Cosa unisce Massimo Bottura e Nonna Papera

Cosa unisce Massimo Bottura e Nonna Papera

di Angela Mion

– Dodici verticale (9 lettere): ricetta con spaghetti, tuorlo d’uovo, guanciale, pecorino.

– Aspetta, si ci sta, questa è facile… Car-bo-na-ra

– Quattro orizzontale (otto lettere): il dolce più scomposto dagli chef.

– Eh, questa è difficile… dolce scomposto… che sia il Cannolo? No corto. Ah, Ti-ra-mi-su? Si ci sta!

– Uno verticale (9 lettere): grande polpetta di carne di origine tedesca.

– Polpetta tedesca? Würstel, no fatto a polpetta mai visto. Boh. Aspetta, polpetta di chianina, cipolla caramellata in crunch con lievito madre, l’hai mangiato l’altra sera retrograda che non sei altro! L’Hamburger, da Amburgo è vero, non è americano. Esatto ci sta.

– Otto verticale (10 lettere): la drag queen dei piatti; di origini incerte, l’ingrediente fisso è la melanzana.

– Ih ih questa la so, dieci lettere ci sta: Par-mi-già-na! Evvai! Vabbè era facile, chi la fa più fritta a strati?! Drag queen, geniale…

– Dodici verticale (7 lettere): cognome di noto chef pluripremiato di osteria che usa dare un nome ai suoi piatti.

– Osteria… famoso, nome ai piatti, Bottura… si è lui, Bottura. Elementare, Watson!”

Il cruciverba lo continuo più tardi perché mi fuma il cervello, è ora di cena, stasera il menù prevede macedonia di verdure in acqua cotta a 220 gradi. Un minestrone, insomma.

Dopo queste riflessioni mi gioco il briciolo di anonima credibilità che ho ma non posso farci niente quando mi parte la miccia in testa è la fine. La politica mi mette sonno. La religione la rispetto. Vino e cucina non ce la faccio, si accendono tutti i neuroni come l’albero di natale.

Ancora traumatizzata dal papero in umido (le ricette di Nonna Papera, remember?) proseguo in un atto secondo su alcune mie considerazioni sociopatiche in materia cibo.

Passo dagli anacronistici piatti della guida Vitae a un’altra questione stavolta contemporanea: i menù e i nomi dei piatti.

I poveri piatti sono, ormai, senza un nome, scomposti orfani della cucina italiana, ridotti a una semplice lista di ingredienti.

La Carbonara, ad esempio, quando è diventato trash chiamarla così? O è diventato più figo farne un moderno identikit: spaghetti o, pardon, spaghettoni (con specificato marca e tempo di cottura), guanciale croccante, uovo da gallina con pedigree, pecorino di vera pecora, pepe asiatico macinato fresco.

Siamo alla cucina che scompone per creare e ci sta ma, perdonatemi, la carbonara ricomposta non è pur sempre carbonara? La sfoglia di pasta su parmigiano reggiano vacche rosse, béchamel, ragù al coltello non è forse una lasagna alla bolognese?

Io sono veneta e se chiedo a mia mamma di prepararmi una crema di mais cotta a bassa temperatura mi spedisce a calci al più vicino ristorante.

– 7 lettere….crema di mais mamma! Polenta!

Era solo la polenta. Umile Polenta.

Vogliamo parlare poi del tiramisù? È il dolce più violentato seguito a ruota da zuppa inglese e meringa: “Crema di Mascarpone montata all’aria, Savoiardo artigianale, caffè espresso, cacao/in vasetto, piatto liscio, fondo, coppetta, terrina, padella, lavagna, bicchiere“. Sempre 8 lettere sono: tiramisù.

La questione è sottile e forse sarà banale o irritante agli occhi di molti. E l’informazione qua non c’entra nulla.

Io amo la cucina, la sua storia, il duro lavoro e la passione di chi fa questo mestiere, per questo credo che le cose debbano avere la giusta identità. In fondo il lavoro più difficile di uno chef è proprio racchiudere in un piatto un concetto, per quanto astratto esso sia, e comunicarlo, riuscire a trasmetterlo. Ma non bastano degli ingredienti, serve l’uso del lessico, dare un nome alle cose. Gli ingredienti ci piacciono, sono importanti e qui non li mettiamo in discussione, andiamo già oltre, loro da soli però non sono empatici e non si ricordano facilmente.

In fondo un piatto è come un quadro che ha bisogno di un titolo, tipo “La Gioconda”. Che cosa ci dice un dipinto se lo chiamiamo “colore a tempera rosso più bianco più verde sfumati su tela raffiguranti una donna dal sorriso enigmatico“? Niente, un insieme di colori su un pezzo di stoffa.

La cucina ha bisogno del suo linguaggio, ha bisogno di andare avanti, di evoluzione anche nella parola, non solo nella struttura. Ha bisogno di cultura e consapevolezza, perché un piatto, per passare alla storia, ha bisogno di un nome, non di una lista!

– Trentasette verticale (8 lettere): succo d’uva rifermentato in autoclave o in bottiglia, da varietà glera, esiste quello DOCG di Valdobbiadene e Conegliano.

– No mamma non è aceto!! Ti perdono solo perché sei astemia. Prova: Pro-sec-co. Ok. No mamma non sono alcolizzata!”

Vi-no… e speriamo di non fare la stessa fine della Carbonara.

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Angela Mion

Veneta, classe 1981, studi giuridici e azienda di famiglia. La svolta cubista arriva quando ormai maggiorenne incontra il vino: Sommelier, Master Alma-Ais ed altre cose in pentola. “Vin, avec toi on fait le tour du monde sans bouger de la table”. Bucolica e un po' fuori schema con la passione per la penna, il vino, il mondo e la corsa. L’attimo migliore? Quello sospeso fra la sobrietà e l’ebbrezza.

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