La vigna, la vita e altre storie: intervista a Marco Beltramo

La vigna, la vita e altre storie: intervista a Marco Beltramo

di Davide Bassani

Sfido i lettori – quelli più in erba dico, non gli esperti con la cartina sempre sottobraccio – a collegare il Monviso e contestualmente la sua zona pedemontana ad una bottiglia, ad un vitigno, ad una DOC. C’è del Nebbiolo, il Re a cavallo tra i vitigni del Piemonte, ci sono i palafrenieri Barbera e Dolcetto e poi diversi fidi cortigiani e sudditi quali Malvasia moscata, Freisa, Chatus, Becuet, Avanà, Avarengo…

La realtà è che ho bisogno di un Nebbiolo da abbinare al leggendario brasato della zia – quest’anno unicamente in versione asporto, ci accontentiamo – e a Barolo e Barbaresco pago sempre tributo. Volevo diversificare. Chiamo Marco Beltramo, pinerolese (la DOC) di Barge e mi ci accordo per una consegna. Poi scatta la chiacchierata ed io, per dover di cronaca, trascrivo…

Visto il periodo, cosa è stato e soprattutto cosa non è stato, cosa è mancato – se è mancato – dalle istituzioni?
Domanda difficile. Su due piedi non saprei bene cosa risponderti, anche perché noi siamo in secondo piano rispetto a chi è andata veramente male (i ristoratori ndr). Qualcosa comunque è stato fatto: il ministero delle politiche agricole concede contributi per ogni ettolitro di vino che rimane in azienda. Cosa che ha funzionato con l’industria, non con chi è artigiano del vino, visti i piccoli numeri. Mettici poi che i grandi gruppi lavorano con la GDO (tra le poche realtà a non fermarsi durante il primo e più severo confinamento ndr) e forse per loro non è poi andata così male. Il piccolino è quello che ha sofferto di più.

So che sei membro FIVI. Da loro che riscontri hai avuto?
Ricordo che erano molto scettici sulla vendemmia verde (l’obbiettivo del governo era il riequilibrio di un mercato in difficoltà ndr). Il punto è che questa decisione può essere giusta per un grande gruppo: se levi quel poco che c’è ad un piccolo che già punta sulla qualità non rimane nulla.

Durante una delle nostre conversazioni via mail hai evidenziato che la “gente è impazzita” posso chiederti come mai?
La gente è impazzita nel senso che – e me lo hanno riferito anche altri colleghi – c’è stata una grossa difficoltà sull’aspetto vendita. Qualcosa alle enoteche è stato venduto, forse anche in più rispetto agli anni scorsi, il problema è che alcuni esercenti hanno tardato gli acquisti arrivando agli ultimissimi giorni. Ti faccio un esempio: un mio cliente con il quale ci siamo sentiti i primi giorni di ottobre mi ha confidato che avrebbe ordinato dello champagne nel timore di rimanerne sprovvisto durante le festività per poi fermarsi con gli acquisti a causa del “limbo” pandemico. Solo che il limbo è arrivato fino ai primi di dicembre e ci siamo dovuti muovere con quest’ansia addosso.

Ho assaggiato la tua Barbera Ciocchetta 2017. Ad essere sincero, visto il tenore alcolico impegnativo (15°), mi aspettavo un vino più pesante, cosa che non è: la componente alcolica è ben gestita ed il legno si sente appena: come è andata?
Il 2017 è stato un anno caldissimo ed i 15° derivano da quello e la tendenza ad avere vini piuttosto alcolici si sta consolidando. Ritornando alla Ciocchetta, comunque, non è stato possibile tenere l’alcool basso. Abbiamo la fortuna di lavorare terreni sub-acidi che conferiscono al vino un’acidità piuttosto elevata ed in queste annate calde ci aiuta. Forse, tra i cambiamenti climatici, questo ci sta aiutando tant’è che questa elevata acidità nelle annate difficili come la 2014 diventa un problema. I profumi poi rimangono integri grazie all’importante sbalzo termico tra il giorno e la notte dato dal nostro ambiente pedemontano. Tutto questo aiuta nel non fare di un vino una marmellata.

Un altro assaggio interessante è stato il Madre etichetta Nera del 2017, un Nebbiolo in purezza affinato per metà in botte grande e per metà in barrique: che mi dici di questo vino? Non ha la potenzialità di invecchiamento di un Barolo, chiaramente, ma tu che riscontri hai avuto?
Ho fatto degli assaggi, non più in là dei 10 anni, ma devo dire che regge bene e sempre grazie, mi ripeto, ai terreni sub-acidi di cui disponiamo. Mettici poi che il Nebbiolo ha di per sé la sua innata longevità ed il quadro è completo. Un errore che facciamo noi produttori, un po’ per far cassa ed un po’ perché non siamo ancora riusciti a convincere il mercato, è che non proponiamo vini con qualche anno di affinamento sulle spalle. C’è però da aggiungere che ci manca la capacità produttiva, siamo una zona ancora troppo piccola. Tutto questo non è applicabile al solo Nebbiolo ma anche alla Barbera, finanche al Dolcetto. Un Dolcetto con un paio – o anche tre – anni di sosta in bottiglia è quasi sempre più buono di uno d’annata, ma andando a ruota della Langa siamo a nostra volta legati a questo filo logico. L’errore è stato “convincere” il mercato a bere Dolcetto giovane. Ora è difficile tornare indietro: nel pensar comune il Dolcetto è vino di annata.

Ed infatti quest’anno il Dolcetto a listino non l’ho trovato…
Ecco, appunto! È il problema che ti ho spiegato prima. Il Dolcetto oramai è vino di annata ed il suo mercato è molto complicato, mettici poi che ne avevo ancora un po’ di quello vecchio quindi, quest’anno, il Dolcetto non è stato imbottigliato. Aggiungici poi che la Barbera è vitigno poliedrico, buono da giovane ed in acciaio così come valido per l’affinamento in legno e capirai perché di Dolcetto se ne fa sempre meno. In assoluto è un vitigno ostico da coltivare e, detta fuori dai denti, è estremamente difficile sbagliare una Barbera: anche in un’annata storta ha il suo accumulo naturale di zuccheri, il Nebbiolo è già più impegnativo, ma il Dolcetto non ha ciccia, non regge bene il legno e nelle annate complicate è impegnativo; anche azzeccarlo nelle annate giuste è un problema – una Barbera con 15° la si può bere ma un Dolcetto a 14.5° no. Unisci questi fattori e capisci perché sta via via perdendo la sua strada.

Parliamo di Piemonte e parliamo di Langhe, Monferrato, Roero, Colli Tortonesi. Cosa manca al Pinerolese? Voglio dire, con Ghemme non parliamo di Langhe ma di un territorio abbastanza conosciuto, idem Gattinara e Boca, ci sono poi altre denominazioni come Lessona e Fara che stanno emergendo. Cosa manca al Pinerolese? Non dico per fare il botto di Tortona, arrivare lì è dura, forse manca la varietà guida e particolare, cosa non ha funzionato?
Discorso lungo e complesso. Provo a riassumere. La DOC è del ’96, quindi relativamente recente e fu voluta dalla ex Cantina Sociale. Inglobò tutti i vitigni presenti facendo una sorta di “foto” di quel periodo. Il risultato? Una denominazione molto ampia che va dal Dolcetto alla Bonarda, al Nebbiolo e così via. Non è venuta fuori una varietà che trainasse le altre; la Freisa ha la sua collocazione, la Barbera anche, la Bonarda idem. In secondo luogo negli anni sono emerse alcune aziende – comunque poche – che via via si sono affrancate dall’immagine della cantina sociale la quale, nel frattempo, ha avuto dei problemi con il prodotto, anche grazie al fatto che i conferitori non avessero tutto questo amore per il loro lavoro (…). Nel momento in cui le altre zone vinicole uscivano allo scoperto dalle nostre parti si è andati in senso contrario. In tempi meno recenti poi, e mi riferisco agli anni 60 e 70, Torino e la sua crescita industriale hanno eroso la forza lavoro dalle campagne e, ma questo in tempi più vicini a noi – attorno agli anni 80 –, la rimuneratività della frutticoltura era maggiore di quella del comparto vinicolo che è via via diventato marginale. Aggiungo poi che ci manca il numero: siamo solo 12 produttori, ci manca la forza, la voce, se fossimo di più forse si farebbe più rumore. Ad ogni modo ci sono prodotti interessanti, è ciò che emerge dalle varie degustazioni e guide, c’è anche qualche giovane e stiamo lavorando per la modifica del disciplinare introducendo la denominazione “Nebbiolo” – pare sia fattibile. Una cosa che potrebbe dare slancio – a parer mio – è un grande produttore che viene ad investire da noi: potrebbe trainare tutti gli altri. Noi, ripeto, siamo davvero pochi e tutti assieme non arriviamo a 200.000 bottiglie.

Domanda per il produttore: sui rossi usi sempre il legno, mai l’acciaio: come mai?
Son convinto che il legno dia qualcosa in più al vino. Anche un legno esausto può dare qualcosa attraverso la micro-ossigenazione, facendo maturare il vino in modo più omogeneo. I nostri vini sono duri, aspri, crudi. Con questo terreno fatto di argille rosse, sub-acido, quasi morenico, avere vini di pronta beva è difficile. Prendiamo il solito Dolcetto: quello che esce a Pasqua è pronto la Pasqua dopo: lo bevi, ma è molto chiuso e contratto. Il legno è necessario.

Scorrendo il tuo sito e le descrizioni del territorio e dei vini si nota una bassa resa per ettaro: il vitigno con la resa maggiore è la Malvasia moscata con 80 q.li/ha. Spiegami questa scelta.
È sempre “colpa” del terreno molto povero di cui disponiamo. Un mio amico geologo dice che si è generato dal disgregamento della montagna sulla pianura. Non sono particolarmente masochista nei diradamenti, ma devi arrivare con equilibrio in cantina, con le vigne vecchie poi fare quantità è difficile. Con le potature odierne, da 6/8 gemme, riuscire ad arrivare ai 100 q.li è praticamente impossibile, certo il letame lo posso anche portare ma più di tanto non ottieni e chi fa viticoltura con un certo impegno, anche da queste parti, punta sull’inerbimento totale del filare che innesca la competizione nella vite e le rese naturalmente si riducono. Noi abbiamo dovuto dimostrare che il vino buono si può fare e non c’è alternativa al lavoro in vigna.

Ti senti naturale?
Dunque, il discorso del naturale ora va molto di moda e vuol dire tutto e niente. Io sono per l’essere molto pragmatico: quando sei nella vigna il prodotto lo devi portare a casa; se non porti a casa nulla hai nulla – è la legge della campagna. Sinceramente, e detto con il massimo del rispetto e della stima, il vino che faceva mio nonno, o mio bisnonno, adesso non si potrebbe più vendere. Il vino per me è piacere, piacevolezza. Se deve essere uno sforzo prendo una medicina. Dicevo pragmatico perché ciò che faccio ha come fine l’arrivare ad un prodotto eccellente. Se porti a casa un prodotto perfetto (l’uva in cantina ndr) in cantina puoi solo sbagliare. Se hai un’uva meravigliosa non può uscire un vino scadente. Inerbisco perché di diserbo con gli anni se n’è abusato. Aggiungo poi che con il sotto-filare pulito il nutrimento arriva tutto alla vite la quale dà molto più lavoro, è più vigorosa, ritarda la maturazione: è un gioco a perdere. Io uso la confusione sessuale sulla tignoletta – la ritengo una misura intelligente. Per essere pragmatici, ancora una volta: nel momento in cui vai a fare il trattamento devi “beccare” il momento giusto altrimenti non serve a niente.

Il filo rosso che confonde la tignoletta (per la confusione sessuale della stessa ed impedirne la proliferazione ndr) invece lavora sempre e tu non devi stare a pensare a quale sia il momento buono. Uso poi rame e zolfo in minor quantità possibile e non credo a chi dice che non dà nulla alla vigna. Quantomeno nei nostri territori: non si può fare. È meglio un trattamento ogni tot. piuttosto che un trattamento sistematico. Sono per una lotta integrata, la ritengo una possibile mediazione e non in senso negativo, ma come compromesso al rialzo. La sostenibilità ambientale deve andare di pari passo con la sostenibilità economica. Non si va in vigna con i soli rame e zolfo: si usano i prodotti giusti al momento giusto. In cantina gli interventi sono pochi: pigio l’uva e lei fa tutto il suo processo, illimpidisco i vini per evitare che siano troppo “spessi” ed imbottiglio senza filtrazione. Ci tengo infine a precisare che i primi a tendere al naturale dobbiamo essere noi artigiani della vigna: siamo noi ad andarci tutti i giorni e a prendercene cura! Tutto questo con i compromessi a la pragmatica ragionevolezza che ci siamo detti e posti.

Cosa hai in mente per i prossimi anni? Esperimenti in cantiere?
Rispetto alle zone più famose non abbiamo una traccia da seguire, siamo liberi di sperimentare, facendoci stupire dal lavoro. Le mie ricerche attuali conducono ad una Malvasia moscata macerata sulle bucce, anche approfittando del grado di maturazione eccezionale delle uve di quest’anno. L’altro esperimento che vorrei mettere in pratica è la valorizzazione delle nostre uve locali come lo Chatus, la Neretta cuneese e molte altre; uve che prese singolarmente forse non danno vini di livello (ad eccezione del solo Chatus) ma che assemblate, probabilmente, possono dare qualcosa di interessante. La nostra storia, che parla di agricoltura di sussistenza, è testimone di vini “assemblati” con più vitigni in grado di dare un vino accettabile. Il difficile è trovare l’equilibrio, un carattere che desti interesse, anche in abbinamento con vitigni più blasonati. Il mio sogno nel cassetto è fare un Nebbiolo importante con vinificazione a cappello sommerso ed una macerazione di 30 giorni; attualmente macero con 15 giorni di contatto con le bucce a cappello emerso.

Non credi che la Malvasia moscata possa essere il Timorasso del Pinerolese?
Mah. Non credo che un vitigno aromatico possa arrivare ad essere il nostro Timorasso, forse con la macerazione sulle bucce possiamo arrivare a smussare questa aromaticità che non tutti gradiscono. Aggiungo poi che la critica, quella con la C maiuscola, con gli aromatici storce il naso. Non so se hanno ragione, su questo non mi esprimo e non ho pregiudizi.

È quindi più una congettura data dal momento storico più che dal valore intrinseco del vitigno?
Si, probabilmente sì. I grandi estimatori di bianchi in questi anni sono più per la neutralità anche se ritengo che il nostro territorio sia particolarmente vocato per i vitigni aromatici vista la nostra escursione termica.

Trentino e Alto Adige però vendono molto bene il loro Gewurztraminer. Ma forse hanno investito sull’immagine del loro territorio.
Vero. Loro sono stati bravi, ma hanno anche un potenziale ben diverso rispetto al nostro.

9 Commenti

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Gianni Margaria

circa 3 anni fa - Link

Interesante considerazione sui prodotti del nostro territorio

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Davide Bassani

circa 3 anni fa - Link

Grazie Gianni!

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Marco

circa 3 anni fa - Link

Davvero un bel post! Complimenti anche al produttore per la sua lucidità.

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Davide Bassani

circa 3 anni fa - Link

Troppo gentile Marco, davvero. :-)

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Arnaldo

circa 3 anni fa - Link

Ottimo articolo competente e sopratutto onesto e chiaro il produttore.

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Gurit

circa 3 anni fa - Link

Non ho capito se malvasia moscata è sinonimo di malvasia aromatica o è una cultivar a parte.

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Davide Bassani

circa 3 anni fa - Link

E' proprio un cultivar a se stante, una specie di "animale" (passatemi il termine ecco, giusto per capirsi) a metà strada tra la malvasia ed il moscato. Ha profumi che ricordano sia l'uno che l'altro vitigno, molto suadenti ed, appunto, aromatici.

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Paolo

circa 3 anni fa - Link

Leggendo l'articolo mi sono sentito dentro la vigna, dentro la cantina, a osservare le lavorazioni, ad ascoltare il confronto quotidiano di chi ci lavora con tutti i passaggi delicati del fare vino. Complimenti per l'articolo. Mi ha messo la curiosità di saperne di più e... di assaggiarli.

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Davide Bassani

circa 3 anni fa - Link

Grazie infinite Paolo!

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