La nouvelle vague vinicola delle Valli Piacentine

La nouvelle vague vinicola delle Valli Piacentine

di Massimiliano Ferrari

Sarà un azzardo ma sento di dire che oggi le valli piacentine mi ricordano la versione tutta mosti e fermentazioni di una Silicon Valley trasportata fra Trebbia e Arda. Non si prenda il paragone alla lettera, siamo pur sempre nella periferia dell’Emilia paranoica cantata dai CCCP, quindi meno high-tech, meno tecno-capitalismo, ma si percepisce la stessa sensazione di possibilità inesplorate, desiderio di scommettere e audacia produttiva.

Non ho la pretesa esaustiva di conoscere a fondo ogni distretto, territorio o denominazione dell’Italia vinicola ma poche mi sembrano possedere quell’orizzonte di possibilità, quell’incrocio di storia e futuro che possiede oggi il cosmo piacentino. Nomi storici si affiancano a nascenti piccoli produttori, cantine di lungo corso tallonate da realtà che si fanno strada magari sbagliando e aggiustando il tiro, cadendo ma veloci a rialzarsi.

Le vallate che disegnano la geografia piacentina sono un grande serbatoio di energie e di forze rinnovatrici che hanno saputo ridisegnare le coordinate di questo lembo di Emilia occidentale e, in certa misura, influenzare il panorama nazionale del vino.

Nomi come quelli di Giulio Armani, Elena Pantaleoni, Massimiliano Croci o Andrea Cervini sono entrati a pieno titolo negli annali del vino italiano. Le loro sono aziende che hanno tracciato un solco fondamentale nel fare vino anche al di fuori dei confini del Piacentino.

È un territorio che qualche decennio addietro, tanti, forse tutti, riconducevano ad una viticoltura tentacolare, dove i gangli nervosi appartenevano a grandi cantine sociali, conglomerati che si nutrivano di uve ed espellevano vini destinati alle corsie dei supermercati, bottiglie semplici e neutre adatte ad un consumo quasi bovino.

Oggi è (quasi) tutto cambiato. I grossi gruppi esistono ancora, floridi possessori di una fetta di mercato difficile da scalfire ma una rivoluzione dal basso, naturale, legata più alla terra e al territorio, ha guadagnato spazi e consensi.

Sognare non costa nulla e così durante la quarantena si è favoleggiato spesso di viaggi immaginifici, itinerari sulla carta, luoghi mitici da raggiungere. Alla fine, a conti fatti, la vicinanza delle valli piacentine ha preso il sopravvento, e così durante un’estate a libertà vigilata che ha mischiato il mazzo di carte e buttato all’aria programmi, progetti e partenze, il sapore delle cose conosciute, vicine, ha avuto la meglio.

Quindi Placentia sia, zona sempre chiacchierata e, in definitiva, mai approcciata. Ma poi è chiaro che si è perso presto il filo. E allora ecco sconfinamenti verso valle piccole e oscure, in cui i non-local faticano ad orientarsi e io con loro. Val Chero, Val Chiavenna, Val qualcosa… e tanti minuscoli produttori a farsi strada ad interpretare territori e uve. Che poi, le uve, son sempre quelle. Da una parte la falange rossa composta da barbera e bonarda, incontrastati dominatori della scena. Dall’altra ortrugo e malvasia di candia aromatica a dettar legge fra le bianche.

Aggirarsi per le valli piacentine diventa il riproporsi di un coast to coast in salsa emiliana. Si salta dalle terre rosse, argillose della Val Trebbia per arrivare alle sabbie marine della Val d’Arda appena prima di sfociare in territorio parmigiano.

Caricando in macchina curiosità e diversi assaggi fatti negli ultimi anni mi sono messo in strada per andare a trovare qualcuno di questi produttori e ragionare insieme su questa nouvelle vague tutta piacentina.

EMILIO MONTESISSA
Il primo approdo di questa versione alcolica del giro del giorno in ottanta mondi parte dalla cantina di Elisabetta Montesissa, piena Val Chero, a pochi passi da Carpaneto Piacentino.

Qui era tutto mare, mi spiega Elisabetta, se dai un calcio in terra spuntano conchiglie come fossimo in spiaggia. Come un San Tommaso diffidente sposto con il piede un monticello di terra ed ecco un piccolo fossile marino saltar fuori.

Elisabetta è una vignaiola seria e determinata che ha compiuto un percorso fatto anche di dubbi e incertezze sulla reale possibilità di fare vino e viverci.

Oggi i suoi vini viaggiano in Canada e negli Stati Uniti, dieci anni fa queste bottiglie non le voleva nessuno. Ma il suo tragitto non è un caso isolato. I produttori che oggi stanno scrivendo pagine nuove del vino di queste zone fanno bottiglie che fino a qualche anno fa venivano ironicamente additate, bizzarrie che facevano dar di gomito agli enologi.

Sarebbe tema da approfondire quello che vuole oggi sulla cresta dell’onda vini che fino a un decennio fa nessuno avrebbe voluto nei propri ristoranti o osterie nemmeno regalati. Oggi assistiamo ad un ribaltamento totale. Quei vini che puzzavano, spumavano, “scappavano” come il dialetto traduce quell’esuberanza di lieviti, oggi sono ricercati, ambiti ai quattro angoli del globo, da Londra a New York, da Tokyo a Parigi, tutti vogliono bere “bolle” emiliane.

In ogni caso i suoi vini sono meravigliosi vin de soif come direbbero i francesi, ven da ber per gli autoctoni più concreti. La sua Rosissima, rosato da salasso ottenuto da barbera e bonarda è bottiglia che vorrei con me sempre se fossi obbligato a scegliere cosa bere sulla fatidica isola deserta.

Ma allo stesso tempo l’assaggio di una Bonissima datata 2013, bianco da malvasia di Candia aromatica, ortrugo e un piccolo saldo di uve bianche autoctone, mi conferma per l’ennesima volta che chi pensa che i rifermentati in bottiglia siano vini che non reggono l’urto del tempo beh abbia capito zero di questa tipologia.

CANTINA CROCI
Ma attraversare la valle dell’Arda e non fare una sosta da Massimiliano Croci può essere visto come delitto di lesa maestà. Fa sorridere considerare Massimiliano come un “grande vecchio”, visto che non ha ancora quarant’anni ma tante vendemmie alle spalle e tante mani date a chi voleva iniziare a fare vino nella zona. Ma alla fine non ci si può tirare indietro nel giudicarlo come uno degli ispiratori e pionieri di quello stile neo-piacentino, come è stato felicemente definito, fatto di macerazione per i bianchi e rossi dalla tempra antica e vivace frizzantezza, un ritorno a vini che riportano alla mente sapori e profumi del tempo andato. Una madeleine in bottiglia, ecco.

L’appuntamento da Max Croci è ai primi giorni di agosto.

Croci è per tutti il Presidente, appellativo che qualcuno gli ha appioppato e gli calza bene. Sarà quell’aria serafica, quell’atteggiamento da Mr.Wolf, ok risolvo problemi, ma ci sta tutto.

Ad aspettarmi sulla collinetta dove si trova la cantina ci sono anche due ragazzi passati dalla “sua scuderia” e che da qualche anno stanno portando forze fresche confermando questi territori come un laboratorio a cielo aperto di sperimentazioni e nuovi vini.

Sono Claudio Campaner di Distina e Roberto Cristi ovvero La Poiesa. Del primo si è già parlato qui sulle pagine intraviniche, vignaiolo e distillatore di rango installato in un piccolo podere nel versante opposto dell’Arda dalle parti di Bacedasco, mentre Roberto ha messo radici da qualche anno nei dintorni di Carpaneto e ha iniziato la sua personale avventura con un vigneto ereditato dal nonno.

La mattina è di quelle belle, dove si trascorre il tempo ad assaggiare, bicchieri che si svuotano alla velocità delle chiacchiere, ci si confronta, si fanno le pulci ai ristoranti della zona, ci si svaga senza una direzione precisa.

Questi incontri che a volte sono anche scontri diventano moltiplicatori di esperienze, vissuto e proposte. Tutto questo diventa una sintesi di quello che è oggi la Valley piacentina.

Approfondisco i vini di Claudio e Roberto, espressioni veraci di questa visione tutta piacentina del fare vino ma senza essere omologati ai vini dei padri fondatori.

Pur lavorando più o meno con le stesse uve, la firma è personale, saranno i terreni differenti le esposizioni, la maruga (la testa) che c’è dietro, ma i vini sono diversissimi tra loro. Per quanto possa valere, la mia opinione è che i vini di Distina abbiano un calore maggiore, una materia più polposa con qualche debito di finezza. Gli assaggi della Poiesa mi sembrano andare in una direzione opposta. Più esili, più definiti con una freschezza che li mantiene in maggior tensione.

Ma quello che stupisce passando del tempo con questi ragazzi è il toccar con mano la nascita dal basso di un gruppo di amici prima che vignaioli, una rete senza protocolli o regole, un insieme di spiriti affini che ha creato una dinamica unica.

Unica nell’adesione ad un obiettivo comune cioè la trasmissione di un’idea di territorio e unica negli esiti, quelli di aver saputo, senza malizia né invidia, fare un fronte comune.

È lo stesso Croci a farsene portavoce. Prima che colleghi siamo un gruppo di amici al cui interno ci si confronta, si discute, si litiga anche, ma che non smette mai di darsi una mano. Il risultato? Un interesse crescente verso queste terre e i vini che produce.

Chi si sarebbe immaginato l’arrivo di un giapponese con l’intento di fare vino dalle parti della Val Trebbia? Il riferimento è a Shun Minowa di cui Graziano Nani ha tracciato un formidabile profilo.

Senza alzare la voce, mantenendo un profilo basso, queste persone sono riuscite a creare un’identità comune, un paesaggio reale da contrapporre alla visione che vuole il piacentino come terra di vini sfusi, cantinoni e bottiglie che ingolfano le corsie dei supermercati.

Mio padre mi dice sempre, ma che vantaggio ne hai?, con quella tipica maniera utilitaristica di soppesare impegno e guadagno che è insita nell’anima contadina di qui. Il vantaggio, è la risposta che ogni volta dà Massimiliano, è quello di far progredire un territorio, il nostro.

È cambiato anche il contesto di come si parla di vino, della comunicazione che gira intorno. Quando ho iniziato io si doveva andare sulle guide, la Guida era vista come l’Eldorado del produttore di vino. Oggi non c’è più questa urgenza. Oggi si crea un racconto che non è più quello dell’enologo, è la narrazione di un territorio, di un certo modo di porsi che risulta vincente. Capiamoci il ruolo del winemaker non è scomparso, ma la sua centralità nel racconto del vino è stata presa dal vignaiolo.

LA POIESA
In un ottobre che sembra un’estate tirata per le lunghe percorro altri chilometri per raggiungere La Poiesa e il suo ideatore.

La storia di Roberto Cristi è quasi un paradigma di tanti progetti legati al vino che si sono sviluppati negli ultimi anni, qui come altrove.

Nella più classica delle svolte biografiche Roberto, studi da geometra in quel di Torino, decide di tornare alle origini che hanno le sembianze di una cascina e di un podere fra Valnure e Valchero, nei pressi di Carpaneto Piacentino.

Nel podere c’è un vigneto, le uve sono quelle tradizionali, non si esce dal seminato. Ortrugo, malvasia, barbera e bonarda occupano circa quattro ettari, piantate in annate diverse, collocati su un leggero declivio che guarda verso sud-est.

La prima vendemmia reca l’anno 2016, vinificata nella cantina dell’onnipresente Croci che gli da una bella mano per iniziare. Escono circa 800 bottiglie di Burbero, l’ortrugo in purezza.

Qui Roberto ha da poco terminato la sua cantina ricavata da uno degli edifici che compongono la cascina. Ho finito pochi giorni prima di iniziare la vendemmia, un lavoraccio!

Per il momento sono quattro le etichette che si producono alla Poiesa. Il Filom, bianco da malvasia di Candia aromatica che fa una macerazione di circa dieci giorni, il Burbero  è un ortrugo in purezza anch’esso macerato e due rossi. Il Livione è la personale interpretazione che Roberto tira fuori da queste terre del classico uvaggio rosso cioè barbera e bonarda.

Infine la Marassa, solo barbera ma con passaggio in barrique. La marassa nel dialetto di qui è la roncola e l’analogia per chi mastica un pò di idioma locale è chiara: un vino tagliente, scontroso se si vuole ma di nerbo e tenacia.

Sono vini prodotti seguendo un protocollo naturale fatto di pochi interventi e tanto buon senso a cui la mano ispirata di Roberto dona finezza, pulizia e una gran capacità di farsi bere senza troppi pensieri. Ad avercene…

Un secondo lockdown si profila all’orizzonte e decido di esorcizzare il momento aprendo una bottiglia che Roberto mi ha regalato. È il Filom dell’annata disgraziata 2017, grandinata e caldo torrido sono stati gli ingredienti principali.

Quindi la apro con aspettative moderate, sono sincero, e con la paura di trovarmi di fronte un vino dal fiato corto, piegato dalle difficoltà stagionali.

Quello che mi ritrovo nel bicchiere, come nei migliori colpi di scena, è tutt’altro. Un vino energico, dal tono leggermente ossidativo ma ricco di materia, profumi e struttura. Una malvasia di Candia trasfigurata, capace di mantenere la propria identità aromatica, ma che sembra abbia trascorso giorni felici a Marsala o Château Chalon. La macerazione gli dona un bel grip grintoso, il frutto è integro e maturo e il sorso è un drappo di eleganza e pulizia. Vogliamo trovargli un difetto? Forse una nota alcolica appena fuori giri che punzecchia, ma parliamo comunque di un 2017, annata sahariana anche in queste zone.

È un vino fedele al territorio ma con uno sguardo che spazia a 360°, dove un’improbabile coesistenza fra innovazione e tradizione si realizza.

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Massimiliano Ferrari

Diviso fra pianura padana e alpi trentine, il vino per troppo tempo è quello che macchia le tovaglie alla domenica. Studi in editoria e comunicazione a Parma e poi Urbino. Bevo per anni senza arte né parte, poi la bottiglia giusta e la folgorazione. Da lì corsi AIS, ALMA e ora WSET. Imbrattacarte per quotidiani di provincia e piccoli editori prima, poi rappresentante e libero professionista. Domani chissà. Ah, ho fatto anche il sommelier in un ristorante stellato giusto il tempo per capire che preferivo berli i vini piuttosto che servirli.

6 Commenti

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Ale

circa 3 anni fa - Link

Ne vogliamo di più di articoli così. Fateci progettare i prossimi giri enoturistici che ora siamo tutti bloccati in zone dal colore caldo

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Max Cochetti

circa 3 anni fa - Link

Piacentino, Oltrepo, zone che potrebbero dare tantissimo, ma ancora ancorate alla produzione massiva del vino come se fosse grano o patate. Poi arrivano quei produttori che capiscono le potenzialità e gli si dedicano anima e corpo. Ed i risultati arrivano. Bellissimo articolo.

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Mauro

circa 3 anni fa - Link

Vorrei citare anche i bianchi della cantina Lusenti, specie le verticali di Malvasia. È un territorio di vero interesse e potenzialità. Poiesa incontrata l' anno scorso e il suo bianco, da malvasia mi ha convito un bel calice, davvero.

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Damiano

circa 3 anni fa - Link

Molto bello, zona eccezionale a cui sono molto legato ma anche solo aver dimenticato di citare Casè di Alberto Anguissola ( dove peraltro vinifica Shun) ....

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Massimiliano

circa 3 anni fa - Link

Assolutamente d'accordo con entrambi, sia Lusenti che Casè fanno vini territoriali e interessanti ma diciamo che questa era una ricognizione più focalizzata sulle valli dell'Arda e zone limitrofe. Prossimamente prometto un approfondimento anche di altre vallate piacentine!

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Eugenio Musetti

circa 3 anni fa - Link

ciao Lorenzo ,grazie a te abbiamo gustato il vino della cantina Croci tengo un bellissimo ricordo.

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