L’educazione tecnica e sentimentale al vino attraverso alcune fasi maniacali (e un esempio concreto)

L’educazione tecnica e sentimentale al vino attraverso alcune fasi maniacali (e un esempio concreto)

di Gianluca Rossetti

C’è stata una fase specifica nell’apprendimento delle cose sul vino, dopo gli studi sommelieristici e il petting iniziale con la materia prima, in cui ho cercato la purezza, la forma espressiva tipica di un vitigno; quella che per forza dovevo conoscere per poi andare oltre; quella che in un vino fatto con determinate uve doveva esserci assolutamente. Quindi, a cascata, la ricerca della forma espressiva prima e innegabile di un territorio. Clima, geologia, esposizione, latitudine, come matrice del DNA di una bottiglia. Di cui possedere i segreti. Poi drammaticamente, visti gli sforzi, è arrivato un momento in cui mi sono dannato per una sintesi tra questi due capisaldi (vitigno e terroir) alla ricerca del genius loci, quadrando il cerchio con esiti talora divertenti. Perché è esercizio che solo quelli bravi davvero possono permettersi.

Esempi? Due, tratti a caso da un dialogo immaginario tra un neofita compiaciuto (A) e il suo pragmatico interlocutore (B), scritturabili, volendo, al posto dei nonnini del Muppet Show:

A: Avverti la mineralità, tipica del terroir, che si accompagna ai sentori primari, non appesantiti dal legno? E che freschezza. Un marchio di fabbrica dello Chablis.
B: E di mille altre cose.
A: I suoli vulcanici dell’Etna si sentono nel calice ma prevale l’animo freddo, nordico del Nerello, coi suoi nettissimi richiami borgognoni.
B: Come no. Per non parlare dei 14,5% alcol: nettissimo richiamo borgognone pure quello.

Tornando a bomba, ognuna delle fasi di questa sorta di educazione tecnica e sentimentale al vino, che ciascuno gestisce a modo suo, offre un inciampo: la tendenza a irrigidirsi sulle nozioni appena apprese, anzitutto. Unito alla mancanza inevitabile di una visione d’assieme che, forse, solo dopo arriverà. Impostazione che mi ha portato in anni recenti, ad acquistare principalmente vini da monovitigno. Nati in luoghi dalla fisiologia marcata. Con poco o niente legno. E pratiche delicate in vigna e cantina. L’ho fatto scientemente, all’inizio, perché volevo imparare e pensavo fosse un buon metodo. Ma poi è diventato un costume. L’effetto collaterale è una sorta di analfabetismo funzionale che impedisce o rallenta. Bevi e mentre bevi cerchi un archetipo, un termine di paragone, perdendo di vista quello che hai tra i denti. E poi inizi ad escludere dal tuo campo di vista famiglie intere di prodotti se non intere aree produttive. Tarando i sensi e adattando le sensibilità ai vini che preferisci. Una follia, soprattutto se si è agli inizi. Ho deciso di uscirne.

FuflusEd è stato di aiuto incontrare, tra gli altri, un vino prodotto nella bassa Vallagarina; da suoli calcarei, coperti di vigne che arginano l’Adige: Fuflus 2011, Azienda Agricola Vallarom. Cabernet sauvignon, syrah, merlot, cabernet franc. Barrique per diciotto mesi poi altrettanti in vetro prima della commercializzazione. Certo, è vino biologico: opera di un Filippo Scienza che fa quasi tutto da solo intervenendo comunque poco, soprattutto in cantina, e che studia costantemente come ridurre l’impatto ambientale della sua attività: dalle bottiglie con meno vetro alla scelta dei materiali per le etichette, fino alla quasi totale autosufficienza energetica in azienda. Ancora dalle parti di questi dannati bio-qualcosa mi ritrovo. Ma ci sta: non è che si diventi pompieri da incendiari in un giorno solo.

Il vino è maledettamente buono, con un legno cui non ti viene da pensare spesso, e fruttato di bacche rosse mature più che di confettura. Trama alcolica discreta (13%) e tannini già smussati. Balsamico di eucalipto, profuma di panpepato, scatola di sigari ed erbe officinali. Il piacere è nella vivacità. Il velluto iniziale e la struttura sono solo una parte del gioco, perché ci si ritrova presto su altre coordinate: segnate dalla freschezza e dalla persistenza. Angolo di rotta che non ho impostato io ma che proprio lì mi porta. È uno di quei casi in cui ti penti di aver comprato una sola bottiglia. Ma io so perché ne ho comprato una. Che Dio maledica la mia diffidenza per le uve dei Galli in trasferta.

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Gianluca Rossetti

Nato in Germania da papà leccese e mamma nissena. Vissuto tra Nord Reno westfalia, Galatina (Le) e Siena dove ho fatto finta di studiare legge per un lustro buono, ostinandomi senza motivo a passare esami con profitto. Intorno ai venti ho deciso di smettere. Sai com'è, alla fine si cresce. Sommelier Ais dal 2012, scrivo abbastanza regolarmente sul sito di Ais Sardegna. Sardegna dove vivo e lavoro da diciotto anni. Sono impiegato nella PA. Tralascerei i dettagli. Poi la musica. Più che suonare maltratto le mie numerose chitarre. E amo senza riserve rock prog blues jazz pur non venendo ricambiato. Dimenticavo, ho un sacco di amici importanti ma non mi si filano di pezza.

1 Commento

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sergio

circa 7 anni fa - Link

"Una follia, soprattutto se si è agli inizi. Ho deciso di uscirne."(G R) E' una frase che incomincia a diffondersi anche in chi ha frequentato i social network e, seppur i numeri dicono il contrario, c'è chi parla di inizio di un declino di un nuovo tipo di OSSESSIONE collettiva. PS Tutta la prima parte introduttiva è interessante perché si può applicare anche in altri ambiti e evidenzia i caratteri nevrotici di una qualunque passione anche da me sperimentati. Siamo sicuri che sia facile uscire dalle dolci follie in cui entriamo? Leggendo i blog mi sembra che molti siano felicemente immersi in una follia ... da cui non vogliono uscire.

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