Cavar sangue da una rapa: il Grechetto della Tuscia

Cavar sangue da una rapa: il Grechetto della Tuscia

di Massimo Andreucci

C’è una rassegna che dal 2003 raduna tutti gli anni i produttori di Grechetto a Civitella d’Agliano verso la fine di luglio. Si chiama “Nelle terre del Grechetto”. Mi piace sottolineare che queste manifestazioni, anche a prescindere dal numero di tagliandi strappati all’ingresso, riescano ad innescare fenomeni molto positivi quando sanno riunire i viticoltori intorno ad un tavolo spingendoli a fare rete o quantomeno a scambiarsi informazioni preziose. Col vino non è come quando vai a funghi che il posto non lo dici ad anima viva, qui stranamente la condivisione a determinate condizioni paga.

Se ad esempio una denominazione si attesta su un livello qualitativo di sicurezza, tipo che ne prendi dieci bottiglie a caso dallo scaffale e quando le apri sono quasi tutti caspita! a guadagnarci non sono solo gli ultimi produttori arrivati, che beneficiano della nomea avendovi contribuito poco o nulla, ma tutti,  persino il Vate della prima ora che, per dire, un tempo era lì da solo ad  abbaiare alla luna e finisce che si ritrova seduto tra gli dei dell’Olimpo con tanto di fulmine nella mano destra.

Tanto per intenderci parliamo di un vino (sempre il Grechetto) che di suo non sarebbe esattamente un piacione e che quando non è fatto come si deve può persino risultare caldo e un po’ sempliciotto al naso. C’è chi se lo fa bastare così, ma c’è anche chi si tatua all’avambraccio il nome del cane, per dire, e non sono nemmeno pochi, tanto che la produzione di massa per anni gli è andata dietro, col risultato finale che sul mercato è transitato un quantitativo non indifferente di bocce mediocri.

Dalle mie parti, in Umbria, ad esempio, i pregiudizi sul Grechetto sono duri a morire.

Certo, chi sta più sul pezzo sa bene che ultimamente sono spuntate fuori delle etichette significative, ma si tratta di un pugno di consumatori. Peraltro c’è da dire che non stia emergendo una tradizione virtuosa più o meno univoca ma stili interpretativi piuttosto eterogenei il cui unico filo conduttore sembra essere la ricerca della qualità. E così, tra le più riuscite, si hanno versioni improntate all’eleganza come il Colle Ozio di Leonardo Bussoletti, o alla sapidità, tipo Roccafiore, o altre ancora giocate nel segno della naturalità senza compromessi, tra cui ho un vivido ricordo del Fiero di Cantina Margò.

Se si vuole isolare una tradizione che in qualche modo sia più riconoscibile bisogna però rivolgere lo sguardo alla Tuscia, in particolare a quella lingua di terra che da Civitella d’Agliano attraversa Castiglione in Teverina, lambisce Corbara e piega leggermente ad ovest intorno ad Orvieto (che poi, sì, sarebbe di nuovo Umbria, a dispetto delle evidenze paesaggistiche e culturali di innegabile segno opposto). Da lì provengono i Grechetto più premiati, quali il Poggio della Costa ed il Latour a Civitella di Mottura o i vari Orvieto di Palazzone, Barberani, Decugnano dei Barbi, etc. (che sono tagli a base di grechetto).

Il genius loci – sto cercando di evitare il termine terroir – della Tuscia contempla la presenza di fattori naturali, ed ovviamente umani, pressoché unici. Intorno a Civitella d’Agliano le eruzioni vulcaniche hanno sedimentato uno strato abbastanza spesso di tufo, pozzolana e nenfro, tale da impedire all’argilla sottostante di defluire con le piogge (calanchi) portandosi via tutto il bendiddio minerale. In alcune zone di Orvieto tra tufo e argilla sono stati addirittura rinvenuti fossili appartenenti al Pliocene. Altra caratteristica tipica, dovuta alla compresenza di due grandi bacini idrici come il lago di Bolsena e la diga di Corbara, è l’elevato tasso di umidità, condizione che favorisce l’attacco delle uve da parte della botrytis cinerea. Il grechetto, al pari del furmint e del sauvignon, è uno dei (pochi) vitigni in grado di resistere alle muffe e viene tradizionalmente utilizzato nella produzione di passiti che ci siamo persino stancati di paragonare ai Sauternes e ai Tockaji.

Il fattore umano è in buona parte riconducibile, o quantomeno lo è stato inizialmente, a Sergio Mottura, pioniere e depositario, ma anche divulgatore, della formula che permette di cavare il sangue dalle rape. La chiave, secondo Mottura, sta nella tannicità che, se ben gestita, ne assicura un invecchiamento anche di lunghissimo termine. Altro aspetto essenziale sarebbe la potatura a guyot. Il resto, se vi interessa, potete chiederlo direttamente a lui facendogli visita nella cantina di paese dove notoriamente custodisce le vecchie annate. Lo sentirete lamentarsi dei tappi di sughero, unico vero limite ad una longevità che si direbbe sconfinata. Non a caso le ultime versioni del Poggio della Costa escono con lo Stelvin.

Ma, dicevo, Mottura ha diffuso il verbo. Chi ne ha fatto buon uso è senza dubbio La Pazzaglia, che coltiva entrambi i varietali di Todi e Orvieto – ah giusto, c’è questa cosa tecnica che vi avevo risparmiato e che ora mi tocca spiegare: i genotipi principali, sebbene abbiano caratteristiche abbastanza simili, sono due: il grechetto di Todi (g5), e il grechetto di Orvieto (g109). La bottiglia di punta della cantina, e forse non solo della cantina, è il Poggio Triale (g5). A monte c’è stata la scelta coraggiosa di Maria Teresa Verdecchia  di abbandonare i vitigni internazionali di famiglia e sacrificare la propria esistenza di ragazza spensierata, più o meno come una suora di clausura. Prima che lo diciate voi: scelta coraggiosa è un po’ come splendida cornice.

Ancora oggi, quando Maria Teresa si affaccia sulla valle e avvista i segni delle scorrerie notturne dei cinghiali, tira un sospiro che pare un’altra cosa e pensa a chi glie lo abbia fatto fare. La risposta la trova nel bicchiere: la soddisfazione di fiutare miele e idrocarburi ove un tempo si alternavano profumi erbacei e richiami floreali e quel fremito acido salino che trasforma una bevuta alcolica in una manna. Il sangue da una rapa.

P.s.: Un giorno vi racconterò di quella volta (è successo ieri sera, ma quella volta suona meglio) che ero a cena da Boccondivino, quello a Labro, non a Bra, e dopo aver stappato un Riesling della Mosella del 1999, Mauro mi versa un Grechetto di Trappolini del 2005 e, no, non sfigura per niente.

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Massimo Andreucci

Bianchista. Compulsivo. Uno che per indole starebbe sempre a mangiare e bere ma non potendolo fare ci scrive sopra qualche riga nel vano tentativo di prolungare una gioia sempre troppo breve.

3 Commenti

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Tomminoz

circa 5 anni fa - Link

SPLENDIDO!!!!!

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Nelle Nuvole

circa 5 anni fa - Link

Bella lettura accattivante assai. A rischio di essere tacciata di qualunquismo ed approssimazione, oltreché di arrivare dopo l'Amen, non posso esimermi dall'esprimere la mia profonda ammirazione per quel che tutta la Regione Umbria (con qualche aggiunta limitrofa)sta consolidando come produzione enoica, particolarmente fra i i vini bianchi.

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Enofobo

circa 5 anni fa - Link

Non è che se una parola finisce per essere ritrovata sulla bocca di tutti, allora si svaluta! "Terroir" vuol dire una cosa specifica, perché questa vergogna ad usarla :-) ?
Comunque, scelta coraggiosa lo scrivere di grechetto, pur nella splendida cornice di questo blog.

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