Dave Phinney e i suoi “8 Anni nel Deserto”

Dave Phinney e i suoi “8 Anni nel Deserto”

di Salvatore Agusta

Nella biografia di David Swift Phinney c’è un passaggio cruciale. Un viaggio senza il quale probabilmente non sarebbe diventato il wine maker di culto che è oggi e probabilmente non sarebbe neanche finito a lavorare in questo mondo. È infatti nel 1995 che dalla soleggiate spiagge della California parte per Firenze per un periodo di studio all’estero di 6 mesi. Un viaggio che ha avuto su di lui un impatto di particolare rilevanza, poiché è in Toscana che si avvicina e impara a conoscere il vino.

Tempo dopo, tornato a casa e terminati gli studi ma con ancora vivo negli occhi il ricordo dell’Italia decide di provarci, bussa alla porta di Robert Mondavi e inizia a lavorare nell’omonima cantina per circa due anni. Fu sul finire di quella esperienza che maturò un pensiero: “se devo lavorare così duramente allora è meglio iniziare a farlo per me stesso”.

Dave Phinney

Nasce così, sul finire del 1998, Orin Swift Cellars dal secondo nome del padre (Orin) e da quello da nubile della madre (Swift). Tra i tanti progetti che porta avanti, ve n’è uno in particolare ad avere clamore e successo: “The Prisoner“. Si tratta di un rosso prodotto nella Napa Valley principalmente a partire da uve di zinfandel, varietà che da sempre i californiani ritenevano di secondo livello. Così, grazie anche alla poca concorrenza e alla capacità di valorizzare un vitigno fino a quel momento poco considerato, riesce in breve tempo ad affermarla come una delle etichette di riferimento.

Un’idea tanto semplice quanto geniale che lo porta, in seguito, a ricavare grandissimi margini di guadagno dalla cessione. Infatti a partire dal 2008 comincia a cedere diversi assets e brands, incluso la citata etichetta per svariati milioni di dollari (girano voci discordanti, probabilmente non meno di 40 per “The Prisoner”). Per quel che concerne la produzione di zinfandel, Dave firmò un accordo di non concorrenza: questo gli vietava per 8 anni (pena il pagamento di una penale pari al doppio della somma ottenuta dall’affare) di svolgere qualsiasi attività, inclusa la mera consulenza, relativa alla lavorazione di quella specifica uva. Tutto questo si concludeva nel 2010.

Da allora si è dedicato alla creazione di diversi progetti, tra cui alcuni molto provocatori. Ad esempio a cavallo tra il 2010 e 2011 ha fatto uscire un nuovo rosso a base di cabernet sauvignon chiamato “Palermo“. Un vino che presenta in etichetta uno scatto di Vincent J. Musi, giornalista del National Geographic, raffigurante la mummia di un prete cappuccino presente all’interno delle misteriose catacombe di Palermo. L’idea era quella di paragonare l’essenza di quel vino alla solennità senza spazio e senza tempo della foto di Musi.

2010 Palermo

Io – da buon palermitano – non mi sono lasciato scappare l’occasione di assaggiarlo: un rosso che presenta alcuni tratti europei visto anche l’utilizzo di rovere francese (di cui il 35% di primo uso) ma che rimane americano nel suo dna: prodotto dal un blend di uve provenienti da diverse aree di Napa, presenta piccole percentuali di merlot e cabernet franc; in bocca come al naso esibisce sentori di amarena matura e frutti scuri, affiancati da note di tabacco e una lieve salinità che dona equilibrio e freschezza.

Allo scadere della clausola di non concorrenza legata a “The Prisoner”, esattamente 8 anni dopo quel grande affare, Dave è tornato sul mercato con un blend a base di zinfandel e non poteva scegliere nome più azzeccato: “8 Years in the Desert“. Anche l’etichetta richiama l’immagine di un deserto tipicamente americano, presumibilmente dell’Arizona o del New Mexico.

Il vino, frutto di un blend di zinfandel, petit syrah (varietà francese poco usata in Francia e chiamata durif) e syrah, risulta abbastanza persistente in bocca, con sentori intensi di lampone, fichi neri e pepe nero. Aperta la bottiglia e lasciato il vino a decantare per circa 30 minuti si avvertono note di cioccolato fondente e prugne mature. Il vino è deciso quanto opulento, da consigliare agli amanti dei vini forti, di corpo e piuttosto complessi.

Oggi David Swift Phinney porta avanti sia alcuni suoi progetti personali sia svariate collaborazioni con cantine americane ed europee. La sua perseveranza e quel semestre galeotto in Toscana lo hanno reso uno dei wine maker più provocatori del panorama americano e sebbene ancora oggi qualcuno guardi con un po’ di sospetto alle sue creazioni, sono sicuro che anche questo vino diventerà un’icona del panorama californiano contemporaneo.

[immagini: Black Book, Wine Spectator]

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Salvatore Agusta

Giramondo, Francia, Lituania e poi Argentina per finire oggi a New York. Laureato in legge, sono una sorta di “avvocato per hobby”, rappresento uno studio di diritto internazionale negli Stati Uniti. Poi, quello che prima era il vero hobby, è diventato un lavoro. Inizio come export manager più di 7 anni fa a Palermo con un’azienda vitivinicola, Marchesi de Gregorio; frequento corsi ONAV, Accademia del Vino di Milano e l’International Wine Center di New York dove passo il terzo livello del WSET. Ho coperto per un po’ più di un anno la figura di Italian Wine Specialist presso Acker Merrall & Condit. Attualmente ricopro la posizione di Wine Consultant presso Metrowine, una azienda francese in quel di New York. Avevano bisogno di un italiano ed io passavo giusto di là. Comunque sono astemio.

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