Cinquanta sfumature di riso per Sua Bontà il Sake

Cinquanta sfumature di riso per Sua Bontà il Sake

di Thomas Pennazzi

Ogni tanto succede di partecipare ad una serata insolita. Stavolta è stata l’occasione per avvicinarsi al sake. E che occasione. Lo spunto è venuto da Gae Saccoccio, wine-philosopher, che ha organizzato sul tema una tournée di grande interesse tra Milano, la toscana e Roma. I protagonisti sono stati, oltre alla bevanda, quattro produttori artigiani venuti dal Paese del Sol Levante; li accompagnava Elliot Faber, un canadese emigrato a Hong-Kong, profondo conoscitore di quanto si produce e si beve in Giappone, che si tratti di sake, shochu, o di whisky dagli occhi a mandorla, e co-autore del testo “Sake: the History. Personal Stories and Craft of Japan’s Artisanal Breweries”, per coloro che volessero approfondire il tema.

Il sake (pron. sakè), se non lo sapete, è chiamato vino di riso ma in realtà il suo processo produttivo lo rende affine alla birra, in quanto per estrarre alcool dal cereale bisogna prima sottoporlo ad una sorta di maltazione tramite la muffa chiamata aspergillus oryzae (in giapponese: koji) per scindere gli amidi in zuccheri semplici. Sarà poi l’inoculazione di un lievito a produrre la fermentazione alcolica, da cui si ottiene questa bevanda, non esclusiva del Giappone.

La sua preparazione è ancora in parte artigianale, legata a tradizioni ed a pratiche antiche di secoli, impregnate di ritualità, ed affianca il sake comune, industrializzato, corrispondente del nostro vino da bottiglione, addizionato di alcool. Il primo è Junmai, il secondo no. Le zone produttive hanno ognuna tecniche e stili diversi, secondo le province, ed ottengono, con sapienti lavorazioni, risi pregiati, lieviti aziendali tramandati da generazioni, ed acque di sorgenti, un’ampia varietà di sake, le cui sfumature ci sfuggono, quanto potrebbero sfuggire ad un giapponese le sottili differenze dei nostri vini.

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Confesso che ero prevenuto, ma anche incuriosito: non capita spesso di potersi abbeverare alla fonte senza andare in Giappone, e sentirsi spiegare dalla viva voce dei produttori cos’è questa tradizione; altri assaggi di sake mi avevano dato l’impressione di essere bevande quasi del tutto incomprensibili al nostro palato. Ma questa freddezza è stata sciolta già ponendo il naso nel primo bicchiere.

Una delle lavorazioni più caratterizzanti dei sake è il grado di pilatura del riso: quanto più questa è spinta, tanto più il vino sarà di corpo leggero e ricco di profumi: si tiene solo il cuore del chicco, la parte più ricca di amidi. Ma la qualità è data anche dal tipo di fermenti e dal riso utilizzati; è un mondo complicato, con una gamba nella sfera dei liquori ed un’altra in quella del vino, per il tenore alcolico compreso tra 14°/16° (diluito) e 17°/18° (pieno grado), secondo le lavorazioni. Mentre il sake scadente arriva a malapena a 14°, e deve essere rinforzato con alcool neutro.

Capitolo prezzi: non pensate di bere un sake di qualità a € 10. Dovrete spendere il giusto, intorno a € 30 per una tradizionale bottiglia da 72 cl. Siete avvisati. Poi, decidete voi se ne vale la pena.

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Come primo assaggio, ecco il Daishinshu Junmaidaiginjo Shisuiryusen. Il suo fruttato era intenso, ma il corpo lieve e delicato. In bocca ritornava carezzevole con gli stessi accenti, solo un po’ vinoso. L’alcool si nascondeva bene, nonostante la forza di un vino del nostro sud. Aggraziato e denso di significati come un haiku.

Il secondo, servito riscaldato, era tutto un altro mondo. Chikusen Konotori Junmaidaiginjo, dall’elegante etichetta raffigurante un gruppo di cicogne orientali (konotori). Un vino di cereali allo stato puro, tutto meno che secco, di una cantina vecchia di tre secoli. Il primo pensiero andava alla levità ed ai profumi di un Kornbrand delle isole Frisoni; c’era un delicato aroma di alcool di cereali, con più corpo del precedente, ma quasi neutro in sapore. Non ho dubbi, chiamava il pesce crudo, come una vodka desidera l’affumicato. Pareva di bagnarsi la lingua e la mente in un tiepido onsen alcolico.

Il terzo produttore ci prometteva ancora qualcosa di diverso: il suo Junmaiginjo Murokagenshu (sake non filtrato né diluito) Seppikosan gli assomigliava. Lui uomo robusto, il sake altrettanto di corpo, tarchiato e muscoloso, ma con tanta gentilezza fruttata orientale. Chiusura più persistente, di decisa soddisfazione. Era grasso e morbido come un lottatore di sumo.

Con l’ultimo della batteria abbiamo avuto un finale in crescendo rossiniano: il Rairaku Junmaiginjo cantava classe a gran voce. Eleganza, finezza, un corpo scolpito e ben equilibrato, aromi delicati eppure molto presenti, in grado di soddisfare anche il più smaliziato e diffidente occidentale. Merita un posto tra le cose buone del mondo. Questo sake esprimeva il raffinato talento della geisha che intrattiene il bevitore con arte. Bravi davvero.

Come bonus, un “vino da dessert” tipicamente giapponese, usato volentieri anche per la mixology: dalla seconda delle aziende, il Chikusen Junmaiyamadanishiki Umeshu. Lo scioglilingua altro non significa che un sake da un particolare tipo di riso, invecchiato ed aromatizzato alla prugna. Le migliori e grosse prugne giapponesi vengono macerate nel sake con un poco di zucchero di canna per ben sette anni a -5°C. Se ne ricava un vino dorato e ben strutturato, dai netti toni del frutto, che può ricordare il tratto ossidativo di uno sherry insieme a note aminoacidiche, per noi insolite, stemperati subito dalla dolcezza acidula e carnosa delle magnifiche prugne, per cui i nipponici hanno una venerazione. L’alcolicità è del tutto modesta, 11°. Ammaliante per la sua complessità e freschezza, mi richiamava da lontano un liquore di prugnole selvatiche.

Con l’aiuto di un esperto come Elliot Faber e di Hiroshi Watanabe, interprete per noi dell’ostico idioma giapponese e della sua tradizione alcolica, è stato possibile avvicinarci ad una categoria di bevande concettualmente molto distanti dalle nostre, ma che parlavano la lingua a tutti comprensibile della qualità. Grazie ancora alla passione ed alla curiosità di Gae Saccoccio, vero costruttore di ponti culturali ed esploratore della natura delle cose.

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto fatica a ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito (il cognac), e per qualche anno ne ha scritto in rete sotto pseudonimo.

8 Commenti

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Alessandro Morichetti

circa 8 anni fa - Link

Come si serve? Temperature, bicchieri (ecc...)? Gae, facci sapere.

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gae saccoccio

circa 8 anni fa - Link

Caro Alessandro ci sarebbe da fare una premessa generale. La media del Sake in circolazione per l'Italia è di livello alquanto mediocre da cui capisci bene che caldo o freddo poco tange se la qualità del prodotto in sé è equivalente al pessimo andante. Sarebbe come impostare un rituale del te' cinese con teiere in terracotta d'epoca Ming ma la qualità del te' infuso è un grossolano Twinings liofilizzato in bustina, niente a che vedere ovviamente con un Pu-Erh dello Yunnan coltivato a 3500 metri tanto per fare un esempio di prodotto diverso ma con altrettanta storia millenaria alle spalle quanto il sake e per non star sempre a scomodare più facili analogie nell'enologia di casa nostra, pensa solo al Pinò Grí - parodia del vino industriale - con cui si è invaso il palato Yankees per decenni.. Ad ogni modo ci sono tante tipologie di sake e per ognuna una temperatura di servizio adeguata, sai quanto sono normativi, minuziosi e classificatori i Giapponesi. Il tema delle descrizioni delle temperature è un capitolo meraviglioso gonfio di mistero e poesia, una vera costellazione di Haiku. Ho scritto un libricino che spero di pubblicare a breve, magari ti sarà più utile di questa mia risposta arzigogolata.

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Durthu

circa 8 anni fa - Link

Scusi se mi permetto dal basso della mia laurea in ingengeria, ma qualche segno di interpunzione in piu'non avrebbe fatto male. Ma magari scriveva dal cellulare. In ogni caso, il Pino' Gri' "industriale" e' ancora peggio servito a 20 gradi, quindi magari due indicazioni generali ci potrebbero stare anche sul sake mediocre. Scusate l'acidita', sara' che mi sono svegliato con un fortissimo brexit stamattina.

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gae saccoccio

circa 8 anni fa - Link

Uno dei più grandi scrittori in lingua nostrana era ingegnere, non vedo dove l'interpunzione abbia potuto contribuire ad acuire la sua autopalesata acidezza e mal di brexit. Mio punto sostanziale è che il Pinò Grì, a buon pro degli yankees, non andrebbe bevuto né frozen né tantomeno a temperatura brodino di cappone. Qui di seguito qualche indicazione di massima sulle temperature stile Haiku cui facevo riferimento, spero "interpuntate" a puntino. Ogni temperatura ha la sua tipologia e stile di sake appropriata, ma forse così rischierei di allungare troppo il brodino di cappone di cui sopra.. .• Tobikirikan indica la temperatura a 55 °C per un sake che traduce l'espressione: "estremamente caldo"; • Atsukan 50 °C molto caldo; • Jokan 45 °C "piuttosto caldo"; • Nurukan 40 °C "gentilmente scaldato"; • Hitohadakan 35 °C "temperatura corporea" oppure "caldo proprio come la pelle d'una persona"; • Hinatakan 30 °C che traduce espressioni quali "bagno di sole estivo" o "fuori al sole"; • Suzubie 15 °C "leggermente fresco"; • Hanabie - si ci siete, proprio come lo struggente film di Takeshi Kitano - a 10 °C che sta per "fiore di primavera che sboccia" o "fiore raffreddato"; • Yukibie 5 °C "freddo come neve" a cui si associa anche il reishu che è un termine con cui si può indicare la temperatura del sake servito molto freddo ghiacciato quasi. • Hirezake, non ho mai ancora avuto l'occasione d'assaggiare questo particolare modo di servire il Sake caldo con dentro immersa una pinna di pesce allo scopo d'insaporirlo, in effetti non saprei neppure dire se vale la pena o è una schifezza che gli stessi giapponesi moderni considerano come noi oggi valuteremmo oggi il Garum dell'antica Roma

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fabio panicco (@fabiopanicco)

circa 8 anni fa - Link

ecco, bravo AM: cosa rispondere e perché quando ci viene chiesto "Hotto or Coldo" nel momento in cui ordiniamo del, letteralmente, liquore giapponese (nihonshu)?

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Nicola Marciano

circa 8 anni fa - Link

Molto semplice ma completo. Trascinante ! Chi ha scritto l'articolo Gae ?

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Simeone

circa 8 anni fa - Link

Scusate, non sono mai stato un fervente bevitore di sakè (che poi sarebbe il termine generico giapponese per alcolico, io venivo redarguito e mi dicevano di parlare di Nihon-shuu), ma nell'articolo, iperboli legate alla cultura nipponica tradizionale a parte, si omette un fatto fondamentale: i residui zuccherini. Di base sono grammi/litro da diabete fulminante. Hirezake compreso (il famoso/famigerato Nihonshuu servito caldo con la pinna di Fugu in bella vista)

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Denis Mazzucato

circa 8 anni fa - Link

Il sake questo sconosciuto... Ci sono istituzioni nel mondo che hanno una scheda di degustazione apposita! Ci sto lavorando...

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