Il codice etico, questo conosciuto (e mai applicato seriamente)

Il codice etico, questo conosciuto (e mai applicato seriamente)

di Pietro Stara

Quando sento parlare di codice etico, un odore acre si infila su dritto per le narici: “Noi addestriamo dei giovani a scaricare napalm sulla gente, ma i loro comandanti non gli permettono di scrivere ‘cazzo’  sui loro aerei perché è osceno” –  Colonnello Kurtz in Apocalypse Now.

Ho dei problemi, deve essere ben chiaro, sia con il sostantivo che con la sua aggettivazione: codice etico. Ma non in termini assoluti: non è una questione personale, quanto di uso relativo degli stessi.

Il primo elemento di contraddizione evidente è che un codice di autoregolamentazione evidenzia l’impossibilità di disgiunzione tra giudice e imputato. In un caso potrebbero essere formalmente due persone diverse, ma coincidenti nell’appartenenza al gruppo. In un altro caso l’elemento di terzietà del giudizio (una commissione apposita interna al gruppo che si rinnova di volta in volta) dovrebbe essere talmente forte, autonoma ed indipendente da poter avere un valore vincolante anche nei confronti della proprietà. La vedo assai dura.

Un codice, poi, che non preveda un adeguato sanzionamento (e la sua applicabilità) dei comportamenti illeciti sarebbe come pensare che la morte non sia la fine di qualcosa, ma un modo molto efficace di ridurre le spese correnti.

La labilità dei confini.

Etica ed etico sono parole forti: di solito mi viene la tremarella solo al pensiero di quante dispute, scazzottamenti e assalti all’arma bianca sia siano perpetrate nella storia per illustrare un concetto dalle profondità inusitate. La maggior parte dei dizionari della lingua italiana concorda nel fatto che ‘etico’, applicato al campo professionale, sia associabile a ‘deontologico’: insieme delle norme relative ai doveri e ai comportamenti inerenti all’esercizio di una professione.

Ad eccezione di alcuni casi estremi in cui sono stati notati giornalisti fare jogging con note marche di bourbon tatuate sui polpacci o, per contro, averne visti girare altri con la maschera di Zorro per non essere riconosciuti, la labilità dei confini deontologici che una categoria professionale impone a se stessa sono assai mutevoli, provvisori e assolutamente discutibili. Ciò che per qualcuno sarebbe un limite invalicabile, e pure di molto meno, per altri suona a mala pena come “il resto mancia!” Ogni forma di voluttuosa concupiscenza gaudente e festaiola a cui si è indotti può valicare immediatamente in corruttibilità cercata e velata.

Ma andiamo oltre. Sull’intendere il vino. 

Non sono mai stato un fan delle degustazioni seriali alla cieca e l’ho pure scritto: ne riconosco l’intento e la benemerenza. Ne apprezzo il lascito apparentemente  oggettivante, il distacco compìto e discreto, il candido biancore del risucchio composto, l’addobbo chirurgico di sale prestate alla dissezione del vino. Ma, poi, per me, alla fin fine il vino è un tramite di sensazioni, di relazioni, di luoghi e stati d’animo: ne parlerò, dunque, meglio di quanto avrei potuto farlo dopo averlo spogliato del suo vestito plastificato e ottundente.

Niente limiti, dunque?

Dunque sì, ma quali? Il primo, inevitabile, riguarda l’attinenza ai fatti: la ricostruzione parziale, mancata o volutamente erronea di quanto accaduto distingue in maniera netta ed inequivocabile un giornalismo corretto dalla spazzatura. Nel caso di spazzatura il cestino è il luogo più adatto dove inserirla: in alcuni casi sarebbe necessario un cestino permanente. Altro è l’analisi o l’interpretazione degli avvenimenti, dove la distinzione non può che essere, genuinamente, politica o di campo.

Il criterio di prova e la replica. Nel vino, al pari degli esperimenti scientifici, ma differentemente da questi per le modalità, abbiamo la possibilità di assaporare un vino recensito: al netto dei condizionamenti, della pacche sulle spalle e delle sponsorizzazioni occulte, del nostro gusto personale e delle feste in maschera a cui siamo stati invitati, possiamo verificare quanto è stato recensito. La radice quadrata della media ponderata di tutti i fattori dovrebbe dirci la distanza/vicinanza di un articolo dalla marchetta più vicina.

La narrazione: attraverso il racconto si possono intuire le modalità di relazione che l’autore intrattiene con l’oggetto amato, in questo caso il vino, il suo produttore o la sua produttrice e via cantando. E si fa fortuna o si pecca per pensieri, parole, opere ed omissioni.

Un filastrocca.

Quando eravamo piccoli, di fronte ad una parolaccia, si rispondeva: “chi lo dice lo è, cento volte più di me!” Poter affermare di essere o di non essere qualcosa non ha alcuna validità probatoria se non quella di far passare una autoregolamentazione per autoassoluzione.

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

5 Commenti

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Stefano Cinelli Colombini

circa 7 anni fa - Link

L'etica è una gran bella cosa, ma come si fa a prescriverla per legge? Se un giornalista esagera nel premiare vini ciofeca di amici (o finanziatori) suoi si rovinerà con le sue mani, perché i lettori bevono tutto ma fino a un certo punto. Il libero mercato (dell'informazione) non è la panacea di tutti i mali, però aiuta.

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Francesco C.

circa 7 anni fa - Link

92 minuti di applausi! La citazione iniziale è lo specchio degli accadimenti degli ultimi 50anni (purtroppo). Grazie

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hakluyt

circa 7 anni fa - Link

Beh, direi che, tra il "codice etico" citato nel titolo e il "codice di autoregolamentazione" sviscerato nel corpo dell'articolo, ci sia una bella differenza...

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Pietro Stara

circa 7 anni fa - Link

I codici etici aziendali sono codici di autoregolamentazione. “Affermare che il codice opera su un piano normativo, non significa, tuttavia, che lo stesso sia giuridicamente rilevante. L'esperienza è ricca di esempi di codici nei quali si esclude espressamente la rilevanza del codice sul piano giuridico, sottolineando che la sanzione in caso di violazione è solo morale, e non genera alcuna responsabilità giuridica della società nei confronti di terzi. La stessa dottrina esclude unanimemente i codici etici dal novero delle fonti di diritto, non rientrando in nessuno degli atti o fatti idonei a produrre diritto nel nostro ordinamento”. http://www.professionisti24.ilsole24ore.com/art/AreaProfessionisti/Diritto/Dossier/DIR_DIREPRATSOC_14_15_05_CODICI_ETICI_PRN.shtml Coloro che hanno scritto sui codici etici nel campo vinicolo hanno preso come riferimento il testo dei giornalisti del Sole24Ore qui scaricabile http://www.gruppo24ore.ilsole24ore.com/it-it/governance/codice-etico/, in cui si afferma, nel punto 2.2: “Per loro natura, le previsioni del Codice Etico non possono contemplare ogni comportamento o situazione, ma sanciscono valori e pongono criteri di condotta generali la cui osservanza ed attuazione è affidata al senso di responsabilità ed alla capacità interpretativa dei Destinatari, fatta salva la verifica disciplinare dei comportamenti nei casi applicabili”.

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hakluyt

circa 7 anni fa - Link

Esattamente. Immaginando che tu ti riferisca all'articolo di Cernilli, la "violazione è solo morale, e non genera alcuna responsabilità giuridica". Pertanto in questo caso e quindi "valori e criteri di condotta generali la cui osservanza ed attuazione è affidata al senso di responsabilità"...

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