L’eredità immateriale di Antoine Gaita

L’eredità immateriale di Antoine Gaita

di Alessandra Corda

Vie maestre
Dedicare una via ad un grande enologo mi sembra cosa buona e giusta. La notizia la leggo in un trafiletto on line. Nella breve biografia si riporta che l’enologo in questione “ha inventato, negli anni, grandissimi vini”. Mi chiedo: i vini si inventano? Davvero l’attitudine manipolatoria di un enologo può legittimare questa parola? Quell’enologo, figura monumentale, di certo ha inventato una pratica vinificatoria che tradizione non era. Ha proiettato la produzione identitaria e locale nell’universo globale del vino, in uno stile più universalmente riconosciuto.

Intimi tratturi
Ci sono poi altre figure nella storia enologica degli ultimi decenni che sembrano appartenere a orizzonti più marginali. Qui un’altra parola mi ha lusingato nel tentativo di delineare l’uomo e il tecnico, nel quale sono inciampata distrattamente: la parola è sensibilità, non invenzione.

Me ne dispiaccio, lo scopro tardi Antoine Gaita, anche lui ha lasciato questo pianeta. Raccolgo frammenti di immaginario collettivo per la sua Irpinia, definita da Mario Soldati di una “natura favolosa e antica” (Fuga in Italia, 1947). Dove si allevano da sempre vitigni di talento, Antoine si è posto semplicemente (o forse faticosamente) in ascolto dell’uva e del luogo: quel vigneto con un’esposizione imbronciata, a Montefredane.

Il suo percorso ricorda uno di quei tratturi irpini, sentieri nati dall’empirico rapporto dell’uomo con la natura. Una forma di accordo rispettoso del paesaggio, per estensione enoica della materia prima su cui si interviene. I suoi Fiano sono diventati archetipo per chi, dopo di lui, si è misurato con i bianchi da invecchiamento. Rimando alla bella verticale di Andrea Gori sulle pagine di Intravino, per capire il Fattore Tempo nei suoi vini.

Gaita era uomo di attese, lo si capisce bene quando racconta l’evoluzione bizzarra di un fiano “sperimentato” come un vin jaune: prima fa le bizze poi si rivela nella sua intrigante, inedita espressione in situazioni ossidative. Io invece sono impaziente, e Antoine lo voglio ricordare nel modo migliore che conosco: apro una bottiglia di Villa Diamante, Vigna della congregazione 2016. Un vino che di Gaita ha l’eredità, delicata ma presente, poco monumentale eppure efficace. Vino artigiano, si riporta nell’etichetta.

Non so se la parola “artigiano” si possa usare in tutta consapevolezza, senza creare suggestioni di qualche tipo. Ma è bella. Bello è questo fiano, dal sorso pieno, asciutto, fresco e appagante. Lungo sul finale, capace di imprimere, dopo la deglutizione, qualcosa che ascrivere alla matrice degli aromi naso-bocca è riduttivo.

L’enfasi va posta soprattutto sulla dimensione tattile. Si tratta di sostanza che continua ad abitare il palato come un calco. Peso non è, eleganza credo, ma quella di un paesaggio rurale che ha in dote l’intima resistenza al tempo.

“Quello che ti da il vino non ce lo possiamo inventare, è già tutto nel suo bagaglio”.
(Antoine Gaita, 2013)

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Alessandra Corda

Folgorata dalla visione di Mondovino, in un pezzo di vita londinese ottiene il primo certificato enofilo (WSET). Laurea in lettere, copywriter, è sommelier AIS responsabile dell’accoglienza per una cantina in Gallura. Collabora con il sito AIS Sardegna dal 2016, intravinica dal 2018. Pensa il vino come esperienza di bellezza totale, narrato con la contaminazione di ogni linguaggio creativo possibile.

1 Commento

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The Figurehead

circa 5 anni fa - Link

Non so se l'appunto può essere in linea con l'articolo, ma la 2016 del Vigna della Congregazione è a mano Vincenzo Mercurio, che pur producendo un ottimo vino, non riesce a ricalcare lo stile di Antoine.

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