Ho trovato un libro del 1961 sulle esportazioni di vino. Sembrano passati due secoli, è incredibile

Ho trovato un libro del 1961 sulle esportazioni di vino. Sembrano passati due secoli, è incredibile

di Pietro Stara

Ognuno di noi gode di un diritto di prelazione. Pensateci un po’, ma è così. Io lo esercito nei confronti di una bancarella di libri usati: prima di esporre alla vendita i libri sul vino che gli capitano a tiro, li fa vedere a me en primeur. Se li acquisto, bene; altrimenti vanno in bella mostra. L’altro giorno l’amico uruguayano mi allunga la 24a edizione del glorioso “Annuario vinicolo d’Italia”, fondato nientepopodimeno che da Arturo Marescalchi e curato dall’Unione Italiana Vini, datato 1961. Il libercolo, volume due di un uno che non so dove sia, tratta in particolar modo degli scambi viticoli con l’estero. Per far questo non fornisce solo tabelle in quadruplice colonna che potrebbero far addormentare un insonne grave, ma una serie di curiosità a compendio della trattazione numerica di notevole interesse. Senza farlo apposta, o facendolo di proposito, il volumetto dà uno spaccato della viticoltura mondiale di quegli anni.

Chi certifica l’origine?
Tanto per inquadrare il contesto italico, occorre premettere che la legge 930 (luglio 1963), ha da venire. Ma vi sono paesi, non specificati nel testo, che richiedono la certificazione di origine ai vini italiani. Il Ministero Industria e Commercio, quindi, in accordo con l’Istituto Commercio con l’Estero provvede, tramite due circolari attuative (la n. 1163/C del 25 giugno 1858 e la n. 1209 del 13 marzo 1959) ad incaricare le Camere di Commercio locali, impossibilitate a dare valutazioni che eccedessero dal distinguo dei vini rossi da quelli bianchi, di attivarsi presso laboratori ed istituti di analisi riconosciuti a provvedere alla certificazione dell’origine dei vini. Segue elenco dei laboratori accreditati per regione. Manca il Molise.

Fatta la legge, gabbato il prelievo: il primo inghippo
Dopo la prima circolare (1163) alcune Camere di Commercio lamentano il fatto che non è chiaro chi debba ritirare che cosa e, a parer loro, soltanto ai dipendenti dei Laboratori o degli Istituti di analisi sarebbe dovuto toccare l’onere del prelievo. La nuova circolare la ributta un po’ indietro, al 1926 (articolo 93 del Regio Decreto 1361), affermando che il campionamento può essere effettuato anche da ufficiali e agenti della polizia giudiziaria, da ufficiali e vigili sanitari, da agenti comunali e daziari eccetera, e “dalla qualunque”.

La d.o.c. più grande: Il marchio nazionale
Privi appunto di riconoscibilità territoriale, in un tempo non troppo lontano, i governi succedutisi decidono di applicare un marchio nazionale a tutti i vini esportati: il Regio decreto – legge n. 1443 del 1933 che va a modificare quello del 23 giugno 1927. Insomma, ancora nel 1960 o giù di lì, l’Italia assicura i paesi esteri che il proprio vino tipico è realmente peninsulare.

L’Italia esporta vino. A chi?
Senza alcun dubbio, negli anni che vanno dal 1958 al 1960 i maggiori importatori di vini italiani sono i tedeschi dell’ovest (soprattutto di vini in cisterna, fusti e damigiane) con oltre il milione di ettolitri. Segue, a ruota, la Svizzera. Terza, leggermente distanziata, l’Austria. Quarti, a ridosso degli austriaci, gli Stati Uniti. Altri dati curiosi: l’Italia esporta 1.434.738 litri di spumante in Francia, la quale importa più di due milioni di ettolitri di vino dal Marocco e dalla Tunisia; ben 477.340 negli Stati Uniti; 281.772 litri in Gran Bretagna e un ragguardevole 50.802 litri in Marocco (dati al 1960).

Il Marsala in bottiglia piace agli americani, mentre quello in fusti, damigiane e cisterne è sempre appannaggio dei tedeschi, degli svizzeri e dei belgi-lussemburghesi. Il vermut in fusti, damigiane… fa impazzire letteralmente i tedeschi, gli anglosassoni, gli svizzeri e i danesi. Poi pure gli svedesi e gli olandesi e, con 110.070 litri, anche gli oltrecortina cecoslovacchi non disdegnano. Se poi guardiamo a quello in bottiglia allora gli Stati Uniti la fanno da padrone (oltre 7 milioni e mezzo di litri) seguiti a distanza notevole dai Canadesi. Ma, curiosità delle curiosità, anche i piccoli islandesi ne importano 28.722 litri. È possibile che il successo del vermut in bottiglia fosse dovuto, già allora, al bere miscelato.

I vini tipici stranieri. Ovvero cosa si produceva nel resto del mondo?
Questa ricca sezione è curata da un altro grande dell’enologia nostrana, Giovanni Dalmasso. Lascio da parte i conosciuti, ovvero Francia e compagnia andante e mi concentro sui dati più inusuali, almeno per me.

Il blocco sovietico
La Bulgaria produce circa 2 milioni di hl. di vino. Quelli principali, derivanti da vitigni autoctoni, sono il Gamza, un bel vino rosso rubino carico, dai 12 ai 13, 5° gradi d’alcol, 3-6% d’acidità e un estratto da 22-32. Il secondo, per importanza è Mavrud, invecchiato per 4-5 anni , viene considerato il vino più robusto e pieno della Bulgaria. Il Pamit, invece, dà vini rosati e leggeri, che vengono tagliati spesso con Mavrud per ottenere l’apprezzato, anche all’estero, vino Tracia. Il Melnik è ottenuto dal vitigno Sciroka Melniska: tannico, e carico. Infine con l’uva Dimiat si fanno vini bianchi leggeri e fini e talvolta anche dolci e liquorosi come quello di Varna sul mar Nero.

La Romania produce circa 6 milioni di ettolitri di vino a fronte di 240.000 ettari coltivati. I vini di pregio sono quelli bianchi: Murfatlar, Valea Tarnavelor, Dealul Mare, Muscel, Nicoresti…. Tra i vini rossi quello di maggior rilievo è il Sarica-Niculitel.

L’Ungheria è Tokaj, famosissimo al tempo forse ancora più di oggi, prodotto nella regione di Hegyalja in terreni vulcanici dai vitigni Furmint, Hàrslevelu e, in minor misura dal moscato Lunel. E poi i grandi vini della regione Badacsony – Balatonfured – Csopak. E sto parlando dei vini prodotti sul lago Balaton ad alta gradazione. Dalmasso li consiglia per accompagnare il dessert: il Badacsonji Kéknyelu, il Badacsonji Olaszizling e il Balatonfured Olaszizling.

U.R.S.S.
Di vini se ne producono tanti e molto diversificati, solo a dar ragione che i luoghi votati alla vite sono molto numerosi e comprendono la Moldavia, l’Ucraina, la zona di Rostov (Russia), il Caucaso settentrionale, l’Azergagian, l’Uzbeckistan, il Tadzikistan, il Kazakhstan, la Kirguisa e la Turkmenia. Il Riesling, per parlare di bianchi, trovava naturale sostegno nel Caucaso settentrionale, in Ukraina, dove si produce anche il traminer rosa, e nel Kazachstan. La Georgia produce il Rkaziteli e il Mtzvani Silvani, mentre l’aligoté alligna nella regione del Don, in Moldavia e in Crimea. Tra i vitigni rossi sovietizzanti guida il cabernet sauvignon: Caucaso, Georgia, Moldavia e Ukraina. In Georgia anche lo saperavi, nel Caucaso il matrassa e nel Nagorns Karabach l’hindogni. Vi è, poi, per chi non se aspettasse, cioè io, una cospicua produzione che viene classificata con “tipo Madeira”, “tipo Porto” e “vini da dessert”. Le ragioni che si applicano maggiormente nella produzione di questi vini alcolici sono l’Armenia, l’Ausbekistan, il Dagestan, l’Aserbajdsan, l’Uzbekistan e la Crimea meridionale.

Da altre parti.
La Tunisia gode di ben 40.000 ettari dedicati alla vigna e si dota, ben sei anni prima dell’Italia, di una disciplina per le appellazioni di origine controllata (decreti 10 gennaio 1957 e 18 settembre 1958). Le appellazioni sono: Moscato di Tunisia, Moscato di Thibar, Moscato di Kelibia, Moscato di Radès, Kelibia e Radès.

Il Giappone ha solo 11.000 ettari a vigneto e tra i vitigni coltivati sono assai diffusi quelli americani a sangue di Labrusca, Aestivalis, ecc. Non mancano però il cabernet, il malbeck, il merlot, il pinot nero, il semillon e il pinot bianco.

Dal momento che le ere geologiche su questo pianeta si suddividono in Eoni, ovvero miliardi di anni, Ere, ovvero centinaia di milioni di anni, Periodi, ovvero decine di milioni di anni, Epoche, ovvero milioni di anni ed Età, ovvero migliaia di anni, possiamo sostenere che i cinquant’anni e fischia fa di produzione del vino, rappresentano, da un punto di vista terrestre, poco meno di un calcolabile “Tempo di Planck”; dal punto di vista umano qualche secondo; dal punto di vista mentale un Eone, miliardo di anni più o meno.

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

7 Commenti

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michele a. fino

circa 7 anni fa - Link

Meraviglioso! Unica nota: Giusto che manchi il Molise, istituito come Regione solo nel 1963. 😃

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Pietro Stara

circa 7 anni fa - Link

Ottima puntualizzazione. In realtà nell'annuario mancano anche altre regioni che, per 'debolezza' viticola, vengono accorpate con altre o non ci sono del tutto (Liguria ad esempio). Il Molise, previsto nell'Assemblea costituente del 1947, diviene regione, come ben precisi, solo nel 1963. Prima era compreso negli Abruzzi, quelli al plurale.

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Sergio

circa 7 anni fa - Link

Bellissimo! ce n'è per una tesi di laurea, probabilmente. Però il bel rosso rubino della Bulgaria anni '60 te lo lascio tutto

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andrea

circa 7 anni fa - Link

La regione di Hegyalija e' una sciocchezza dell' annuario o di Pietro Stara?

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Pietro Stara

circa 7 anni fa - Link

La Regione si chiama, per la precisione, Tokaj-Hegyalja: è una storica regione vinicola situata in quello che adesso è il nordest ungherese. Nel 1920, dopo il Trattato di Trianon, la regione fu divisa tra Ungheria e la neonata Cecoslovacchia, e 120 ettari divennero parte della nuova nazione. Due distinte regioni vinicole si formarono lungo il confine, con piccole differenze tra loro. Nel 2004 venne raggiunto un accordo tra i governi ungherese e slovacco al fine di regolamentare l'uso del termine Tokaj in Slovacchia. Grazie a questo accordo il vino prodotto su 5.65 km² del territori slovacco può essere etichettato con il nome Tokaj. La Slovacchia non mantenne gli impegni commerciali, che avrebbero dovuto introdurre gli stessi standard stabiliti dalla legge ungherese dal 1990. Non è ancora chiaro chi debba far rispettare queste leggi. Le dispute in atto hanno portato ad un processo internazionale tra l'Ungheria ed altre sei nazioni (Italia, Francia, Slovacchia, Australia, Serbia e Slovenia), riguardo l'uso del marchio "Tokaji". Il nome ufficiale della regione vinicola ungherese è Tokaj-Hegyalja (Hegyalja significa "contrafforti" in ungherese ed era il nome originale della regione). Buon lunedì anche a lei Pietro

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Stefano Cinelli Colombini

circa 7 anni fa - Link

Tutto bello, ma io (sono del 1956) e ho sentito parlare tanto di quel periodo. E ne ho sentito parlare da persone che lavoravano qui, dentro una delle pochissime aziende non industriali che già operavano su tutti i mercati italiani e su molti esteri. I dati ufficiali sono quelli che citi, ma a quell'epoca e almeno fino al 1980 la quantità di vino che veniva venduta (e di conseguenza prodotta) al nero era impressionante. É ovviamente impossibile dare dei valori, ma sicuramente variava tra il 50% ed il 75%. La dimensione del fenomeno può essere data anche dalla crescita delle bottiglie vendute delle nuove DOCG ancora negli anni '90, quando realtà da tre o quattrocentomila bottiglie balzavano a cinque o dieci milioni in pochissimi anni; boom folle, o emersione di sommerso?

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Pietro Stara

circa 7 anni fa - Link

Buon giorno Stefano, tutto ciò che hai rilevato è sostanzialmente corretto. Le ragioni sono sempre più d’una: il nero emerso, il boom dell’imbottigliato rispetto allo sfuso, l’export, i differenti sistemi di registrazione e di tassazione delle merci, l’imposizione fiscale generale, l’informatizzazione delle procedure e dei servizi (maggiori e più rapidi controlli) , i cambiamenti culturali eccetera. Metto qua alcuni dati rilevati in rete Fabio Del Bravo di Ismea (Osservatorio del Vino di Unione Italiana Vini e Vinitaly): "negli anni Sessanta il vino in Italia era ancora un alimento, data la struttura sociale ancora sostanzialmente di impronta contadina. La produzione era in maggioranza non specializzata e la diffusione era prevalentemente locale e basata sullo sfuso. Gli ettari a vigneto nazionali erano 1,138 milioni, per una produzione di 66 milioni di ettolitri. Il consumo pro-capite annuo era di 90 litri e l'export incideva per una percentuale irrisoria di 2,1 milioni di ettolitri. Negli anni Settanta, lo sfuso comincia ad essere sostituito dall'imbottigliato, gli ettari vitati nazionali crescono ancora (a 1,22 milioni), insieme alla produzione che arriva a 72 milioni di ettolitri, e al consumo pro-capite che si attesta sui 94 litri all'anno. L'export comincia a muoversi ed arriva a 12,2 milioni di ettolitri. Negli anni Ottanta - prosegue il ricercatore - s'innesca una controtendenza, che accompagna una nuova strategia di branding e la crescita delle denominazioni: cala la superficie del Vigneto Italia (971.000 ettari) e la quantità di vino prodotta (69 milioni di ettolitri) insieme al consumo pro-capite che scende a 74 litri, mentre l'incidenza dell'export tocca i 14,3 milioni di ettolitri. Il segno inequivocabile che l'Italia del vino stava cambiando rotta. Poi lo scandalo del metanolo ad interrompere questo processo. Gli anni Novanta si possono allora etichettare come gli anni della ricostruzione dell'immagine enoica dell'Italia, e con un ulteriore specializzazione della produzione, con l'obbiettivo della qualità. Gli ettari complessivi arrivano a 836.000, la produzione a 59 milioni di ettolitri, il consumo pro-capite a 56 litri e l'export, in conseguenza della tragedia del metanolo, perde ma non molto (1%). Negli anni 2000, finalmente, l'affermazione. Gli ettari totali a vigneto arrivano a 710.000 per una produzione di 47 milioni di ettolitri, il consumo pro-capite scende a 46 litri ma l'export tocca i 17, 1 milioni di ettolitri. Il focus passa da un'economia di prodotto ad un'economia basata sull'esperienza. Le aziende diventano "fornitori" di emozioni ed esperienze. Oramai a creare valore non concorre solo il prodotto in sé, ma anche l'esperienza che permette all'utente di vivere. Il consumatore è alla ricerca delle emozioni e delle sensazioni che i prodotti possono suscitare. Non si vendono più solamente bottiglie di vino, ma si vende la cultura di quella produzione, la storia e l'immagine dei territori da cui provengono quelle etichette. Il prodotto diventa sempre di più la forma attraverso cui comunicare un messaggio culturale. Ed eccoci alla fotografia attuale del vino italiano - conclude Del Bravo - La superficie vitata nazionale è di 638.000 ettari, la produzione complessiva di 74 milioni di ettolitri. Le cantine sono 50.000, per un fatturato di 12,4 miliardi. Il consumo pro-capite è di 35 litri, ci sono 523 fra Dop e Igp, l'export vale 5,4 miliardi di euro e il suo trend dal 2000 ad oggi è +118%". Questi sono i dati rispetto al 1987 Trent’anni di vino italiano, meno produzione e più qualità. Dal 1986 export aumentato del 575% Infodata 3 marzo 2016 +575%, è l’aumento dell’export di vino italiano dal 1986 ad oggi 9,4 miliardi di euro, è il giro d’affari del vino italiano 47,60 milioni di ettolitri, è la quantità di vino prodotto in Italia nel 2015 In 30 anni la produzione di vino italiano è cambiata parecchio e in positivo. È ormai lontano lo scandalo del vino al metanolo che ha rappresentato uno dei momenti più bui della storia della filiera e che, proprio per questo, è stato la molla che ha spinto alla ricerca di standard qualitativi di eccellenza. Nel 1986 l’Italia produceva 77 milioni di ettolitri oggi scesi a 47 milioni, in linea con i consumi pro capite passati dai 68 litri del tempo ai 37 di oggi. L’aver abbassato i livelli di produzione ha condotto ad una ricerca più meticolosa della massima qualità, che oggi è testimoniata dall’esistenza di numerose etichette Doc e Docg (dal 10% della produzione totale negli anni ’80 al 35% di oggi). L’emblema della ripresa del comparto vinicolo è rappresentato dall’export, nell’86 valeva meno di 800 milioni di euro mentre oggi ammonta a 5,4 miliardi (+575%). Tratto da Il Sole 24 ORE del 03/03/2016, pagina 13

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