Einstein + Bohr + Carlsberg: storia di una formula impossibile

Einstein + Bohr + Carlsberg: storia di una formula impossibile

di Denis Mazzucato

Cosa centra la birra con lo spazio e la fisica atomica? La domanda è legittima, e la risposta è: molto più di quanto ci si potrebbe aspettare! E più si approfondisce il discorso più si trovano spunti interessanti, aneddoti e curiosità.

La prima storia che mi va di raccontare riguarda uno scienziato danese: Niels Bohr.

Bohr nacque nel 1885 a Copenhagen da una famiglia di colti aristocratici (entrambe i genitori erano accademici) e crebbe in un ambiente ricco di stimoli creativi. La loro casa era spesso meta di filosofi e scienziati, e ai bambini era permesso assistere alle conversazioni dei grandi (io ricordo nitidamente che quando ero piccolo per un periodo a casa mia si raccontava “la barzelletta del coniglio”, e ogni volta io e mia sorella dovevamo uscire dalla stanza: forse è per quello che non sono diventato uno scienziato).

Bohr divenne famoso per la sua mente creativa (ed è ben noto il beneficio che ha l’alcool sulla creatività, magari ne riparleremo), per il suo pensare fuori dagli schemi e per la sua curiosità. Fu lui a definire insieme al suo maestro Rutherford la struttura dell’atomo (passando dal modello a panettone di J.J. Thompson, al modello orbitale), ed è assieme ad Einstein, uno dei padri della fisica quantistica.

Una delle citazioni più famose di Albert Einstein è “Dio non gioca a dadi”. Quel che si sa meno è che quella frase fa parte di una serie di dialoghi che videro protagonisti lui e Bohr tra il 1927 e il 1930. Einstein era uno strenuo difensore del determinismo, ed era solito punzecchiare Bohr con indovinelli ed esperimenti mentali che avevano lo scopo di mettere in difficoltà le teorie quantistiche che stavano nascendo: non ci riuscì mai.

Alla frase “Dio non gioca a dadi” Bohr rispose “smettila di dire a Dio cosa deve fare”.

E la birra? Copenhagen non è solo la città natale di Bohr, ma anche del birrificio Carlsberg, che si distingue da sempre per un’attenzione particolare verso le scienze.

Carlsberg istituì nel 1876 una fondazione con capitale 1 milione di DKK (donati da J.C. Jacobsen, fondatore del birrificio) che aveva lo scopo di promuovere la ricerca scientifica e contribuì a finanziare gli studi di Bohr praticamente per tutta la vita.

Quando nel 1922 Niels Bohr vinse il premio Nobel per la fisica per il suo lavoro sull’atomo, la Carlsberg lo volle ringraziare in un modo a dir poco geniale: gli regalò una casa adiacente al birrificio, e poi fece in modo che un tubo gli spillasse birra direttamente in salotto. Evidentemente Bohr oltre a essere un gran fisico era anche un gran bevitore!

E ancora oggi si percepisce questo legame tra birra e scienza in prima pagina sul sito Carlsberg, dove lo slogan è: In pursuit of better. And not just better beer. We brew to create a better future for all of us.

Un piccolo easter egg si trova poi anche in fondo alla pagina (e serigrafato sulle bottiglie), dove si legge “probably the best beer in the world”: c’è chi giura che quel “probably” non sia infatti un eccesso di modestia, ma un riferimento alla fisica quantistica.

Ma veniamo allo spazio.

Da sempre l’uomo osserva il cielo alla ricerca delle proprie origini, o del proprio destino, o più semplicemente della via di casa, e la terra (ma non solo) è ormai piena di telescopi che passano le notti a scrutare, fotografare, e interpretare segnali luminosi vecchi migliaia di anni, cercando nuove stelle, nuovi pianeti, e chissà che altro.

L’Università di Liegi dal 2008 guida un progetto chiamato transiting planets and planetesimals small telescope, finanziato in parte dall’università stessa e in parte dallo Stato, che ha il fine di scoprire e studiare i pianeti al di fuori del sistema solare (esopianeti); due telescopi robotici che si trovano uno in Chile (La Silla Observarory) e uno in Marocco (Oukaïmden Observatory) scrutano il cielo ogni notte alla ricerca di qualcosa di nuovo e non ancora catalogato.

Nel 2016 il team di ricercatori ha pubblicato sulla rivista Nature le prime informazioni relative alla scoperta di una stella nana rossa, distante 39 anni luce dal sistema solare, poco più grande di Giove, attorno alla quale ruotano 7 pianeti. Il nome tecnico della stella (che sembra più un codice fiscale) è 2MASS J23062928-0502285, ma è stata battezzata TRAPPIST-1, un po’ perché è una sorta di acronimo del progetto (TRAnsiting Planets and PlanetesImals Small Telescope), ma anche in onore dei frati trappisti e alla tradizione brassicola belga.

Se gli appassionati di vino possono alzare un calice al cielo verso la costellazione della Vergine e salutare Vindemiatrix (la vendemmiatrice), ora anche chi preferisce il luppolo ha una stella affine da qualche parte nella costellazione dell’Acquario.

Fin qui abbiamo parlato perlopiù di tributi della birra alla scienza e viceversa, ma ci sono legami ben più pratici che legano l’industria brassicola e l’esplorazione (colonizzazione?) di Marte.

Quando si parla di lunghe esplorazioni spaziali due tra i numerosi problemi pratici che occorre risolvere sono: il sostentamento dell’equipaggio e il propellente per i razzi. Partire dalla terra con sufficienti acqua, ossigeno e combustibile per un viaggio di andata e ritorno verso Marte è, ad oggi, improponibile. La soluzione? Produrre quel che serve per il viaggio di ritorno direttamente sul pianeta rosso.

Anche di questo si occupa il progetto In Situ Resource Utilization (IRSU) promosso dal Johnson Space Center al quale collabora da anni Robert Zubrin, presidente della Mars Society e fondatore di numerose compagnie che svolgono ricerca in ambito aerospaziale.

Tramite semplici reazioni chimiche infatti l’anidride carbonica, che rappresenta il 96% dell’atmosfera marziana, può essere trasformata in ossigeno, acqua e carburante.

Si dà il caso che Zubrin oltre ad occuparsi di missioni su Marte possegga anche un micro birrificio, e che abbia trovato il modo per sfruttare questa tecnologia per tagliare i costi della produzione della birra. In che modo?

Durante la fermentazione alcolica della birra viene naturalmente liberata nell’atmosfera dell’anidride carbonica, che da prassi, almeno nel mondo delle birre artigianali, viene dispersa nell’ambiente. La stessa CO2, in molte produzioni industriali, sarà però necessaria al termine del procedimento produttivo per la carbonatazione, che consiste nell’addizionare il prodotto con anidride carbonica, appunto, per conferire frizzantezza.

Ed è qui che entra in gioco la Pioneer Energy di Lakewood (di cui Zubrin è stato presidente). Sfruttando la tecnologia creata per estrarre, liquefare e conservare l’anidride carbonica su Marte, la compagnia ha costruito qualche anno fa un congegno che raccoglie la CO2 prodotta in fermentazione, ne elimina l’acqua, la raffredda, la mette sotto pressione rendendola liquida e la conserva per il riutilizzo durante la carbonatazione della birra, dando anche un piccolo contributo al rispetto del protocollo di Kyoto.

Di questo passo non è escluso che un giorno si possa bere birra marziana!

Mi piace concludere questa breve e volutamente non esaustiva raccolta di storie di birra e scienza ringraziando Alan Zamboni (Curiuss), bravissimo divulgatore scientifico e ispiratore di questo pezzo, e con una frase di Niels Bohr, che sebbene forse non sia in tema con il resto, mi ha fatto immediatamente pensare alle diatribe sempre vive quando si tratta di descrivere un vino, una birra, … un atomo.

When it comes to atoms, language can be used only as in poetry. The poet, too, is not nearly so concerned with describing facts as with creating images.” (Niels Bohr).

avatar

Denis Mazzucato

Monferrino DOC, informatico da troppo tempo, sommelier da troppo poco, musicista per sempre. Passato da Mina, Battisti e Pink Floyd a Fiano, Grignolino e Chablis, cerco un modo per far convivere le due cose. Mi piacciono le canzoni che mi fanno piangere e i vini che mi fanno ridere.

2 Commenti

avatar

alberto spisni

circa 4 anni fa - Link

Racconto piacevole che ha stimolato la mia curiosità perchè in tanti tanti anni che parlo di atomi e molecole è la prima volta che sento parlare di un modello a panettone dell'atomo. Non riesco neppure ad immaginare una correlazione con l'ottimo dolce natalizio. sarò grato per una delucidazione sull'argomento.

Rispondi
avatar

Denis

circa 4 anni fa - Link

Le fonti sono molteplici e ben più autorevoli di me! Questa è una: http://www.dmf.unicatt.it/~sangalet/PLS/Buone_pratiche/Esperimento_Rutherford.pdf Si legge: "Vista la particolare configurazione che viene ad assumere l’atomo, questo modello atomico viene anche chiamato il “modello a panettone”" Grazie per aver letto!

Rispondi

Commenta

Rispondi a Denis or Cancella Risposta

Sii gentile, che ci piaci così. La tua mail non verrà pubblicata, fidati. Nei campi segnati con l'asterisco, però, qualcosa ce la devi scrivere. Grazie.