I Rosé in Champagne: cinque assaggi e un video con Violaine de Caffarelli [Académie du Champagne 2017, 3/4]

I Rosé in Champagne: cinque assaggi e un video con Violaine de Caffarelli [Académie du Champagne 2017, 3/4]

di Andrea Gori

La seconda edizione dell’Académie du Champagne milanese ha visto anche l’esordio, come relatrice, di una rappresentante ufficiale dal CIVC direttamente da Epernay. Per l’occasione infatti è stato aggiunto un tema, oltre quelli presentati dagli Ambassadeur du Champagne degli scorsi anni, parlando appunto di rosati. Con una cura e un dettaglio decisamente superiori alla norma. I rosati, e non solo in Champagne, sono una realtà sfaccettata e solida, e oggi godono di straordinario successo commerciale, che non è solo moda ma un cambiamento ormai permamente nel gusto nei consumatori. L’intervento di Violaine de Caffarelli puntava proprio a definire il fenomeno rosé fin dagli inizi, e collocarlo nella giusta dimensione storico temporale e commerciale.

Lo Champagne rosé è definibile “storico” nel senso che la sua storia ha sempre accompagnata lo Champagne. Oggi rappresenta quasi il 10% della produzione. Vent’anni fa parlare di rosé non era ritenuto serio: vini da signore, e utili per il marketing sul quale le maison lavoravano molto per brevi periodi, salvo poi dimenticarsene, mentre oggi è fenomeno in crescita vigorosa.

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La premessa storica doverosa parte dal medioevo, quando la Champagne produceva rinomati vini bianchi leggeri e freschi, “vins de France” o “vins de rivière” in omaggio alle due rive della Marne, esportati e apprezzati in tutta Europa. I primi vini colorati o “clairet” o “oeil de perdrix” o ancora “paille” nascono già dal XIV secolo. Divengono ancora più rossi o claret in senso bordolese, poi a partire dal XV secolo con i famosi vini di Ay, chiamati “occhio di pernice” (che provenivano sopratutto dalla Montagne de Reims) hanno sopraffatto piano piano quelli della vallée nelle preferenze del pubblico.

C’è quindi uno spostamento verso la qualità vera e propria con vini non più colorati con estratto di bacche di sambuco, una svolta che però soffre ben presto l’avvento dei vini di Borgogna a partire dal XVII secolo. Questi ovviamente avevano più colore, gusto, intensità ma soprattutto qualità. È in questo periodo però che l’area champenoise vira sulle bollicine, ottenute comunque da uve nere, dette “vin gris”: lo Champagne si afferma quindi come bianco effervescente e gli si affianca anche il rosé solo dal XIX secolo, aiutati dall’aggiunta al blend di liqueur de Fismes (bacche di sambuco), con una pratica comunemente usata almeno fino al divieto legale avvenuto solo nel 1907.

Nel corso dei secoli, dal 1800 in avanti, i rosé restano a lungo nel retrobottega dei negozi, se non in alcune zone come Les Riceys dove il rosé è una AOC ben conosciuta. Se guardiamo allo Champagne in quanto vino con le bollicine, rifermentato in bottiglia, la prima cuvée pensata per essere rosa è una cuvée di alto livello e alto prezzo: del resto sono vini che devono dimostrare il loro valore rinunciando al sambuco, e quindi richiedono molti investimenti in cantina, sono pochi ma di qualità elevatissima sopratutto destinati all’export, in Russia e Inghilterra. Dal XVIII secolo parte la tradizione dei rosati ottenuti dall’assemblaggio bianco + rosso, inventato nella sua forma da Madame Clicquot (grazie ai vigneti di ottima posizione di pinot nero sulla Montagne) nei prima anni del 1800, e c’è una crescita fino al 10% attuale, stabile nel mercato con una sua nicchia precisa.

Nel 1996 i rosati rappresentano il 2,7% dell’export, nel 2006 il 7,3% e oggi l’11%, con una quota quindi quintuplicata in 10 anni, e non è detto che si arresterà presto. In Italia siamo a 400 mila bottiglie ogni anno, con meno dell’1% del totale nel 1996, diventate oggi il 6,1%. L’Italia è comunque il settimo paese al mondo in volume per il rosé, in una classifica dove gli Stati Uniti sono al primo posto, e Germania al secondo seguiti da Giappone, Spagna e UK,  Svizzera e quindi, appunto, Italia.

Ma come si produce oggi il rosé in Champagne?

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In due modi, principalmente. Vinificando in rosa le uve rosse (rosé da macerazione) o assemblando vini bianchi e rossi (rosé da assemblaggio). Nel primo caso si svolge la macerazione di uve rosse (senza vinaccioli e raspi) a freddo, per estrarre sia aromi e colori dalle uve. È una fase fondamentale per stabilire il colore e l’aroma, tappa delicata in cui bisogna capire quando fermarsi nella macerazione, in vista della cuvée che vogliamo ottenere, ogni anno con colore uguale al vino dell’anno precedente, ma si parte da uve con intensità cromatica spesso difforme. Dopo la macerazione ci sono due percorsi, una prima via è di estrarre dal 6 all’8% del vino tramite salasso, che viene vinificato a parte. L’altra tecnica consiste nel prendere tutto il pressato, svinare e fermentare, e qui avremo rosé da macerazione completa. In questo caso tutta la vasca va in bottiglia in maniera classica. Il rosé di macerazione ha produzione limitata. con difficoltà notevoli nel controllare bene la macerazione stessa. Come colore ha un rosa schietto e pronto, aromi fruttati in cui prevalgono bacche selvatiche e sottobosco, un sorso strutturato potente e carnoso.

Nel secondo metodo, l’assemblaggio (la grande maggioranza dei rosé, 80-90% del totale) si lavora sui tre vitigni in maniera separata, con pressatura, sfecciatura e fermentazione senza ottenere colore (vini sempre bianchi). L’aggiunta di vino rosso viene fatta dopo la fermentazione, al momento di assemblare la cuvée in cui entrano i vini rossi, ottenuti in parallelo ai bianchi, con estrazione di colore e tannino. La produzione è variabile e si può stabilire in base alle esigenze, ma necessita di grande controllo in vigna, per elaborare un vino rosso che sia ben concentrato e ricco. A livello aromatico i colori vanno dal chiaro al salmonato se entrano anche uve bianche, al ramato e salmonato se ci sono anche uve rosse, aromi discreti e freschi se c’è chardonnay in prevalenza, o più fruttati e generosi se prevalgono le uve rosse, agrumi nei primi e frutti rossi o frutta gialla matura nei secondi. Al palato sono vivaci, vivi, ariosi i primi (quelli con anche lo chardonnay) mentre gli altri più golosi, morbidi e intensi, con note di burro e brioche ad irrobustire il quadro.

Per capire tratti salienti, differenze cromatiche ed organolettiche, ecco i 5 assaggi.

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Champagne Vielle France Rosé. Dominante rossa con 45% chardonnay, 30% pino nero e 35% meunier di cui 15% di vino rosso.
A livello organolettico ha tutte le caratteristiche del rosé di macerazione, con frutto rosso intenso al naso nonostante il colore lieve, gusto molto gourmand, fragole, lamponi, ribes nero. Un vino non da aperitivo perché ci sono anche note tanniche evidenti, piccanti e speziate, più adatto a formaggi e piatti di struttura. Si può certo pensare di abbinarlo (in Italia) a del parmigiano, e tutto quanto serve per sostenere la sua vinosità come carni speziate e cacciagione. Vino poco garbato ma schietto e originale. con un sorso accattivante. 88

Champagne J.H. Quenardel Blason Rouge Rosé. Chardonnay 50%, pinot noir 40%, meunier 10%.
Ci racconta da subito una storia diversa, e in effetti eleganza e freschezza sono di tutt’altro stile, più femminile e delicato, molto etereo, aereo, meno vinoso del rosato precedente, con frutta rossa giocata in eleganza e freschezza, con estrazione di frutto “rosa” più femminile e discreto. Questi sono due vini con filosofia molto diversa, ma sono casi esemplari ben esplicati nel bicchiere. Si tratta, per Quenardel, di un rosé con buona percentuale di uva bianca e si rispecchia molto bene nel suo aroma e struttura. Si abbina bene ad aperitivi e piatti di pesce, con una lunghezza non esaltante nel bicchiere ma mostra levità ed eleganza ben dosate. 87

Champagne Piper Heidsieck Rosé Sauvage. 55% pinot nero di cui 25% vino rosso, 30% meunier e 15% chardonnay.
Ecco un rosé d’assemblage ma con colore intenso e scuro, molto claret, quasi da rosso appunto, tonalità pronunciate che colpiscono e in effetti anche il naso è un’esplosione di frutta rossa, un vino audace che risulta fortemente vinoso, con nota evoluta molto forte. La vinosità però in bocca in realtà non c’è: i frutti rossi sono trasportati da agrumi e mandarino verso note più fresche, è audace perché non gioca solo sull’eleganza ma anche su potenza e vinosità, si ha l’impressione davvero di masticare ribes insieme a un frutto più acidulo e speziato, zafferano, pepe, affumicato, qualcosa che fa pensare a cucina e abbinamenti importanti. Il frutto lo fa sembrare più dolce, ma il dosaggio è relativamente basso (per un rosé) sui 10 gr/lt. 89

Champagne Duval Leroy Rosé Prestige Premiere Cru. Molto marcato da uve rosse, quota tra 80 e 90% di pinot nero.
Nonostante lo chardonnay sia solo il 10% la sua figura la fa eccome, ci si allontana da frutta rossa verso note più evolute di ciliegia, fichi, amarena, c’è floreale, geranio, rosa, poi spezia di zenzero. In bocca note affumicate, ebollizione, tabacco biondo, vino che cambia molto con la temperatura fino a note più mature. Completo e affascinante, regge bene molti primi piatti a base di pasta e carni bianche e saporite, ma soprattutto incanta quel connubio speciale tra uve bianche e rosse per l’amalgama speciale che creano al palato. 90

Champagne Moet et Chandon Rosé 2009. Qui il vino rosso è addirittura il 19%, con 55% di pinot nero, 30% chardonnay e 15% meunier.
Un rosé millesimato, tipologia molto recente come introduzione nel mainstream, dopo tanta ricerca sul rosé in campo. Ha naso ricco di note di fragole di bosco, più floreale e vegetale allo stesso tempo, viola, rabarbaro, note di spezie, pepe nero, un tocco di vaniglia, fruttato di lampone che torna anche pieno al palato con forza e acidità di millesimo. Finale di amarena cangiante, ricco, godereccio e gourmand, a tratti si dimentica di essere una bollicina trasformandosi in vino rosso, ma che risolve sempre con leggerezza ogni situazione sfruttando le caratteristiche calde e abbondanti del millesimo, senza farsi sopraffare. 92

Andrea Gori

Quarta generazione della famiglia Gori – ristoratori in Firenze dal 1901 – è il primo a occuparsi seriamente di vino. Biologo, ricercatore e genetista, inizia gli studi da sommelier nel 2004. Gli serviranno 4 anni per diventare vice campione europeo. In pubblico nega, ma crede nella supremazia della Toscana sulle altre regioni del vino, pur avendo un debole per Borgogna e Champagne. Per tutti è “il sommelier informatico”.

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