Le annate non contano nulla? Non facciamo i furbi

Le annate non contano nulla? Non facciamo i furbi

di Pietro Stara

Sarebbe meglio che non facessimo troppo i furbi: affermare che le annate non contano nulla è un po’ come sostenere che il consumo dei giorni, con tutti i suoi ammennicoli e trastulli vari, non avrebbe alcun esito sulla nostre vite. È certo che la nostra memoria tende argutamente ad evitare trascorsi eccessivamente lunghi sia che essi vengano proposti in tempi scolastici, in tempi solari o in tempi puramente calendariali. Per comodità, per praticità, per potere o per misticismo, oppure semplicemente per non arrivare in ritardo al primo e decisivo appuntamento amoroso, l’essere umano si è trascinato nel corso dei millenni a scandagliare e misurare epoche, ere, anni, mesi, giorni.

A volte in modo talmente orrido da stimarle in equivalenze di denaro. Giureconsulti, agronomi, astronomi, chimici, industriali, cronometristi e poi caste sacerdotali e politiche, chiromanti, filosofi, guardialinee e addetti ai tempi di recupero si sono incessantemente guerreggiati sul senso sacro e profano del tempo: sulla sua continuità, sulla sua percezione, sulla sua misurabilità e interiorizzazione, sulle sue possibili sospensioni, sulle sue rarefazioni e, per finire, sul temporeggiamento o anche detto del “quarto d’ora accademico” (una delle più notevoli sottrazioni di flusso cronologico mai immaginate dal genere umano). Si sta parlando, come potete immaginare, di grandi numeri, di grandi cifre, di grandi esempi: la nostra memoria, grazie a madre Natura, è bislacca, spesso fa cilecca, talvolta sottrae il generale per ricondurlo al particolare.

Una memoria mai paga del proprio disturbo narcisistico della personalità: dapprima riporta a sé le particolarità e poi le assolutizza entro un piano teorico assiomatico e indiscutibile: si parte con la vendemmia del 1953, anticipata da piogge costanti e persistenti, in quell’angolo di Langa Tortoniana, intercalata da strati di marne più o meno importanti, subito dopo l’approvazione della Legge Truffa (31 marzo 1953 n. 148/1953) e le successive elezioni del 3 di giugno, affiancata dal lieto evento della nascita della sorellina o del fratellino con i quali si sarebbe poi litigato per i successivi 40 anni, e si arriva all’ipostatizzazione della vendemmia del 1953 che prenderà le sembianze, sicure e generali, della Tragica Vendemmia del 1953. E il vino, per legge, la sua misurazione del tempo, che è poi anche una misurazione indiretta della qualità ipotizzata, ce l’ha in etichetta: “Quell’anno non abbiamo fatto il Barolo”; “quell’altro abbiamo declassato il Brunello”, ricaduta su ricaduta. Oppure le grandi annate: 1958, 1961, 1964; quelle da far lacrimare dalla gioia come il 1971 o il 1982 che inaugurava il Secondo Governo Spadolini per un totale insperato di ben 100 giorni di reggenza repubblicana (23 agosto 1982 – 2 dicembre 1982).

Certo, si può anche far finta che, in fondo in fondo, dell’annata non ce ne può fregare nulla, e in questo sicuramente il prezzo aiuta (se è basso). Ma lo scoglio più grosso che dobbiamo superare è il meccanismo del processo associativo automatico preventivo e pregiudiziale, da me reso in acronimo come p.a.a.p.p. (spero che entri presto nella nuova terminologia della degustazione con pari dignità della p.a.i. cioè della persistenza aromatica intensa).

Vigneto di Rapp

Quaggiù al Nord, come tutti sanno, nel 2014 il meteo è stato pazzerello: pioggia in abbondanza, grandinate a piacere, temperature più basse della media ponderata degli ultimi sessantamila anni, luce fioca e non ben distribuita. So già che nel 2210 l’Enoteca Regionale del Barolo Venusiano scriverà che è stata una pessima annata. E come dargli torto. Però capita, e mi è capitato spesso in questi tempi, di assaggiare alcuni vini targati vendemmia 2014 di rara fattura. Certo, manco a dirlo ho dovuto porre alle strette l’Io, l’Es e il Super-Io: li ho minacciati contemporaneamente, poi li ho messi uno contro l’altro e per finirli me ne sono andato al bar facendo finta di niente. In questo modo ho abbassato la soglia del mio p.a.a.p.p. (ho fiducia che lo abbiate memorizzato) e mi sono bevuto, proprio bevuto, il Rapp 2014 di Rocco di Carpeneto. Rapp non è un acronimo (nell’Ovadese non glielo avrebbero permesso perché sono in disuso dal 1911) ma è un barbera intenzionale, volutamente declassato, spontaneamente lievitato e lungamente maturato in botti grandi, tant’è che è finto in bottiglia nel 2016. Dodici gradi e mezzo e nulla più.

Mamma mia, come canticchiavano gli Abba: sarà che avevo cucinato i cappelletti in brodo, sarà che ero appeno tornato dai monti, sarà che avevo vinto il torneo di ramino dell’appartamento, sarà perché ti amo, come stornellavano i Ricchi e Poveri, ma quel vino mi è parso garbatamente come la compiuta armonia delle parti sul tutto. O forse nulla a discapito di nient’altro. Si sa che Lidia e Paolo ci tengono alle sferzanti e fresche durezze dei vini. Se poi parliamo di barbera sarebbe forse meglio non parlarne: ma quale leggerezza e leggiadria, quali toni sottili e ricchezze fruttate, quale sapida terrosità, quale alcolicità ben misurata e stupendamente congeniata! E pensare che si trattava solo di un fottutissimo 2014!

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

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