Gian Luca Colombo, da Réva a Segni di Langa. Parole in libertà durante Vinitaly con un enologo e un vigneron
di Pietro StaraCi sono vini che sono dell’enologo. Ci sono vini che non sono dell’enologo. E poi ci sono i vini dell’enologo che è anche viticoltore, e che quindi si presentano come i vini dell’enologo-viticoltore. Quando questi lavora per sé è tutti e due; quando lavora per alcuni è più enologo che viticoltore, ma anche un po’ il secondo. Quando lavora, invece, per altri è solo enologo. Il fatto che sia viticoltore, in piccolo e in proprio, non è un dettaglio di poco conto. In tutti i casi la sua impronta, o come la si voglia chiamare, è ben presente in ciò che ama fare. Ho conosciuto Gian Luca Colombo ad una cena circolare durante Nebbiolo Prima dell’anno passato. Ricordo che abbiamo riso parecchio, parlato di tante cose e anche un po’ di vino, giusto per non rovinarci la serata.
Mi sono preso il tempo giusto per assaggiare le sue fatiche a Vinitaly, allo stand di Réva, e per chiacchierare con lui. La conversazione, durata più di un’ora, epurata dalle parti sconce e dalle battutacce (gli ho promesso solennemente che non la farò ascoltare a sua moglie), è andata più o meno così: di palo in frasca, alcune informalità, parecchie sovrapposizioni e digressioni, alcune disconnessioni, molto arrosto e diversi sughi. Mi dispiace solo di non poter riprodurre il rumore di sottofondo. Ma non solo: ciò che la scrittura non potrà mai rendere del racconto orale sono i toni, gli accenti, le lunghezze, le durate, le pause, le digressioni dialettali, eccetera: quei tratti che la linguistica definisce come sopra-segmentali o prosodici. Essi consegnano all’ascoltatore il senso che l’estensore dà a ciò che sta comunicando. Rimarcare più volte uno stesso concetto, sottolineare con tono di voce superiore una parola o un’espressione, ad esempio, significa che colui che parla attribuisce a questa o a quella un senso di rilevanza diverso dal resto del discorso. Data la loro irriproducibilità scritta ho deciso, comunque, di lasciare spazio al flusso delle parole nella loro impetuosa frammentarietà. Nel mezzo, in corsivo, i miei flussi mentali sui vini assaggiati.
Gian Luca Colombo: “Sai l’altro giorno stavo parlando con Giacolino Gillardi dell’intervista che hai pubblicato sul tuo libro (Il discorso del vino) a proposito del Dolcetto di Dogliani e gli ho detto che secondo me mettere tutta l’Alta Langa a chardonnay per produrre metodo classico mi sembra rischiosissimo. Sono contento del fatto che lui fosse d’accordo con me. Non puoi vendere un metodo classico a 5 euro e poi devi avere molto spazio per lo stoccaggio della merce e molto tempo per venderlo.”
Io: “ma non credi che questa scelta sia legata alla crisi del dolcetto?”.
Gian Luca: “Sì, probabilmente sì, ma ti dico questo: io per la tesi di laurea ho fatto uno studio sui cloni di chardonnay e la cantina di Clavesana, che secondo me fa dei dolcetti strepitosi, tra i migliori che ci siano, mi ha invitato a parlare della ricerca e, durante quella conferenza, ho sentito spingere moltissimo sul fatto di impiantare lo chardonnay per il metodo classico. Ma dove vogliono andare? Ritenere che in Langa proprio perché è Langa venga bene tutto, per me è una cosa che non sta in piedi. Dovevano pensarla come piccola produzione, tremila bottiglie a cantina, giusto per gli amici e via pedalare! Ti faccio assaggiare i miei vini. Questo è un vino rosso da beive (da bere – dialettale): lo chiamerò ‘Libertà’: lo faccio con 40% di pinot nero, 40% nebbiolo e 20% barbera. E lo metto nella bottiglia da litro. Non so ancora se chiuderlo con i tappi a corona o con quelli di sughero piccolissimi, quelli francesi da quaranta. Uscirò tra due mesi e mezzo”.
“Meglio a corona”, secondo me.
Nel frattempo compare dalla retrovie Daniele Scaglia, direttore dell’accoglienza di Réva, ideatore dello stand a Vinitaly che mi saluta brevemente e mi chiede cosa ne penso del suo modello realizzato: “di buona fattura e giusta sobrietà sabauda” – gli rimando. Daniele guarda sorridendo Gian Luca che maneggia le sue bottiglie (Segnidilanga) e aggiunge: “non ricordo di averti dato il permesso di far assaggiare i tuoi vini”. Ride un po’ più forte e se ne va.
Intanto il vino a futura “libertà” scivola con grande piacere. I tannini e le speziature dei principali vitigni sono felicemente amalgamate e supportate dalla spinta acida del barbera. Il frutto giovanile e giocoso rimane in primo piano.
Gian Luca: “Questa è la barbera e mi fa lacrimare: si chiama Greta, come mia figlia, bionda con gli occhi azzurri. L’azzurro, appunto, dell’etichetta. Il padre prima o poi lo troverò!” – dice sghignazzando – “La zona di produzione delle uve è a San Bernardo, nel comune di Magliano Alfieri che ha gli stessi suoli di Costigliole d’Asti: deve uscire come Barbera d’Alba per la zona di produzione, ma ha la struttura di un Asti. Fermentazione sulle bucce, in barrique di secondo, terzo e quarto passaggio per 9, 10 mesi e via pedalare! Il mio riferimento assoluto per il barbera rimane la Bogliona di Scarpa”.
Un’altra pedalata. Del 2015 per 2660 bottiglie. Indica i solfiti totali: 26 mg litro. Quella del 2013 ne aveva 59. Mai aggiunti, né prima, né dopo. In discesa nei solfiti, di grande slancio e bevibilità per tutto il resto: pieno il corpo, calda la mente e fresca la lingua. Ciliegie di varia fattura e poi frutti e fiori dal palato e sentori in viola.
Mentre Gian Luca mi versa il pinot nero, capita un signore col naso all’insù: “dove l’Onav?”. “Non so aiutarla. Questo è B2, ma che lettera è?”. Il passante casuale bofonchia qualcosa e se ne va via sempre col naso all’insù.
Non facciamo in tempo a congedarci dal cercatore Onav che dietro di noi si infila Giovanni (Angeli), che Gian Luca mi presenta così: “lui è un ragazzo perfetto, un marito perfetto, un padre perfetto, ma soprattutto un enologo perfetto. Fa dei vini pazzeschi. Poi vai ad assaggiarli che sono qui dietro l’angolo (Massolino)”.
Scambiano due battute mentre assaporo il pinot nero, prodotto in 5319 esemplari in bottiglia e 210 magnum. Del 2015, di gradi 13,5% non filtrato né chiarificato. Una macerazione che si protrae sulle bucce per almeno 30 giorni e malolattica in barrique anch’esse di vari passaggi. Ciliegia, lampone, fragola in evidenza supportati da un buon tenore alcolico. Quindi un sottofondo di ribes, viola, liquirizia e pepe bianco. Erbe di campo. Tannini molto fini e levigati. Un cenno distratto al tartufo, ma forse è solo una mia voglia.
La bottiglia è una bordolese, ma passerà all’albeisa: “sono tutti paraculi quando fanno il pinot. Usano tutti la borgognona, ma a me non piace”. “E’ un pinot nero di Barolo, Ravera, nord pieno” – continua Gian Luca – “e poi ho vigne a Dogliani a Santa Lucia, nord-est, a Monforte a Bussia, sempre nord-est, di circa 3000 metri l’una, mentre il nebbiolo è a Roddi: in linea d’aria sono Monvigliero, ma sai la zona di Barolo non è geologica, ma politica: pesce grosso mangia pesce piccolo ed è per questo che non potrei essere in quella zona. Il mio nebbiolo è stato affinato per 15 mesi in un fusto da 700 litri di legni della foresta di Jupilles (molto delicata e non conciante) e poi imbottigliato un mese e mezzo fa.”
Il nebbiolo tiene bella intatta la frutta di partenza, ma questo potrebbe dirsi, con orgoglio e senza pregiudizio, di ogni vino di Gian Luca: dopo di che vira sulle spezie, in piena gioventù, e guarda con piacere al di là del confine geopolitico.
Sopraggiunge Fiorenzo Sartore che apre un dibattito sui vini naturali non si sa come e partendo da dove, ma tant’è che Gian Luca, bio di suo e piuttosto dinamico anche con gli altri prorompe: “ma naturale che biiippp vuol dire? noi abbiamo la certificazione biologica, quindi? Il rame? Mi spieghi perché il controllo della temperatura non dovrebbe essere naturale… ?!!? la gente non ha studiato. Ad esempio Monfortino 95 o 99 sono dei vini infiniti, e su questi vini non ti poni neppure alcune domande: se hanno usato i lieviti indigeni o altro. Perché sui grandi vini scompaiono alcune domande di rito che toccano invece altri vini “minori?”. Quelli sono due vini capolavoro…. Ciao Cesco ci vediamo dopo… Qui, in Langa, non devi spostare nulla: il gioco è facile e devi prendere quello che la natura ti ha dato. Ci sono dei territori dove devi costruire il vino. Invece in Langa devi solo preservare il frutto che ti consegna la natura”.
Ci dà il suo biglietto da visita, guarda Fiorenzo, e dice: “c’è anche il numero di mia moglie… Non fare il furbo. Ho due figli e due mutui: non posso tradirla in alcun modo. Poi mi beccherebbero subito. Per un quarto d’ora di follia sarei rovinato. Questo è il Barolo classico di Réva.”
Mentre le parole svolazzano in libertà, i vini di Réva prendono corpo nel bicchiere. Vinicio Capossela frattanto mi ronza per la testa e da fruscio diviene fragore. Per primo il Dolcetto d’Alba 2016 che “scivola, scivola vai via. Non te ne andare”. E dopo il (la per i langhetti) Barbera d’Alba Superiore del 2015, “vino ematoso, vino ferroso. Vino di Mèrone stuporoso”. Ora, dunque, un sorso di Nebbiolo 2014 “da qualche parte della sera l’ombra si prende già le ore lui cade e lancia tra i binari una bottiglia in faccia al cielo il treno passa nel vapore e non lascia dietro che parole… E il Barolo 2013, quello che “le colline sembravan fantasmi neri, su un fondo blu, e le strade più misteriose d’adesso, facevan largo, alla nostra euforia, la notte passava in fretta, e non sarebbe più tornata, fuggita via anche lei”. Ma è solo quando sopraggiunge il Barolo Ravera 2013 che il fuoco si accende “come la porpora che infiamma il mattino/come la lama che scalda il tuo cuscino/come la spina che al cuore si avvicina/rossa così è la rosa che porto a te.” Chiude il Sauvignon 2015, di cui le uve porta a refrigerare per quattro giorni a zero gradi, che sale quando “si adagia la sera su tetti e lampioni e sui vetri appannati dei bar e il freddo ci mangia la mente e le mani e il colore dell’ambra dov’è? ripensa alla luce e al sole d’Italia che Dante d’autunno cantò”.
Fiorenzo: “ma com’è che si chiama la tua azienda?”. Gian Luca: “Segni di Langa, ma tutti dicono che dovrei usare di più il mio nome per cui si chiamerà soltanto più Gian Luca Colombo”. Fiorenzo: “Era meglio prima”. Gian Luca: “Io sono dato da una famiglia non benestante e la Langa mi ha dato la possibilità di fare delle cose che da altre parti non avrei potuto fare. E tu di dove sei Fiorenzo?”. “Di Genova”. “Ma che cazzo è che siete tutti di Genova voi di Intravino?”. “In realtà siamo solo io e Pietro. L’ho cooptato io Pietro”.
Fiorenzo prende la palla al balzo per parlare di Genova come luogo delle piccole opportunità, di città anziana, forzatamente conservatrice. È l’occasione giusta per farmi il bicchiere e per continuare a sorseggiare il Barolo Ravera 2013.
“Sapete” – prosegue Gian Luca – “sui Barolo io continuo a pensare che molti dei vini non siano coerenti con quello che ci si aspetterebbe dalle analisi dei suoli e dalle zone di produzione. Un vino che rispecchia pienamente il territorio da cui proviene, un vino pienamente genuino è quello di Scarzello: Federico s’incavola quando gli dico che il suo è un vino ‘monprivatiano’. Penso, al contrario, che il Monprivato sia un Barolo che lavora per sottrazione: un grandissimo Barolo che nasce da una posizione felicissima, ma che deve togliere anziché aggiungere”. Lo osserviamo con la bocca semi-aperta e quasi mi scappa un “ma dai!”. Ma sono cose estremamente intriganti per dei fuori-zona come noi e poi Gian Luca ha giurato che un giorno mi spiegherà a dovere.
Ci distraiamo quel tanto che basta mentre passa un felice personaggio oltremanica che chiede di assaggiare un dolcetto: “This is not dolcetto. This is lifestyle – ride Gian Luca- I’m joking”. Sorride anche lui, ingurgita e se ne va.
Gian Luca per torna velocemente a parlare di Barolo, raccontando che una delle sue esperienze più esilaranti è quella che fa in collaborazione con Peter da quando Réva, nel 2012, ha comperato Cascina Ebreo: “lì seguo ciò che Peter mi dice di fare. Lui è totalmente genio e sregolatezza. Io non posso fare i suoi vini. Posso fare i miei, ma non i suoi che sono imprevedibili, delle vere bombe, per cui lo seguo in tutto e per tutto. Mi ha insegnato a bere i vini di tutto il mondo e non sai mai quello che ti proporrà di fare”.
Una chiamata interrompe il flusso di parole e ci sollecita all’appuntamento di Intravino meeting.
Alcune delle ultime battute si consumano guardando lo stand della Gancia: “Ma voi ve lo ricordate il Marone Cinzano Pas Dosé? Uno dei metodo classico più buoni che abbia mai bevuto, un vino del porco Giuda. L’ultimo anno che lo hanno prodotto era il 2003, credo. Mi sono bevuto quelli degli anni 1990 e mi prendevo delle belle mine, ma ero contento. Avevo bisogno di berle perché il mio sangue ne aveva necessità. Sono un eterno malinconico”.
Così ci salutiamo “e le colline sembravan fantasmi neri/su un fondo blu/e le strade più misteriose d’adesso/ facevan largo alla nostra euforia /la notte passava in fretta/e non sarebbe più tornata/fuggita via/anche lei”.
2 Commenti
elle
circa 7 anni fa - Linkmiii, sono cresciuto anch'io a botte di marone cinzano! bell'articolo, complimenti
RispondiNelle Nuvole
circa 7 anni fa - LinkEccellente scritto in cui si avverte il senso vero dei veri frequentatori del Vinitaly, incarnati dal Gatto Sartore e la Volpe Stara. Quando è così, ricevere persone e scambiare con loro idee e conoscenza, oltre che sorsate, la fiera a Verona non la batte nessuno.
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