L’acida creatività dell’Arrogant Sour Festival 2018 di Reggio Emilia

L’acida creatività dell’Arrogant Sour Festival 2018 di Reggio Emilia

di Thomas Pennazzi

L’Arrogant Sour Festival è una manifestazione brassicola che si tiene ormai da sei anni a Reggio Emilia ai primi giorni di giugno. Nata come vetrina di una particolare categoria di birre, le acide, frequentata da pochi beer geek, negli anni ha saputo diventare una rassegna di settore tra le più importanti d’Europa.

Inutile dire che nei tre giorni in cui questo circo alza il tendone, passa di qua il meglio della scena europea, tra produttori, tavernieri e spinatori, ed esperti e divulgatori, il Who’s Who delle birre acide ed oltre, insomma. L’ambiente ed i suoi frequentatori ve li ho già raccontati qui e qui gli anni scorsi: rimarcare quanto un festival della birra sia distante da una qualunque fiera del vino fa capire immediatamente che i due pubblici non si sovrappongono, nemmeno quando si tratti di fiere del vino naturale, che pure hanno molto più in comune con queste birre che con tutto il resto del mondo malto. Basterebbe ricordarvi le dozzine e dozzine di birre a fermentazione spontanea (con lieviti selvaggi) servite in questi giorni.

Suona quindi insolito (ma non così tanto, in fondo) che quest’anno sia stato organizzato un angolo dedicato ai vini naturali, a cura dell’Ortica Garden Wine di Bologna: fuori contesto, in parte per la preponderante attrazione esercitata dalle birre, e – se si voleva avvicinare il pubblico al vino – soprattutto per l’infelice collocazione al di fuori del chiostro. Ne parlavo con Fiorenzo che era con me, e nelle chat successive mi scriveva appunto questo – che qui copio e incollo, per riportarvi anche le sue impressioni:

Ci sarebbe da ridire sulla presenza dei vini naturali, nella giornata di domenica. Qualcosa mi pare non del tutto a posto: assaggiare quei vini con la formula dei gettoni, in un’area purtroppo surriscaldata con quel bel clima da sud est asiatico sotto la tensostruttura mi è sembrato parecchio difficile. A parte la spesa, sei gettoni (sei euro) per bere Radikon nel bicchiere molto vissuto della birra, bisognava per forza resettare il bicchiere ogni volta, senza contare che con quella stessa cifra bevevi due birre servite perfettamente. Oppure la cosa si può vedere nell’altro modo antropologico del quartierino: “bevi e non rompere il cazzo”, che oh, basta intendersi, allora bene così. Però boh, quei vini là fuori mi sono sembrati un’occasione sprecata.

Tra l’altro l’iniziativa meritava, per tante belle bottiglie centrate su Emilia e Slovenia, con la presenza di alcuni produttori di culto come Giulio Armani. Peccato.

Ma veniamo al sodo: questa piazza universale di tutte le birre – acide – del mondo, grazie alle sessanta spine operative sull’interminabile bancone, più quelle della bottaia collocate nel chiostrino, offriva un panorama il più esauriente possibile della scena sour mondiale. Birre italiane, molte, belghe, ovviamente, altrettante dagli Stati Uniti, ma anche da Austria, Spagna, Inghilterra, Olanda, Russia, Norvegia, Svizzera, Germania, Francia, Cechia, Slovenia e Polonia. Tantissimi i birrifici di culto, che potete leggere sul sito dell’evento, e che avranno fatto salivare gli appassionati e almeno un paio dei redattori di Intrabirra (ops, scusate, Intravino), loro malgrado assenti.

Organizzazione rodatissima, ottimi spuntini, e servizio di spillatura quasi perfetto: unica e spiacevole nota stonata, il sensibile aumento dei prezzi delle spine, che induce a bere meno selezionando molto, mentre il bello dell’Arrogant è essere curiosi, e lasciarsi travolgere dal caso. Ad ogni buon conto venite al festival ben provvisti di contante.

Gli assaggi: anche stavolta parecchi, non sempre quelli desiderati perché la rotazione delle spine alla domenica è stata minore, ma si sono potuti scoprire parecchi bicchieri solidi per mano e creatività, e ogni tanto qualche curioso fuori programma. Resta il dubbio sulla reperibilità di queste birre, temo molto difficile anche nei locali specializzati.

► La Brasserie du Mont Salève (FRA): Savagnin Barrique – 6°
Giovane birrificio poco distante da Ginevra, nato nel 2010, offre qualche decina di birre tra il classico e l’innovativo.

Questa French Grape Ale è scura, dal naso fruttato e vinoso; all’assaggio è corposa, rotonda, pur se non invadente, con lievi note acide e dolci. Finisce lievemente astringente. Notevole, come primo bicchiere.

► Klanbarrique (ITA): Flos Alba Bergamotto – 5,7°
Birrificio trentino, la sede è a Trambileno nella valle che da Rovereto sale al Pasubio, e per programma contamina birra e vino. Filiazione del Birrificio Italiano, realtà luminosa della scena birraria in salsa lombarda, unisce il talento del suo fondatore con quelli dell’enologo della cantina de Tarczal di Isera e del kellermeister della tirolese Kellerei Kaltern. Ce n’è abbastanza per incuriosirsi, vero?

Birra chiara ad altra fermentazione, affinata in botti di vino rosso, con aggiunta di bergamotti. Al naso spara acidità, e così in bocca: citrica, acida, beverina, è una sour fruit ale a base di frumento che unisce freschezza a selvaggia brutalità. Ma pulisce la bocca meravigliosamente.

► Birrificio del Doge (ITA): Dogaressa Bianca – 6,5°
Qui son veneti, anzi trevisani, e questa loro sour fruit ale è davvero creativa: fatta con mosto di malto e di frumento in parti uguali, è aromatizzata con i frutti del gelso bianco. Ci regala un naso profumato, intenso ed avvolgente, molto bello, ma in bocca si comporta come un succo di pompelmo col suo amaro, che spegne il goloso frutto, abbandonato a languire sullo sfondo. Che gli sia scappata di mano l’acidità, al birraio? Fosse stata un po’ meno feroce, sarebbe una birra adorabile. Lascia però la bocca pronta per una nuova bevuta.

► Wild Creatures (CZE): Head Over Heels – 5,5°
Ci si può innamorare di questa birra bruna e cioccolatosa? Sì, specialmente se a farla è una coppia di brasso-vignaioli boemi che ci era stata raccomandata da Jean Van Roy in persona l’anno scorso: lieviti selvaggi e lunghe maturazioni in barriques sono la cifra del progetto.

Naso amarognolo, un’idea di pienezza, e la ciliegia che arriva all’improvviso. L’attacco in bocca è lievemente acido, con leggera astringenza, e corrisponde al millimetro alle promesse olfattive: il sorso è squisitamente pieno, con pennellate di ciliegie. La bevuta termina acida con tanto frutto, in perfetto equilibrio. Bravi!

► Brouwerij Vandenbroek (OLA): Quetsche – 5°
Il piccolo birrificio è a conduzione familiare, la filosofia è artigianale con minimo intervento tecnologico: il birraio Toon Vandenbroek fa le sue cotte sul fuoco a legna, ed il raffreddamento con la koelschip, privilegiando gli invecchiamenti in botte.

Questo fruit lambic di colore aranciato scuro è preparato con una varietà transalpina di prugne e maturato in botte: offre al naso un profumo delizioso di frutta e vaniglia, mentre bevuto si rivela complesso d’acidità con nota amarognola, e tanto, tanto frutto; è molto bilanciato. Il finale è citrico, con leggero gusto amaro, ed il frutto ancora in vista. La (mia) miglior bevuta del festival. Bravi!

► Cherry Kers – 7,4°
La seconda birra della Vandenbroek, una bruna maturata sulla frutta, si apre timidamente al naso; al palato l’acidità è robusta su un corpo pieno; la ciliegia esce lentamente ma persiste sul finale, amaro e ben equilibrato. Gustosa.

► Birrificio Bionoc’ (ITA): Albicoppe – 8°
Già l’anno scorso questo birrificio artigianale dolomitico mi aveva incuriosito con una bella bevuta. Rimesso alla prova con questa sour ale che grida al naso “frutto, frutto, frutto!”, la supera di slancio. Il birraio integralista Nicola Coppe sa il fatto suo. La tessitura acida di questa birra si avvolge nelle albicocche creando un equilibrio perfetto. Tra i migliori bicchieri della giornata emiliana.

► Lobik Craft Brewery (SLO): Marquis de Myrtille – 8°
Giovanissimo (2016) microbirrificio di Maribor: di loro ci dicono “giovani, senza paura, ed istruiti”. La scena brassicola slovena è in piena effervescenza, e non passa anno senza che nascano nuovi protagonisti. Curiosare in queste contrade può riservare belle sorprese, oppure tremende delusioni.

A Reggio ci spinano una red flemish complicata: fermentazione spontanea per 4 mesi in acciaio, poi altrettanto tempo in botte di vino, infine macerazione per altri 3 mesi su 200 grammi di mirtilli per litro. Naso appena accennato, il mirtillo esce sulla distanza. L’acidità è spenta dalla dolcezza del frutto, che si fonde nella birra e resta poco in vista. In bocca il gusto si divide in due: sul palato si percepisce il frutto dolce, sulla lingua l’acidità. L’alcool? Non ci crederete: non pervenuto.

► De Garde Brewing (USA): Nelson Hose – 4°
Questo microbirrificio a un centinaio di km da Portland (Oregon) fa affidamento su fermentazioni spontanee e maturazione della birra in botte per mesi o anni, e sull’aggiunta di ingredienti locali. “A truly wild brewery” è il loro claim (dal 2013).

La Nelson Hose è una birra tipo Gose, con dry hopping di aromaticissimo luppolo neo-zelandese Nelson Sauvin, ed invecchiamento in botte con aggiunta di coriandolo e scorze d’arancia. Tropicale (passiflora) al naso ed in bocca, e anche un poco erbacea, sauvignon-esca appunto, questa luppolatura estrema è sostenuta da una base brutalmente acida e piuttosto effervescente. Facile da scambiare con un puro succo di pompelmo con aggiunta di succhi tropicali. Molto american style, ma dissetante.

► Lindheim Ølkompani (NOR): Jacobs Hage – 4,7°
Giovane coppia che gestisce dal 2013 un frutteto e un microbirrificio in quel di Lindheim, Norvegia. Pochi mesi dopo aver iniziato, il sito Ratebeer piazzava Ingeborg ed Eivin al 5° posto sui 3800 nuovi birrifici aperti nel 2014. La loro ispirazione viene dalla Westcoast USA e dal Belgio.

Jacobs Hage è una Gose in salsa norvegese con lamponi, coriandolo, e luppolo Willamette. Si presenta torbida e rosata pallida, ma il naso è un cestino di lamponi freschi e profumatissimi. Sorseggiata, offre un’acidità contenuta impastata ad una leggera dolcezza. Fresca come un’estate norvegese e beverina, potrebbe avere un po’ più di corpo, ma è una birra sbarazzina; non pretendete l’impossibile!

► Brouwerij Hof Ten Dormaal (BEL): Stekelbees – 6°
Finalmente in Belgio, a Tildonk, con una fattoria brassicola che ha tutto in casa. Orzo, luppolo, e lievito se li coltiva da sé, poi ci fa la birra, dal 2009. Distrutta in un incendio nel 2015, è rinata dalle sue ceneri raddoppiando la produzione. Ed è pure 100% ecosostenibile.

Stekelbees vuol dire uva spina, un frutto poco conosciuto da noi, ma di cui da bambino ero ghiotto, solo se spolverato di zucchero, però. Questa Wild Ale è anch’essa selvaggiamente acida, ed un po’ lattica, con poca schiuma. Il frutto si riconosce solo sul finale.

► Baladin (ITA): Xyauyù Special Reserva – 13,5°
Chiudiamo le degustazioni col botto, anzi con la botte. Baladin non ha certo bisogno di presentazioni. Un barley wine nemmeno, dovreste sapere cos’è: una birra drammaticamente fuori contesto a giugno, perché sarebbe piuttosto un bicchiere da centellinare a Natale davanti al caminetto. E se non lo sapete, pensate ad uno Jerez Pedro Ximenez, e ne avrete in un istante l’immagine corrispondente. Di fatto senza schiuma né carbonazione, il suo sorso è liquoroso, potente, dolce e speziato, intensamente aromatico e grasso. L’invecchiamento in barili ex-rum ne sovraccarica le note alcoliche e ossidative. Fantastica.

That’s all, folks.

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto fatica a ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito (il cognac), e per qualche anno ne ha scritto in rete sotto pseudonimo.

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