Come vendere il vino. Una lezione all’Università che farà felici gli agenti (e chi vuole diventarlo)

Come vendere il vino. Una lezione all’Università che farà felici gli agenti (e chi vuole diventarlo)

di Adriano Aiello

Questo è il testo della Lezione sulla comunicazione e la vendita del vino che ho tenuto all’interno del Master in Food and Wine Communication presso Iulm (Università di comunicazione e lingue) a Milano. Detto così pare terribile ma insomma, ecco a voi, vedete un po’.

La vendita come modello di comunicazione sul vino
Non sono un venditore classico e non mi considero neanche un buon venditore nell’accezione che comunemente si attribuisce al termine, ma credo che questa mia distanza dalla figura di agente “convenzionale”, in questo specifico periodo temporale, possa garantire più vantaggi che svantaggi. Almeno in un settore come quello del vino, e in una città come Milano, dove la narrazione, la competenza (che non è mai sufficiente e sempre soggetta al giudizio perentorio degli altri) e, soprattutto, la voglia di fare hanno un peso importante. Non escludo lo abbiamo in altri settori, ma sono sicuro che le specificità del vino siano molteplici e singolari. Banalmente e schematicamente: nell’accezione più classica, un buon agente, di quelli che pubblicizzano su Radio 24 dalla mattina alla sera, deve possedere delle particolari attitudini personali tali da prescindere da quello che vende, che sia una macchina, un’assicurazione, un ferro da stiro per la compagna di Salvini o, appunto, una bottiglia di vino. Ha, o dovrebbe avere, parlantina, capacità di persuasione, intuito e abilità nel leggere la persona che si trova di fronte. Dovrebbe saper ascoltare, molto più di  parlare. E intervenire solo quando la situazione lo richieda. Doti mica da poco, soprattutto in un’epoca di ego-riferimento costante come la nostra. Non è quindi mio intento squalificare queste caratteristiche, ma vanno messe in prospettiva, almeno se vogliamo parlare della vendita come di un momento di comunicazione del vino e sul vino.

Ovviamente questo ipotetico nuovo agente del vino, esperto e appassionato, qualche capacità relazionale dovrebbe dimostrarla – anche se persino l’essere dei sociopatici terminali potrebbe aprirvi qualche insperata possibilità – ma in generale non crediate che i venditori siano delle macchine sociali eternamente performanti. Dovreste spiarmi quando arrivo davanti a un ristorante che conosco poco, e l’idea stessa di entrare con un catalogo di vini, per provare a catturare la loro attenzione od ottenere un appuntamento, mi immobilizza completamente, per credermi. Non a caso il mio incubo più ricorrente è quello di vendere vino a qualcuno che non lo apprezzi minimamente e non gli interessi altro del suo valore meramente economico, o di merce, perché in quell’occasione so di esaurire prima gli argomenti. C’è tutta una grammatica spoetizzante, ma anche estremamente formativa, direi materiale, pronta a mettere a dura prova questo nuovo agente che sto provando a raccontarvi. Basta parlare di promozioni, sconti per mescita, vini da lavoro, eccetera. Il vino, per quelli che lo amano come il sottoscritto, è molto di più di una bevanda alcolica: l’investimento è ovviamente culturale, emozionale e perfino d’identità. Potremmo dire che l’atto del bere può essere un atto politico, oltre che comunicativo, ma non vorrei uscire troppo dal seminato, anche se più avanti aprirei volentieri una parentesi sul vino naturale, che si sta dimostrando un argomento sempre più ricco di sfaccettature culturali. Torniamo al nostro cliente, severo e brutale, che non ha alcun interesse nella bontà di un millesimo o nei metodi di vinificazione del nostro amato contadino schietto e un po’ ombroso. Lui vuole sapere quante bottiglie gli regali se consuma 15 cartoni al mese del tuo bianco. E tu sai che se esci fuori dalla tua zona di comfort, il dilemma precedente “sono o non solo un puro venditore?” tornerà a farsi sentire. E la risposta potrebbe scoraggiarvi.

Questo ci riporta al punto da cui siamo partiti: il discorso sul vino, oggi, sta permettendo la formazione di una figura commerciale che, almeno in alcune nicchie di mercato, si avvicina molto più alla divulgazione che alla pura vendita; questa nuova figura professionale ha anche buone prospettive di successo, considerando che parliamo di un lavoro che non vogliono più fare in molti, per attitudini e diverse percezioni generazionali.

Comunicazione del vino
Esistono infiniti modi di raccontare un vino, ovviamente. C’è una comunicazione istituzionale, un po’ paludata e ampollosa, figlia degli anni ’80 e del boom commerciale del vino. Per quanto sia piacevole raccontare la storiografia antichissima della formazione della vite, che tutti noi del settore menzioniamo a ogni corso di avvicinamento, come anche l’immagine dei nostri nonni con la damigiana, il vino in Italia, soprattutto come comparto industriale, ha una storia recente. E la sua esplosione sui mercati ha forti connessioni con il nostro decennio più pubblicitario.

C’è poi una comunicazione, assolutamente non in antitesi con la precedente, ma più centrata. Una comunicazione ricca, sfarzosa e retorica, fatta di grandi bevute, belle donne, “splendide cornici” e testimonial imponenti, che ci ricorda come una buona fetta del mercato enologico rimane il lusso. Il bere come atto edonista. Ancora oggi questo “classismo” enologico alberga anche all’interno di fiere come il Merano Wine Festival e il Vinitaly, dove si passa da piccoli stand a giganteschi prefabbricati desiderosi di gridarti in faccia la forza del brand che rappresentano.

C’è una comunicazione calorosa e familiare alla Galassi, che temo molti di voi non ricordino più. Una famiglia “normale” a tavola, una bevuta spensierata e il claim azzezzato “te lo do io il promemoria”. Un modello classico che domina ancora la pubblicità gastronomica, ma che nel settore ha perso quota perché il vino non si consuma quasi più durante il pasto e in quel contesto sembra non riesca a comunicare unicità.

C’è poi tutta una nuova comunicazione più moderna e composita (per raccontare la quale non ci basterebbe una giornata) che cerca di tirare le fila dei tempi, rimettendo in pista lo spirito autentico del fare e bere vino, la spinta culturale, ma anche quella frivola, fino a quella etica e di custodia del territorio. Lo fa con tempi, modi e strumenti diversi, costruisce un’idea del mondo cercando magari di recuperare il gap con il mondo della birra, specie artigianale, e con il nuovo mixologism. Volente o nolente, più volente direi, per quanto le dispute contemporanee sul vino siano noiose, sfiancanti e manichee, io mi trovo all’interno di quest’ultimo calderone. E da questo calderone, fatto di eventi, manifestazioni, degustazioni, viaggi, blog, gruppi su Facebook e discussioni da bar o da pochi eletti, traggo la spinta per il mio lavoro. Qui mi muovo, argomento, battaglio e mi conquisto uno spazio.

Qualunque sia la comunicazione che apprezziate è importante comprendere come anche la vendita sia una forma di comunicazione e siete voi a scegliere quale sia la più efficace. Per me è quella che è più vicina al mio modo di essere e di pensare, al proprio tono di voce. Più concretamente se, come nel mio caso, la disonestà intellettuale è la cosa che più vi mette a disagio, la vostra comunicazione sarà semplicemente il vostro pensiero vero e senza filtri. Può sembrarvi una negazione dell’idea stessa di vendita, ma io non sono per nulla d’accordo.

Io dico sempre la verità, anche quando mento, diceva Al Pacino in un indimenticabile monologo di Scarface. Ecco, se dovessi scegliere un’idea forte da comunicare sarebbe questa. Ma la verità è un tipo di comunicazione, non un modo. Il modo con cui ci si approccia fa tutta la differenza del mondo: la capacità di equilibrare la spinta passionale con quella informativa, senza eccedere in tecnicismi e neanche banalizzare, comprendendo l’interlocutore e le sue esigenze, mostrandosi competente e soprattutto affidabile. È un argomento che sento molto perché ha esatta corrispondenza con i miei due mondi: la vendita e la scrittura. Qui il parallelismo con il mondo del giornalismo – tout court – e della comunicazione enologica trova la massima profondità. Può sembrare semplice ma non esiste nulla di più difficile che trovare una quadratura tra un linguaggio tecnico come quello del vino e una ricezione popolare, senza cadere nelle due trappole più sanguinose: populismo da una parte, autoreferenzialità dall’altra. Mi è accaduto per un paio di decenni nel mondo del cinema, continua ad accadermi in quello del vino. Raccontare una verticale esclusiva o 10 vini da comprare al supermercato sono esperienze talmente antitetiche che difficilmente se ne esce senza crisi interiori.

Intimità e vicinanza: la comprensione del cliente
Essere un buon venditore significa avere prima di ogni cosa dei buoni clienti, in termini di fiducia e condivisione: l’investimento è duplice, molto più di quanto si creda. Tutti e nessuno hanno bisogno del vostro vino, ma alcuni, i clienti migliori, hanno bisogno o piacere di avere il pacchetto generale: i tuoi vini, la tua rappresentanza, la tua presenza (sporadica o frequente che sia), il tuo orecchio e il tuo eventuale consiglio. Ovviamente questo è l’aspetto commerciale più importante, ma anche quello meno inerente a questo nostro incontro, quindi non approfondirei moltissimo queste dinamiche venditore/cliente, anche se c’è un elemento molto importante su cui riflettere. Chi lavora nella ristorazione/enoteca/bar spende l’intera giornata in questi posti, spesso sopraffatto da ritmi forsennati, domande ed esigenze surreali ed ha un bagaglio di esperienze, aneddoti e perché no, sfoghi, da condividere che non vanno mai sottovalutati. Magari per uno di loro siete l’ennesimo scocciatore e per altri una piacevole presenza anche portatrice di spensieratezza e condivisione. Non è un caso che nel mondo della vendita l’atto dell’ordine di acquisto sia quasi sempre un momento sociale. Non c’è quasi mai reale necessità di andare da un cliente per prendere un ordine che può farvi con una mail, un messaggio, un audio o quello che preferite, eppure c’è una dimensione relazionale che permane, “passa che ti faccio l’ordine” è un mantra della vendita. Qui c’è quell’investimento di comunicazione e di comprensione dei gusti, della cultura e dell’idea di vino che mettiamo in campo di cui abbiamo parlato precedentemente. Qui ci avviciniamo all’idea del compimento di questa figura di agente/ambasciatore, portatore di un’idea specifica del vino e di conseguenza anche potenzialmente ambasciatore del locale in cui si vendono i propri prodotti, perché si costruisce un’identità comune che si differenzia dall’esterno. Trattare dei vini biodinamici francesi in un ristorante di sushi o dei rifermentati in bottiglia in una pizzeria è un elemento di forte identificazione, non solo un atto commerciale.

Mode, miti e vini naturali
I grandi guru della comunicazione hanno un’idea totalizzante e organica di questa. Pensano, in estrema e brutale sintesi, che la comunicazione sia il centro delle cose, attraverso la quale tutto si sviluppa. Per dirla in termini marxisti, la comunicazione sarebbe la struttura e tutto ciò che la circonda le sovrastrutture. Non potrei essere in più disaccordo, ma questo è irrilevante. Quello che mi interessa sottolineare è invece l’elemento umano, irrazionale, spesso non argomentabile. Il mondo del vino è soggetto a una serie di variabili spesso volatili, come l’acidità di alcune bottiglie che beviamo. Non chiederei a un Consorzio, a un pubblicitario, a un enotecaro o a un produttore perché a Milano si beve tanto Ripasso o Ribolla gialla. Tendo a considerarlo un elemento la cui percentuale misurabile sia poco significativa. Da venditore ne prendo atto, lo accolgo come elemento, volendo cavalco anche il momento buono di alcune tipologie e continuo per la mia strada. Per come la vedo io tutte le mode hanno una quota di astrattezza ed è inutile contrapporcisi, come cavalcarle acriticamente: la coerenza e la competenza rimangono l’idea di comunicazione vincente sul lungo periodo. La prima vi impedisce di trasformarvi nell’opposto di voi stessi di fronte a clienti che vi siete conquistati proprio attraverso un percorso comune, la seconda di sfatare improvvise credenze o miti che inflazionano il vostro campo, dove ancora molti confondono le zone di denominazione con i vitigni, associano il Prosecco a qualsiasi idea di spumante e l’alcolità all’importanza del vino.

C’è poi il caso interessante dei vini naturali, la cui natura è tanto caotica sotto il profilo definitorio (non esistono blog, riviste, siti d’informazione, generalista o specializzata, che non si siano spesi negli ultimi anni per raccontarli, demonizzarli, evocarli, denigrarli o esaltarli) quanto forte sotto quello della percezione. Burocraticamente non esistono in quanto autocertificati, praticamente rappresentano una fetta di mercato che punta tutto sul bere consapevole, sulla ricerca dell’autenticità assoluta e su una certa demonizzazione dell’invasività dell’enologia tradizionale. Come dire che da un principio condivisibile si sfocia in un manicheismo spesso allarmante. Attualmente, infatti, i vini naturali, sono un corpus unico, un insieme di vini nel mondo del vino, l’unica nicchia di mercato capace di investire uno specifico universo di riferimenti culturali, con relative lotte, scissioni, moralismi, narcisismi, se non idee del mondo vere e proprie, spesso molto più reazionarie di quanto si sia inclini a pensare. Un po’ come un film autoriale in concorso al Festival di Cannes, i vini naturali rispondono sempre più a un’estetica definita e ineluttabile, che ha preso il sopravvento sull’idea stessa di bere un vino il più vicino possibile alla sua espressione autentica, per diventare un corpo autoreferenziale. Con le proprie fiere, le proprie etichette, le proprie eccentricità, i propri gruppi Facebook, i propri divulgatori e i locali specializzati in vini che rispondono a un canone ferreo e predeterminato. Perché ci interessano molto i vini naturali? Perché rispondono, con il megafono, alla domanda di partenza del nostro incontro: la vendita del vino è un atto di comunicazione sempre più centrale e importante. E il mercato alternativo dei vini naturali, fatto da agenti e operatori con un profilo audace, combattivo e appassionato, ce lo dimostra.

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5 Commenti

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Nic Marsél

circa 6 anni fa - Link

Molto interessante. Grazie!

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Nelle Nuvole

circa 6 anni fa - Link

Bene articolato, esauriente, focalizzato. Lo compro!

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Giacomo

circa 6 anni fa - Link

il rappresentante di quel famosissimo....... 1998 ... sei bottiglie di barbaresco te le posso dare, ma devi farmi un ordine con almeno 36 bottiglie, puoi prendere il nostro **** *** che piace molto, o anche la ******** 2018 ...e se ti servissero anche solo due bottiglie me lo dici, te le porto in giornata...

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Giovanni

circa 5 anni fa - Link

Pienamente ragione sui vini naturali ,un movimento sempre più grande

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KATERINA

circa 4 anni fa - Link

Grazie x il suo articolo!

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