L’Aqua Crua è un ristorante con la cucina bene in vista

L’Aqua Crua è un ristorante con la cucina bene in vista

di Lisa Foletti

L’amenità dei Colli Berici in una radiosa giornata di ottobre dimora nei colori che la natura restituisce generosamente in un’orgia di sfumature calde, spatolate a tempera sull’orizzonte. Belle da togliere il fiato le vigne docilmente ammansite e ordinate in filari a perdita d’occhio, talvolta scarmigliate nel loro mélange verde-giallo-ocra-rosso-bruno.

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Si è dunque predisposti alla bellezza, e già in parte ristorati, quando si giunge all’Aqua Crua, nella piazzetta di Barbarano Vicentino. Un piccolo déhor accoglie gli ospiti, che possono subito abbandonarsi alle cure di Mattia Ruffilli e Andrea Curatolo, maître e sommelier, tra salatini home-made e flûte di Stefanago Ancestrale di Castello di Stefanago, bollicina rustica e polposa dell’Oltrepò Pavese, che funge da perfetto apripista. Ci si trasferisce poi all’interno, nella sala ariosa e modernamente rifinita, con ampi tavoli rotondi dai quali è possibile osservare un’operosissima cucina a vista.

Lo chef Giuliano Baldessari è un quarantenne dall’aria finemente curata, sapiente, simpatico senza irruenza, misurato e disinvolto allo stesso tempo. Chef di esperienza e mestiere (prima di aprire il suo ristorante, nel 2014, è stato per 10 anni sous chef di Alajmo alle Calandre), è tra i pochi che si sono fatti coinvolgere dal circo mediatico dei talent show culinari senza restarne soggiogati: la sua partecipazione come giudice a “Top Chef”, invero, non gli ha fatto perdere un grammo di senso della cucina e dell’ospitalità.
La scelta del menu ricade sul percorso di degustazione più lungo, Iniziazione, una proposta in continua evoluzione che racchiude le nuove idee dello chef; per le bevande si decide di rimettersi fiduciosi al sommelier.

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Come spesso accade a “quelli bravi”, la cucina di Baldessari gli somiglia: colta ma non manierata, raffinata senza peccare di sostanza, giocosa ma solida. Si inizia con alcune delle sue “illusioni”, piccole entrée che mirano a disorientare i sensi: il sandwich con il finto bratwurst di carota affumicata, la simil fetta di bresaola realizzata con un estratto di acqua di pomodoro, la pralina di fegatini e nocciole a simulare un cioccolatino rocher, l’anello (nella sua custodia) modellato con pasta sfoglia croccante e impreziosito da maionese di cavolfiore e uova di salmone; ad accompagnare questi assaggi lo Stefanago Cruasé di Castello di Stefanago, rosé ancestrale dal corpo snello e dall’allure vinosa e poco sferzante, che recita da buon comprimario. A seguire, le sfere di mozzarella dal cuore liquido di acqua di pomodoro, una piacevole deflagrazione di freschezza in abbinamento al Furore di Marina Cuomo: più che il vino (sempre solare e pieno) può l’accostamento, qui davvero vincente.

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Dopo i toni scherzosi, si cambia registro con alcune portate dalle tinte decisamente più spiccate. Ecco allora gli entusiasmanti rognoni di coniglio con salsa ai ricci di mare e zeste di arancia, dalla consistenza incredibilmente burrosa e dalla persistenza aromatica imponente, accompagnati dal Sydre Argelette di Eric Bordelet, ottenuto da agricoltura biodinamica con 20 diverse varietà di mele e rifermentazione in bottiglia, profumatissimo ed elegante.

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A sollecitare ulteriormente il palato arrivano poi le seducenti tagliatelle di alghe con salsa d’ostrica, capperi e polvere di spirulina, il mare in versione masticabile, un morso appena arrotondato da un giro d’olio EVO e abbinato a un Jasmine Tea di estrema pulizia, dal delicato profumo di gelsomino.

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A seguire, la tagliatella di grano saraceno con castagne e cavolfiore, presentata come un piccolo cannellone da tagliare a tagliatella (da qui il gioco di parole “tagliàtela/tagliatella”), accompagnata dal Gamay 2016 di Château Pierre-Bise, vino forse troppo succoso e fragrante per un piatto così cesellato.

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Voluttuoso il risotto al tagete con zenzero, peperoncino e arancio, caratterizzato da una cottura gustosamente tenace e da una stratificazione di sensazioni importante, valorizzato appieno dal riesling Rheingau Hochheimer Domdechaney First Growth 2008 di Schloss Schönborn, ricco e complesso, dal residuo zuccherino appena accennato e dalla preziosa vena acida.

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Con il pagro (marinato nell’acqua di mare) al tamarindo e polvere di paprika, sferzante e carnoso, arriva una vecchia conoscenza, L’Esprit de l’Horizon blanc 2013 di Domaine de l’Horizon (qui la mia recente degustazione), un sorso caldo della Francia meridionale, qui forse un poco sottotono, ma assai convincente in abbinamento al piatto. A seguire il succulento colombaccio con purea di sesamo, dove la cottura in padella del petto mantiene inalterato il sapore netto, sanguigno e vagamente selvatico della carne, senza privarla della sua tenerezza e della finezza; con lui, il NeroSanloré 2009 di Gulfi, nero d’Avola dal carattere fieramente mediterraneo, forse troppo materico e boisé per una carne tanto pura.

Un fresco sorbetto al mosto d’uva predispone le papille al dessert, ma lo chef sceglie di spiazzare i commensali con una fettina di cagliata di capretto (su callu de crabittu) accompagnata da chips di topinambur: un boccone talmente pastoso, penetrante, salivante, inebriante, che la Ribolla 2009 di Gravner, luminosa ma non al vertice della sua espressività, fatica a tenergli testa.

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Chiusura di pasto nuovamente scherzosa, con un grosso gnomo (in plastica) dai baffi di cioccolato e dalla coda di gelato. Forse si è avvertita la mancanza di un grande dessert, cui ormai gli chef ci hanno abituati; ma la dolcezza si è percepita nelle chiacchiere aperte, nelle attenzioni garbate, e perfino nel cinguettio leggero degli uccellini custoditi nella bella voliera all’ingresso del ristorante.

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Lisa Foletti

Classe 1978, ingegnere civile, teatrante, musicista e ballerina di tango, si avvicina al mondo del vino da adulta, per pura passione. Dopo il diploma da sommelier, entusiasmo e curiosità per l’enogastronomia iniziano a tirarla per il bavero della giacca, portandola ad accettare la proposta di un apprendistato al Ristorante Marconi di Sasso Marconi (BO), dove è sedotta dall’Arte del Servizio al punto tale da abbandonare il lavoro di ingegnere per dedicarsi professionalmente al vino e alla ristorazione, dapprima a Milano, poi di nuovo a Bologna, la sua città. Oggi alterna i panni di sommelier, reporter, oste e cantastorie.

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