Il Soave secondo Umberto Portinari

Il Soave secondo Umberto Portinari

di Simone Di Vito

Soave, parola che evoca fin da subito un qualcosa di sopraffino, leggiadro, delizioso. Sinonimi che calzano a pennello con alcuni frutti di bacco prodotti in queste zone.

Quelli della FAO, infatti, nel 2018 hanno dimostrato di non dormire da piedi, dopo un percorso lungo una decina d’anni, portato avanti dal consorzio di tutela attraverso studi e pubblicazioni, hanno dichiarato il territorio di Soave patrimonio dell’umanità per l’agricoltura, un riconoscimento che ha portato la zona ad essere il primo paesaggio storico rurale italiano. Con questo vengono tutelati tutti i tratti tipici e distintivi di questa zona, come il sistema di allevamento a pergola veronese, i terrazzamenti con annessi muretti a secco, e l’appassimento delle uve per la produzione del recioto. Una denominazione, quella del Soave, che negli ultimi anni spinge a più non posso verso la strada della tipicità anche attraverso la parcellizzazione; ne fa esempio il recente sistema di unità geografiche aggiuntive realizzato, in cui troviamo riportati su mappa tutti i 33 cru di zona, dove ciascuno porta al suo interno caratteristiche, storie e distinzioni geografiche uniche, che ritroviamo poi nel bicchiere.

Trovandomi con due amici in Valpolicella, dopo i tanti assaggi e cantine, abbiamo pensato ad una pausa dai rossi spacca guance locali, così, previo appuntamento, ci siamo diretti a Brognoligo, minuta frazione in zona Soave, presso l’azienda di Umberto Portinari, realtà piccola ma dalle enormi potenzialità. Ci ha accolto Silvio, il figlio del titolare, che oltre ai tanti assaggi, ha raccontato le difficoltà che si incontrano portando avanti un’azienda con poco più di quattro ettari, in un territorio che invece vanta proprietari che si combattono a colpi di aree vitate e produzioni. La scelta di famiglia, a partire da Umberto, dal 1980, è stata sempre quella di puntare tutto sulla qualità, con rese basse e senza l’utilizzo di uve acquistate da terzi, valorizzando i propri vigneti con tecniche e lavorazioni specifiche, come vendemmia tardiva, o la d.m.r. (doppia maturazione ragionata).

Un metodo, quest’ultimo, che consiste in due livelli di maturazione delle uve, ottenuti mediante il taglio del capo a frutto, atto a lasciare in pianta metà dei grappoli produttivi, che andranno poi in surmaturazione; la restante metà appena recisa viene lasciata in vigna dove inizia il processo di appassimento. Una scelta, quella del taglio fatta in un momento ben preciso e quindi “ragionato”. Successivamente, trascorso un periodo di tempo di circa tre settimane (variabile a seconda dell’annata), le uve surmature e quelle appassite vengono raccolte, pigiate e vinificate insieme.

La produzione aziendale è concentrata interamente sulla garganega in purezza, con vini entry level come il soave Up (che per fortuna non è volkswagen), e lo spumante “Perle d’Oro” (charmat lungo), che fanno da ouverture a prodotti per me più interessanti sui quali mi soffermo con relative annate assaggiate.

– Soave classico superiore docg Ronchetto 2017; proveniente dall’omonimo cru aziendale, vigne con sistema a pergoletta veronese, impiantate negli anni 60’ su un suolo prettamente vulcanico; tipico esemplare di soave classico; naso fresco con lime ed erbe aromatiche, con un buon mix di sapidità e acidità in bocca, che già immagino abbinato con una pizza margherita.

– Soave doc Albare d.m.r. 2010, 2016; altro cru aziendale, suolo stavolta di origine alluvionale ricco di argilla; qui la magia inizia a bussare alla nostra porta, specie con l’annata più vecchia che in termini di evoluzione, a mio parere, ha ancora tanto da dare; avvicinato il bicchiere al naso infatti, un brivido da pelle d’oca ha colpito me e l’amico Marco, un’emozione che personalmente provo solo per alcuni brani musicali, quasi mai per un vino, da cui è stato piuttosto difficile estrapolare sentori, se non quelli di roccia picconata e le erbe aromatiche già riscontrate nel Ronchetto; non faccio fatica a credere che un naso più allenato del nostro ci avrebbe finito un taccuino. Al momento dell’assaggio dal colpo di fulmine siamo passati alla richiesta di nozze anticipate; una bocca intensa ma ordinata, con tutto al posto giusto, caratteristica tipica del grande vino, merito della doppia maturazione ragionata gestita magistralmente e di qualche anno in bottiglia per la 2010; chiusura da colossal strappalacrime con un finale lungo e leggermente ammandorlato. Da pazientare ancora per il millesimo 2016, decisamente più acerbo e duro del fratello maggiore.

– Soave doc Santo Stefano 2014; dopo il fidanzamento, troviamo l’amante perfetta; vendemmia tardiva sempre proveniente dal cru Albare; a differenza dei precedenti in cui si utilizza il solo acciaio inox, qui vinificazione e maturazione sono svolte in barrique per ventiquattro mesi, trascorsi i quali si passa ad altri due anni in bottiglia; un paglierino con riflessi oro che spara nel nostro naso sentori di camomilla, frutta gialla, zafferano, coriandolo, miele e tanti altri sentori che uscivano, come colpi di mitragliatrice gatling mano mano che agitavo il calice. Leggerissimo residuo zuccherino e misurata persistenza in bocca, con un bel sorso caldo, morbido, moderatamente acido, dal finale minerale pietroso. Un vino, a mio avviso, destinato a lunga vita, caratteristica che Silvio ci conferma mostrandoci un’ultima cassa di Santo Stefano 1986 pronta alla spedizione oltre oceano; pazzesco!

AnnaGiulia igt 2000; chiude il sipario degli assaggi quello che secondo noi non è un vino, ma un nettare degli dei. Ho omesso di parlarvi del loro recioto “Oro”, il quale sicuramente meritava più di una considerazione, ma purtroppo è stato oscurato dal “mostro” finale incontrato nell’ultimo round di degustazione. Un passito che nasce dall’idea di riprodurre sapori e profumi dei recioti artigianali che in passato realizzavano qui in zona, utilizzando un metodo che si rifà un po’ al vinsanto; si parte con una pigiatura nel periodo di Natale, il mosto ottenuto viene immesso in un tino aperto a decantare senza l’aggiunta di antiossidanti; qui riposa fino ai primi di marzo, periodo in cui si crea uno strato protettivo (come il flor nello sherry) chiamato in zona la “telarina”. Prima che inizi la fermentazione viene travasato in piccole botti di legno tappate e lasciate a riposo in cantina per un periodo che varia dai tre ai cinque anni, senza mai ricolmarle, fino all’imbottigliamento. Produzione limitata e solo nelle annate migliori, ringrazio Silvio per l’opportunità. Un color oro scuro quasi ambra, dal naso elegante e piuttosto complesso (mi ricorda un tokaji aszu), dattero, tartufo bianco, brioches, caramello, miele e tante note eteree. Bocca dolce ed equilibrata, mai stucchevole e dal finale interminabile; l’apoteosi in un calice, oltre che un degno spadaccino pronto a duellare con un ostico erborinato.

A fine degustazione, il tavolo della cantina era colmo di bottiglie e calici sparsi, un campo di battaglia che ci ha visto uscire come sorridenti vincitori, sbarellando fino alla nostra auto come se fossimo in scena a un melodramma giocoso. Nel viaggio per tornare a Negrar, salvo dal guidare, osservavo dal finestrino i luoghi lasciati alle nostre spalle, con l’ilarità che solo il buon vino ti può donare, e il pensiero che qui c’è tanto ancora di che scoprire, come del resto da raccontare.

 

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Simone Di Vito

Cresciuto a pane e corse automobilistiche (per via del papà pilota), sceglie la sostenibilità di bacchette, tamburi e corde grosse, tra batteria e basso elettrico. Si approccia al vino grazie a una breve carriera da scaffalista al supermercato, decidendo dopo anni di iscriversi ad un corso AIS. Enostrippato a tempo pieno, operaio a tempo perso. Entra in Intravino dalla porta di servizio ma si ritrova quasi per sbaglio nella stanza dei bottoni. Coltiva il sogno di parcellizzare tutto quel che lo circonda, quartieri di Roma compresi.

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