Il pinot nero extra Borgogna: non è un romanzo noir 

Il pinot nero extra Borgogna: non è un romanzo noir 

di Simone Di Vito

Iconico, elegante, desiderato; c’è solo un vitigno che collima perfettamente con questi tre aggettivi: monsieur le pinot noir. È la varietà che dona struttura e complessità in champagne e spumanti, quello dalla pornografica sensualità nel Musigny; per Aubert De Villaine (DRC) addirittura non ha sapore, è solo un tramite tra i suoli borgognoni e il nostro palato. Borgogna esclusa, il pinot nero rappresenta la vera e propria sfida che i produttori in giro per il globo accettano (e spesso perdono), una sorta di triathlon a livelli ironman, per cui è già una vittoria arrivare al traguardo della vendemmia.

Chi si cimenta in questa sorta di impresa sa che il signorino è un attore importante, ma che per dare il meglio va messo nelle condizioni giuste; un Marlon Brando in vacanze di natale a Cortina, risulterà patetico come un qualsiasi Boldi o De Sica, ma dagli uno smoking, calalo nel giusto ambient newyorkese e ti mostrerà il Vito Corleone che tutti conosciamo. Buccia fine e delicata, che attrae muffe e insetti come pochi, limitata è la presenza di antociani e tannini, quest’ultimi soppiantati spesso dall’uso di barrique (con tostature mai eccessive); spiccata è invece l’acidità, qualità importante che se preservata può renderlo estremamente bevibile, nonché longevo, in alcuni casi quasi immortale.

Caratterizzato da una maturità precoce, altra controindicazione è il terroir in cui alloggia: predilige suoli calcarei e mal digerisce quelli troppo argillosi, in presenza di un clima troppo freddo si mostrerà acido e rachitico, in quelli caldi invece scivola facilmente verso una maturazione eccessiva, tendenza da evitare se la speranza è quella di ottenere un briciolo di eleganza. Il troppo amore per questo vitigno porta spesso chi produce vino a desiderarne una versione propria; inutile dire che la scelta migliore, a mio avviso, è sempre quella di puntare sugli autoctoni, quindi a ciascuno il suo; ma non è vietato piantare in latitudini e zone diverse da quelle originarie, anche perché se ci sono le condizioni e se fatto con criterio, si possono ottenere gran bei risultati. Il problema nasce quando ci si ostina a farne un romanzo noir, dove il protagonista è il detective (o il produttore) con l’ossessione di risolvere il caso, pur di arrivare a dama si scende a compromessi che snaturano l’identità, con prodotti in cui del vitigno non sembra esservene traccia, se non quella riportata in etichetta.

Col pinot nero siamo più su un genere hard boiled, dove la storia ruota quasi sempre intorno a vittima e ambientazione, e funziona solo se le due componenti vanno a braccetto, annata e imprevisti creano la suspense, purtroppo però il protagonista potrebbe anche morire.

Neozelandesi, californiani, alsaziani, spät e blauburgunder, e poi frizzanti, tagliati, rosati e vinificati in bianco; ne ho provati tanti e in tutte le salse o quasi, non sempre però con risultati esaltanti. Anche in Italia la macchia di pinot nero è piuttosto dilagante, tralasciando le versioni spumantizzate, che ormai albergano in ogni dove, da amante di Borgogna mi soffermo sui vinificati in rosso, e in particolare su quelli che più ho apprezzato ultimamente, provenienti da zone come Etna, Oltrepò Pavese, Marche e Collio friulano. Più che surrogati, espressioni lucide del vitigno, nonché valide alternative ai noir borgognoni, anche perché per qualità e prezzo nella cote, non tutto è d’or quello che luccica.

Partiamo dal basso, per modo di dire, da ‘a Muntagna parlando di Tiurema”, dell’azienda Eno-Trio, prodotto da una piccola vigna di quarant’anni nel versante nord etneo, a 1000 metri slm, suolo argilloso situato in una vallata tra il vulcano e il monte Pizzo-Filicia, produzione votata al naturale con fermentazioni spontanee e lieviti indigeni. Un vino dove senti il vulcano, ma anche il vitigno, nella 2014 pare esprimersi meglio che nella 2015, un naso tutto frutta e mineralità (cenere), più sapido che fresco in bocca, di buona struttura e una giusta dose di bevibilità; un piccolo ago di mezz’ettaro in un pagliaio di nerelli e carricanti.

Percorrendo molti km, si va nel pavese, zona dove l’alto tasso di pinot è spesso destinato alle bollicine; parlando di rossi, tempo fa, in una delle mie ricerche malate, mi ero imbattuto in Gianluca Ruiz de Cardenas, pioniere del pinot nero in Oltrepò, un personaggio che purtroppo non conosco personalmente, ma dai vini che produce e la premessa, che se volete trovate sul sito ufficiale dell’azienda, mi ha fatto innamorare; complice poi un fratello emigrato in quel di Milano, a cui chiesi di cercare tra le enoteche meneghine un vino dei suoi, sono riuscito ad assaggiare il suo Miraggi, ed ultimamente il Brumano, annata 2017.

Prodotto solo nelle migliori annate dall’omonima vigna situata a Casteggio, da cloni di origine borgognona posti su terreno argilloso-calcareo, vinificazione tradizionale e maturazione in barrique dai 12 ai 18 mesi; inizio decisamente fruttato, amarena, more, aprendo poi a spezie dolci e grafite; intenso, fresco, godibile, è giovane e può migliorare; dimostrazione pratica che il pinot nero qui non solo ci può, ma ci deve stare.

Dall’Oltrepò pavese passiamo al Collio friulano e una scoperta casuale di qualche mese fa, una passeggiata in centro città terminata tra gli scaffali di un’enoteca. Perso tra i meandri di bottiglie, mi capita questa, Villa Parens, Ruttars pinot nero 2017, dove ad incuriosirmi poi è il retro etichetta, che riporta “meno alcol, niente legno”, ed io non gli ho saputo resistere; linea cru aziendale, da un vigneto in zona Ruttars, su suolo marnoso, con arenarie, ricco di calcare e silice; vino dalla grande bevibilità, caratteristica che qui non è solo consuetudine ma una costante, proprio perché parliamo di luoghi da sempre famosi per i grandi vini bianchi. Fermentazioni a basse temperature e il solo acciaio, fanno di questo pinot una sorta di via di mezzo tra un rosso e un bianco, naso fine, floreale e fruttato (viola, frutti di bosco), corpo medio, e un assaggio tutto giocato sull’acidità, con un lieve tannino a chiudere la bocca.

Un vino schietto e gradevole, anche con qualche grado in meno di temperatura. Chiudo la parentesi con due pinot marchigiani; il primo è della cantina Cavalieri di Matelica, annata 2016; da suolo argillo-calcareo in zona Cavalieri, vinificazione in acciaio e maturazione in barrique dai 12 ai 15 mesi, successivamente viene imbottigliato senza chiarifiche, stabilizzazioni o filtrazione. Naso complesso, tra ciliegie, more, note ferrose, pepe bianco e vaniglia. Bocca morbida, piacevole e fresco, dal tannino deciso quasi ai limiti per un pinot, ma senza mai disperdere la classe mostrata fin dall’inizio; il più muscoloso del gruppo.

Rimaniamo nelle Marche con l’ultimo vino assaggiato, il Focara Rive 2015 di Fattoria Mancini a Pesaro, zona in cui il pinot nero fu introdotto dall’amministrazione napoleonica nei primi dell’800, e dove oggi è considerato ormai un vitigno locale a tutti gli effetti; proveniente da una vigna chiamata Rive, in prossimità della costa di Focara, a strapiombo sul mar Adriatico, da suolo limoso-calcareo ricco di sabbia. Raccolta manuale, macerazione a freddo seguita da fermentazione di circa 15 giorni, per poi sostare sulle fecce in barrique da 228 lt, metà nuove e metà di secondo passaggio per un anno, termina con una sosta in bottiglia di circa 11 mesi.

Inizialmente chiuso, timido, come se volesse farsi desiderare. Dopo quasi un ora però eccolo; un naso fine e leggermente vanigliato, con marasca, liquirizia e tabacco sullo sfondo; assaggio ordinato dove tutto è ben scandito, la giusta morbidezza, fresco, salino, dal tannino vellutato e mai eccessivo; tra i cinque assaggiati il meno ruffiano, ma forse il più borgognone della ciurma, da astenersi tracannatori impazienti o bevitori glu glu.

Vini in assaggio:

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Simone Di Vito

Cresciuto a pane e corse automobilistiche (per via del papà pilota), sceglie la sostenibilità di bacchette, tamburi e corde grosse, tra batteria e basso elettrico. Si approccia al vino grazie a una breve carriera da scaffalista al supermercato, decidendo dopo anni di iscriversi ad un corso AIS. Enostrippato a tempo pieno, operaio a tempo perso. Entra in Intravino dalla porta di servizio ma si ritrova quasi per sbaglio nella stanza dei bottoni. Coltiva il sogno di parcellizzare tutto quel che lo circonda, quartieri di Roma compresi.

1 Commento

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Patrick Jane

circa 4 anni fa - Link

Bah.

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