure. Provincia di Imperia e Valli Ingaune, Atene Edizioni, Taggia (Im) 2008.
In terra vineata, La vite e il vino in Liguria e nelle Alpi Marittime dal Medioevo ai nostri giorni. Studi in memoria di Giovanni Rebora, Philobiblon, Ventimiglia (IM) 2014
Laura Balletto, Vini tipici della Liguria tra Medioevo e Età Moderna, in Il vino nell’economia e nella società italiana Medievale e Moderna, Quaderni della Rivista di Storia dell’agricoltura, Accademia economico-agraria dei Georgofili, Firenze 1989;
Laura Balletto, Il vino a Ventimiglia alla metà del Duecento, in Studi in memoria di Federigo Melis, Giannini Editore, Napoli 1978;
Laura Balletto, Quando Ventimiglia era nota soprattutto per il suo vino, in “Liguria”, Rivista mensile di attualità e cultura, Anno 62°, N. 9 -10 Settembre/Ottobre 1995

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

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